Approfitto del mio weekend bolognese e dell’iniziativa della Cineteca di proiettare gratuitamente per gli associati il film Grand Tour alla presenza del regista per cogliere l’opportunità sia di visitare finalmente il cinema Modernissimo – dove si tiene la proiezione – sia di vedere il film per il quale Miguel Gomes ha vinto il premio per la migliore regia a Cannes, che è il suo primo film che ha una distribuzione nel nostro paese.
Grand Tour è un film decisamente sui generis, che si sviluppa attorno a un plot minimale. Siamo nel 1918 in Birmania, dove Edward (Gonçalo Waddington), che è un funzionario dell’impero britannico, attende l’arrivo della fidanzata Molly (Crista Alfaiate) che non vede da sette anni e con cui dovrebbe sposarsi. Tuttavia, prima che Molly arrivi, Edward prende il primo piroscafo in partenza e comincia un lungo viaggio per l’estremo oriente, Thailandia, Vietnam, Filippine, Giappone, Cina, inseguito dalla fidanzata, arrivata a Rangoon poco dopo la sua partenza e decisa a raggiungerlo e a sposarlo.
Seguiremo in queste terre affascinanti e spesso in luoghi remoti prima Edward, poi Molly, e vivremo con loro esperienze, peripezie e incontri di vario tipo.
Questo viaggio si svolgerà in un’atmosfera che oscilla tra l’indagine sociologica e antropologica e il racconto onirico, avvalendosi di immagini in bianco e nero e a colori, che si alternano apparentemente senza una logica, e un voice over che nelle diverse regioni attraversate utilizzano la lingua locale, mentre invece i due protagonisti (britannici nella storia) parlano portoghese.
Le immagini che vediamo, pur essendo in molti casi atemporali, per cui creano l’illusione di riferirsi a un passato piuttosto remoto, non sono però sistematicamente depurate di ogni riferimento alla contemporaneità, cosicché talvolta il comparire di elementi come i telefoni cellulari o treni moderni crea un potente effetto di straniamento. Anche l’evolvere della narrazione procede in modo inusuale, e si ha quasi la sensazione che la sceneggiatura sia stata scritta dopo il montaggio, per adeguarsi ad esso, e non prima, come normalmente si fa.
A me è sembrato che Gomes, oltre a trarre ispirazione dal cinema americano, in particolare dalla screwball comedy, giochi con il meccanismo di sospensione dell’incredulità dello spettatore, prima trascinandolo nella storia e, subito dopo, costringendolo a prenderne le distanze.
Il regista – nella chiacchierata post film – ci racconta da dove è nata l’idea di fondo e le disavventure della lavorazione del film, iniziata nel gennaio del 2020, e terminata in maniera rocambolesca con una troupe nei luoghi del film collegata a distanza con la Spagna.
Difficile classificare questo film, e anche esprimere un giudizio: Gomes ci dice che è suo interesse lasciare allo spettatore la libertà di interpretare, di farsi un’idea, di costruire e ricostruire autonomamente i significati, senza preordinare sentimenti ed emozioni.
E così, tutto quello che c’è nel film - sentimenti, poesia, emozioni, osservazione, noia – troverà proporzioni diverse negli occhi di chi lo guarda.
Grand Tour non è un film che vuole dire cose specifiche o dare risposte: è una specie di esperienza cinematografica pura che invita a meravigliarsi ancora di fronte al potere di creazione e storytelling che è possibile con una telecamera in mano.
Per me un’esperienza sicuramente diversa da quelle a cui il cinema ci ha abituati negli ultimi decenni, e per questo valevole, anche a fronte di qualche lungaggine e momento di noia.
Voto: 3,5/5
venerdì 20 dicembre 2024
mercoledì 18 dicembre 2024
King Hannah. Monk, 5 dicembre 2024
Quando passa troppo tempo dall’ultima volta che sono andata ad ascoltare musica dal vivo ne sento così tanto la mancanza che comincio a farmi qualche giro sui siti in cui ci sono le programmazioni dei concerti a Roma e spero che ci sia qualcosa di interessante. E quasi sempre le migliori proposte arrivano dal Monk.
E dunque eccomi qua nel mio live club preferito di Roma per una serata in cui, oltre a un opening di Joe Gideon, cantautore che non conosco ma che ascolto gradevolmente, sono previsti ben due concerti, il primo dei King Hannah e il secondo dei The KVB. Io conosco poco o niente entrambi, ma da un qualche assaggio musicale, decido che andrò a sentire i King Hannah.
Alle 21.15 in punto salgono sul palco Craig Whittle e Hannah Merrick, i due componenti del gruppo, chitarra e voce entrambi (anche se è la Merrick la voce principale), accompagnati da un batterista e da un tastierista/bassista.
La Merrick è vestita con un bellissimo abito lungo rosso a balze, sopra delle Adidas, e quando comincia a cantare mi fa un effetto un po’ strano, per la sua aria tra il superiore e il distaccato. Sento qualcuno dietro di me che dice che Hannah è imperscrutabile e difficile da interpretare, e devo dire che lì per lì concordo.
Poi nel corso del live, man mano che Hannah si scioglie e comincia anche a interagire con il pubblico, capisco che probabilmente il suo è un modo di stare sul palco (che ci dice poco su di lei come persona), e che alla fine questo suo modo risulta estremamente efficace, fascinoso e quasi conturbante. A me – fatte le dovute e inevitabili differenze – ricorda un pochino, anche nel modo di cantare, la Patty Pravo dei tempi d’oro, soprattutto per certo modo di cantare parlato (cosiddetto spoken word). Un po’ mi ricorda anche Anna Calvi, che pure ama molto vestirsi di rosso sul palco, ma la Merrick mi sembra molto più minimalista sia nella performance che nel modo di cantare e suonare.
Durante il concerto i due ci suonano l’ultimo album, Big swimmer, praticamente per intero, ma non manca anche la cover di una canzone di Bruce Springsteen, State Trooper, e nel bis che segue alla loro uscita dal palco, una canzone “natalizia” da poco pubblicata, Blue Christmas.
E dunque eccomi qua nel mio live club preferito di Roma per una serata in cui, oltre a un opening di Joe Gideon, cantautore che non conosco ma che ascolto gradevolmente, sono previsti ben due concerti, il primo dei King Hannah e il secondo dei The KVB. Io conosco poco o niente entrambi, ma da un qualche assaggio musicale, decido che andrò a sentire i King Hannah.
Alle 21.15 in punto salgono sul palco Craig Whittle e Hannah Merrick, i due componenti del gruppo, chitarra e voce entrambi (anche se è la Merrick la voce principale), accompagnati da un batterista e da un tastierista/bassista.
La Merrick è vestita con un bellissimo abito lungo rosso a balze, sopra delle Adidas, e quando comincia a cantare mi fa un effetto un po’ strano, per la sua aria tra il superiore e il distaccato. Sento qualcuno dietro di me che dice che Hannah è imperscrutabile e difficile da interpretare, e devo dire che lì per lì concordo.
Poi nel corso del live, man mano che Hannah si scioglie e comincia anche a interagire con il pubblico, capisco che probabilmente il suo è un modo di stare sul palco (che ci dice poco su di lei come persona), e che alla fine questo suo modo risulta estremamente efficace, fascinoso e quasi conturbante. A me – fatte le dovute e inevitabili differenze – ricorda un pochino, anche nel modo di cantare, la Patty Pravo dei tempi d’oro, soprattutto per certo modo di cantare parlato (cosiddetto spoken word). Un po’ mi ricorda anche Anna Calvi, che pure ama molto vestirsi di rosso sul palco, ma la Merrick mi sembra molto più minimalista sia nella performance che nel modo di cantare e suonare.
Durante il concerto i due ci suonano l’ultimo album, Big swimmer, praticamente per intero, ma non manca anche la cover di una canzone di Bruce Springsteen, State Trooper, e nel bis che segue alla loro uscita dal palco, una canzone “natalizia” da poco pubblicata, Blue Christmas.
La scaletta completa ce la mette a disposizione Claudio Lancia nel suo live report per Ondarock.
Devo dire che – non conoscendoli quasi per niente – sono stata molto colpita dalla musica di questi due ragazzi di Liverpool che passa molto rapidamente da atmosfere più intimistiche e soft (come nella bellissima per me Suddenly, your hand) ad altre molto più post-punk e rock. Personalmente preferisco – per mia naturale propensione – le prime, e dunque apprezzo particolarmente le canzoni più notturne, ma è comunque un piacere ascoltare musica dal vivo interessante e ben fatta come in questo caso.
I King Hannah si sono conquistati un posto nel mio orizzonte musicale. E grazie, come sempre, al Monk.
Voto: 4/5
Devo dire che – non conoscendoli quasi per niente – sono stata molto colpita dalla musica di questi due ragazzi di Liverpool che passa molto rapidamente da atmosfere più intimistiche e soft (come nella bellissima per me Suddenly, your hand) ad altre molto più post-punk e rock. Personalmente preferisco – per mia naturale propensione – le prime, e dunque apprezzo particolarmente le canzoni più notturne, ma è comunque un piacere ascoltare musica dal vivo interessante e ben fatta come in questo caso.
I King Hannah si sono conquistati un posto nel mio orizzonte musicale. E grazie, come sempre, al Monk.
Voto: 4/5
lunedì 16 dicembre 2024
Il robot selvaggio
In un Cinema dei piccoli in cui io e S. siamo le uniche persone adulte non accompagnate da bambini vado finalmente a vedere il film della Dreamworks Il robot selvaggio.
Tratto dall’omonimo romanzo di Peter Brown, il film racconta la storia di Rozzum 7134, un robot che a causa di un tifone finisce sulle scogliere basaltiche di un’isola sperduta, dove non ci sono esseri umani, ma solo piante e animali.
Rozzum è programmata per servire e portare a termine dei compiti, cosicché cerca di applicare questo schema semplice che però si rivela del tutto inappropriato al contesto nel quale si trova. Gli animali la vedono come un mostro e ben presto Rozzum si troverà inseguita da un orso e durante la fuga distruggerà un nido di oche. Un unico uovo resta intero e da esso nasce un’oca che, per effetto dell’imprinting, considera Rozzum sua madre. Grazie all’aiuto di Fink, una volpe ingorda ma di buon cuore, Rozzum, detta “Roz”, capisce come svolgere questo compito, e impara a poco a poco l’empatia, andando al di là della pura esecuzione. Quando la sua casa di produzione manderà dei robot armati sull’isola per riportare Roz a casa, seminando morte e distruzione, Roz e tutta la comunità di animali dell’isola faranno fronte comune.
La storia de Il robot selvaggio è una fiaba ecologista, in cui tecnologia e natura si incontrano in maniera non necessariamente scontata e prevedibile: il robot ha qualcosa di freddo e meccanico nel suo modo di agire, ma è programmato per non procurare del male a nessuno (sebbene altri robot siano invece programmati per portare distruzione e morte); il mondo animale è pieno di vitalità e di forme di accudimento, ma anche di violenza e conflittualità, frutto della perenne lotta per la sopravvivenza. I veri assenti sono gli esseri umani, sebbene la loro presenza sia in qualche modo implicita, in quanto anello di congiunzione tra robot e natura.
Al di là della dose di melò e commozione inevitabile in un film per famiglie e bambini, tra le righe si legge un richiamo alla responsabilità degli esseri umani nella progettazione della tecnologia, affinché sia non solo a servizio dell’umanità, ma anche rispettosa della natura.
Devo dire che mi aspettavo un cartone più complesso e stratificato sul piano delle letture e dei significati; ciò detto, ammetto di essere sensibile al richiamo emotivo dei cartoni per bambini – su cui agisce molto meno il cinismo che invece tendo ad applicare ai film per adulti. In questo caso, poi, oltre a una sceneggiatura comunque intelligente, ho molto apprezzato le scelte stilistiche che rendono Il robot selvaggio un cartone quasi vintage per alcuni aspetti, con citazioni ad altri classici indimenticabili come Wall-e e Il castello errante di Howl.
Lamento forse troppa avventura e azione, mentre il personaggio di Roz avrebbe probabilmente meritato anche riflessione e contemplazione, e temo che l’esito sia che il film si collochi un po’ a metà strada, senza incontrare pienamente i desiderata dei bambini, ma anche senza soddisfare pienamente gli adulti.
Io comunque ho riso molto e mi sono anche commossa. E questo non è poco.
Voto: 3,5/5
Tratto dall’omonimo romanzo di Peter Brown, il film racconta la storia di Rozzum 7134, un robot che a causa di un tifone finisce sulle scogliere basaltiche di un’isola sperduta, dove non ci sono esseri umani, ma solo piante e animali.
Rozzum è programmata per servire e portare a termine dei compiti, cosicché cerca di applicare questo schema semplice che però si rivela del tutto inappropriato al contesto nel quale si trova. Gli animali la vedono come un mostro e ben presto Rozzum si troverà inseguita da un orso e durante la fuga distruggerà un nido di oche. Un unico uovo resta intero e da esso nasce un’oca che, per effetto dell’imprinting, considera Rozzum sua madre. Grazie all’aiuto di Fink, una volpe ingorda ma di buon cuore, Rozzum, detta “Roz”, capisce come svolgere questo compito, e impara a poco a poco l’empatia, andando al di là della pura esecuzione. Quando la sua casa di produzione manderà dei robot armati sull’isola per riportare Roz a casa, seminando morte e distruzione, Roz e tutta la comunità di animali dell’isola faranno fronte comune.
La storia de Il robot selvaggio è una fiaba ecologista, in cui tecnologia e natura si incontrano in maniera non necessariamente scontata e prevedibile: il robot ha qualcosa di freddo e meccanico nel suo modo di agire, ma è programmato per non procurare del male a nessuno (sebbene altri robot siano invece programmati per portare distruzione e morte); il mondo animale è pieno di vitalità e di forme di accudimento, ma anche di violenza e conflittualità, frutto della perenne lotta per la sopravvivenza. I veri assenti sono gli esseri umani, sebbene la loro presenza sia in qualche modo implicita, in quanto anello di congiunzione tra robot e natura.
Al di là della dose di melò e commozione inevitabile in un film per famiglie e bambini, tra le righe si legge un richiamo alla responsabilità degli esseri umani nella progettazione della tecnologia, affinché sia non solo a servizio dell’umanità, ma anche rispettosa della natura.
Devo dire che mi aspettavo un cartone più complesso e stratificato sul piano delle letture e dei significati; ciò detto, ammetto di essere sensibile al richiamo emotivo dei cartoni per bambini – su cui agisce molto meno il cinismo che invece tendo ad applicare ai film per adulti. In questo caso, poi, oltre a una sceneggiatura comunque intelligente, ho molto apprezzato le scelte stilistiche che rendono Il robot selvaggio un cartone quasi vintage per alcuni aspetti, con citazioni ad altri classici indimenticabili come Wall-e e Il castello errante di Howl.
Lamento forse troppa avventura e azione, mentre il personaggio di Roz avrebbe probabilmente meritato anche riflessione e contemplazione, e temo che l’esito sia che il film si collochi un po’ a metà strada, senza incontrare pienamente i desiderata dei bambini, ma anche senza soddisfare pienamente gli adulti.
Io comunque ho riso molto e mi sono anche commossa. E questo non è poco.
Voto: 3,5/5
venerdì 13 dicembre 2024
Laura Dean continua a lasciarmi / Mariko Tamaki e Rosemary Valero-O’Connell. Milano: Bao Publishing, 2020.
Mariko Tamaki, di cui già avevo letto il graphic novel E la chiamano estate, realizzato insieme alla cugina Jillian Tamaki, ci propone – questa volta appoggiandosi alle qualità di disegnatrice di Rosemary Valero-O’Connell - un altro romanzo di formazione la cui protagonista è Freddy (Frederica) Riley, una ragazza diciassettenne che ha una storia con la ragazza più interessante e ricercata della scuola, Laura Dean. Il fatto è che con Laura Dean il rapporto è tutto un lasciarsi e riprendersi, in cui in generale il bello e il cattivo tempo lo fa la stessa Laura, senza grande rispetto per i sentimenti di Freddy.
L’amore – si sa – è una cosa difficile e sfuggente, e soprattutto alle prime esperienze si fa fatica a mettere a fuoco i propri bisogni e a capire quali equilibri sono accettabili nel rapporto con l’altra persona. In più a 17 anni l’insicurezza e la tendenza a mettersi continuamente in discussione, mentre la propria personalità si sta ancora definendo, fanno il resto, creando rapporti decisamente poco equilibrati nei quali scambiamo la sofferenza e l’umiliazione per amore.
Freddy, che pure ha amici che le vogliono molto bene, in particolare la sua migliore amica Doodle, è talmente presa dalla necessità di inseguire Laura che non si accorge di quello che accade ai suoi amici e finisce per trascurarli più o meno consapevolmente.
Sarà solo di fronte alla situazione nella quale si troverà Doodle che Freddy capirà quanto di sbagliato e di immaturo c’è nel rapporto con Laura, e quanto il passaggio alla vita adulta ponga di fronte a delle scelte, talvolta anche faticose e dolorose.
Quello di Mariko Tamaki e Rosemary Valero-O’Connell è chiaramente un teen novel a fumetti, e in totale consonanza con il genere non punta alla profondità e allo spessore psicologico, bensì alla rappresentazione di un’età della vita, in un contesto che fino a qualche anno fa sarebbe stato impensabile raccontare in questi termini: la relazione tra due ragazze, un ambiente di amici più o meno queer, e un rapporto aperto con le famiglie da questo punto di vista. Il mondo è cambiato, ma i temi e i problemi della crescita sono gli stessi, così come le difficoltà di costruire rapporti sentimentali non tossici. Il contesto teen e queer è ben accompagnato dai bei disegni della Valero-O’Connell, tutti virati in una palette di grigio, rosa e rosa pesco, che valorizzano i tratti ancora infantili che attraversano la vita delle protagoniste, come per esempio è sottolineato dai giochi che Freddy e Doodle fanno con i loro pupazzi (ne comprano diversi e li disassemblano per poi riassemblarli in maniere originali, un po’ tenere e un po’ mostruose), pupazzi che talvolta “dialogano” con la protagonista.
Un graphic novel che – pur nella sua semplicità e senza dire cose particolarmente originali o nuove – segna comunque un cambiamento dei tempi e rappresenta in maniera molto fresca e partecipata il mondo degli adolescenti di oggi, più liberi eppure altrettanto insicuri di quanto fossimo noi alla loro età.
Voto: 3,5/5
L’amore – si sa – è una cosa difficile e sfuggente, e soprattutto alle prime esperienze si fa fatica a mettere a fuoco i propri bisogni e a capire quali equilibri sono accettabili nel rapporto con l’altra persona. In più a 17 anni l’insicurezza e la tendenza a mettersi continuamente in discussione, mentre la propria personalità si sta ancora definendo, fanno il resto, creando rapporti decisamente poco equilibrati nei quali scambiamo la sofferenza e l’umiliazione per amore.
Freddy, che pure ha amici che le vogliono molto bene, in particolare la sua migliore amica Doodle, è talmente presa dalla necessità di inseguire Laura che non si accorge di quello che accade ai suoi amici e finisce per trascurarli più o meno consapevolmente.
Sarà solo di fronte alla situazione nella quale si troverà Doodle che Freddy capirà quanto di sbagliato e di immaturo c’è nel rapporto con Laura, e quanto il passaggio alla vita adulta ponga di fronte a delle scelte, talvolta anche faticose e dolorose.
Quello di Mariko Tamaki e Rosemary Valero-O’Connell è chiaramente un teen novel a fumetti, e in totale consonanza con il genere non punta alla profondità e allo spessore psicologico, bensì alla rappresentazione di un’età della vita, in un contesto che fino a qualche anno fa sarebbe stato impensabile raccontare in questi termini: la relazione tra due ragazze, un ambiente di amici più o meno queer, e un rapporto aperto con le famiglie da questo punto di vista. Il mondo è cambiato, ma i temi e i problemi della crescita sono gli stessi, così come le difficoltà di costruire rapporti sentimentali non tossici. Il contesto teen e queer è ben accompagnato dai bei disegni della Valero-O’Connell, tutti virati in una palette di grigio, rosa e rosa pesco, che valorizzano i tratti ancora infantili che attraversano la vita delle protagoniste, come per esempio è sottolineato dai giochi che Freddy e Doodle fanno con i loro pupazzi (ne comprano diversi e li disassemblano per poi riassemblarli in maniere originali, un po’ tenere e un po’ mostruose), pupazzi che talvolta “dialogano” con la protagonista.
Un graphic novel che – pur nella sua semplicità e senza dire cose particolarmente originali o nuove – segna comunque un cambiamento dei tempi e rappresenta in maniera molto fresca e partecipata il mondo degli adolescenti di oggi, più liberi eppure altrettanto insicuri di quanto fossimo noi alla loro età.
Voto: 3,5/5
mercoledì 11 dicembre 2024
Il giardino dei ciliegi / regia di Leonardo Lidi. Teatro Vascello, 3 dicembre 2024
Inserisco al volo questo spettacolo nella mia programmazione teatrale dell’autunno perché mi arrivano voci molto positive in merito. E così, dopo una lunghissima giornata di lavoro, eccomi al Teatro Vascello a vedere Il giardino dei ciliegi, il terzo lavoro – dopo Il gabbiano e Lo zio Vanja - della trilogia dedicata alle opere di Anton Čechov da parte del regista Leonardo Lidi.
De Il giardino dei ciliegi non so praticamente nulla, né ho tempo di fare qualche piccolo ripasso prima dello spettacolo, così mi affido completamente al regista e agli attori di questa messa in scena.
Il palcoscenico è cosparso di sedie di plastica impilabili ed è delimitato da tende argentate che scendono dal soffitto, una specie di balera abbandonata dove cominciano a interagire alcuni personaggi le cui relazioni reciproche non sempre sono chiare. A un certo punto, sulle note di Ritornerai di Bruno Lauzi, il palco si affolla di molti altri personaggi, una famiglia e connessi vari, che tornano da non si sa dove dopo molto tempo.
Molta parte delle conversazioni che si svilupperanno di qui in poi ruoteranno intorno a un famigerato giardino dei ciliegi che fa parte della proprietà dove è ambientata la pièce. Questa proprietà gestita dal figlio del contadino che per tanto tempo ha servito i proprietari, figlio che è ormai un ricco imprenditore e al rientro della famiglia dichiara fin da subito la necessità/opportunità di vendere il giardino dei ciliegi e farci costruire villette.
In una scenografia che cambia principalmente grazie a un grande pannello parallelo al palcoscenico che in alcuni casi fa da soffitto e in altri fa da pavimento per gli attori – come nella scena a bordo piscina -, gli improbabili protagonisti di questa estate di ritorni e cambiamenti entrano ed escono dalla scena, interagendo in modi non sempre del tutto intellegibili, o producendosi in monologhi che a volte rasentano l’assurdo. Il più delle volte ne viene fuori un effetto straniante e farsesco che strappa a più riprese la risata (dietro di me ci sono dei ragazzi molto giovani che ridono moltissimo per tutto lo spettacolo).
In questa confusione creativa e a tratti destabilizzante, ma devo dire mai noiosa, appare chiaro però che al centro di tutto ci sono temi quali l’arrivismo, la privatizzazione, il parassitismo e molto altro. Ed è abbastanza evidente che quel giardino, che si vuole vendere perché ormai i suoi frutti non rendono molto in termini puramente economici, può rappresentare qualunque realtà culturale pubblica – il teatro in primis – che, pur oggetto di affezione e nostalgie, non è più coerente con l’orientamento al profitto e la pretesa sostenibilità di qualunque investimento.
Il senso di dismissione, decadenza, sgretolamento che attraversa – seppure con un approccio molto giocoso e apparentemente scombinato – questa messa in scena troverà il suo apice nel disallestimento finale di tutta la scenografia che mostrerà infine i personaggi, ciascuno isolato nelle sue piccole o grandi tristezze, in mezzo agli oggetti di scena e a tutta la strumentazione che le quinte normalmente nascondono.
Non sono in grado di dire che tipo di lettura sia quella di Lidi rispetto all’originale checoviano, né quanto ci sia di checoviano in questa reinterpretazione, però senza dubbio la regia di Lidi dimostra personalità nel fare arrivare allo spettatore un approccio ben preciso, sebbene sghembo.
Voto: 3,5/5
De Il giardino dei ciliegi non so praticamente nulla, né ho tempo di fare qualche piccolo ripasso prima dello spettacolo, così mi affido completamente al regista e agli attori di questa messa in scena.
Il palcoscenico è cosparso di sedie di plastica impilabili ed è delimitato da tende argentate che scendono dal soffitto, una specie di balera abbandonata dove cominciano a interagire alcuni personaggi le cui relazioni reciproche non sempre sono chiare. A un certo punto, sulle note di Ritornerai di Bruno Lauzi, il palco si affolla di molti altri personaggi, una famiglia e connessi vari, che tornano da non si sa dove dopo molto tempo.
Molta parte delle conversazioni che si svilupperanno di qui in poi ruoteranno intorno a un famigerato giardino dei ciliegi che fa parte della proprietà dove è ambientata la pièce. Questa proprietà gestita dal figlio del contadino che per tanto tempo ha servito i proprietari, figlio che è ormai un ricco imprenditore e al rientro della famiglia dichiara fin da subito la necessità/opportunità di vendere il giardino dei ciliegi e farci costruire villette.
In una scenografia che cambia principalmente grazie a un grande pannello parallelo al palcoscenico che in alcuni casi fa da soffitto e in altri fa da pavimento per gli attori – come nella scena a bordo piscina -, gli improbabili protagonisti di questa estate di ritorni e cambiamenti entrano ed escono dalla scena, interagendo in modi non sempre del tutto intellegibili, o producendosi in monologhi che a volte rasentano l’assurdo. Il più delle volte ne viene fuori un effetto straniante e farsesco che strappa a più riprese la risata (dietro di me ci sono dei ragazzi molto giovani che ridono moltissimo per tutto lo spettacolo).
In questa confusione creativa e a tratti destabilizzante, ma devo dire mai noiosa, appare chiaro però che al centro di tutto ci sono temi quali l’arrivismo, la privatizzazione, il parassitismo e molto altro. Ed è abbastanza evidente che quel giardino, che si vuole vendere perché ormai i suoi frutti non rendono molto in termini puramente economici, può rappresentare qualunque realtà culturale pubblica – il teatro in primis – che, pur oggetto di affezione e nostalgie, non è più coerente con l’orientamento al profitto e la pretesa sostenibilità di qualunque investimento.
Il senso di dismissione, decadenza, sgretolamento che attraversa – seppure con un approccio molto giocoso e apparentemente scombinato – questa messa in scena troverà il suo apice nel disallestimento finale di tutta la scenografia che mostrerà infine i personaggi, ciascuno isolato nelle sue piccole o grandi tristezze, in mezzo agli oggetti di scena e a tutta la strumentazione che le quinte normalmente nascondono.
Non sono in grado di dire che tipo di lettura sia quella di Lidi rispetto all’originale checoviano, né quanto ci sia di checoviano in questa reinterpretazione, però senza dubbio la regia di Lidi dimostra personalità nel fare arrivare allo spettatore un approccio ben preciso, sebbene sghembo.
Voto: 3,5/5
lunedì 9 dicembre 2024
Familia
Dopo averlo perso in sala, riesco a recuperare il film di Francesco Costabile grazie alla Casa del cinema che decide con questo film di celebrare la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
Familia è infatti una storia familiare di violenze fisiche e psicologiche ispirata alla vera vicenda di Luigi Celeste che nel 2008 sparò al padre e finì in carcere per nove anni.
Personalmente non conoscevo la storia da cui il film è tratto, e che è stata raccontata dallo stesso Luigi nel libro Non sarà sempre così, né avevo letto granché prima di andare al cinema, quindi ho potuto apprezzare fino in fondo la suspence dello sviluppo narrativo.
La storia è dunque quella della famiglia Celeste, la madre Licia (Barbara Ronchi), il padre Franco (Francesco Di Leva), e i due figli, Alessandro e Luigi. Fin da quando sono bambini, Alessandro e Luigi sono immersi in un contesto familiare tossico, in cui il padre Franco esercita continue forme di violenza fisica e non solo nei confronti della madre. A un certo punto, Licia trova la forza di denunciare la situazione e, come conseguenza, il padre viene allontanato di casa, ma i due bambini vengono sottratti alla madre per 4 anni. Li ritroviamo dopo 9 anni giovani adulti (interpretati rispettivamente da Marco Cicalese e Francesco Gheghi) nella nuova casa dove vivono insieme alla madre. In questo tempo, mentre Alessandro è rimasto un ragazzo pacifico e silenzioso, Luigi ha sviluppato ulteriormente la sua vena ribelle che lo ha portato ad avvicinarsi ai gruppi romani di estrema destra. Quando finisce in carcere per aver accoltellato un altro ragazzo durante una rissa, ricompare il padre Franco che, proprio attraverso questo suo figlio inquieto e pieno di rabbia, si riavvicina alla famiglia. Sarà per tutti il ritorno all’incubo già vissuto in passato fino al tragico epilogo.
Il film di Costabile è ben realizzato e costruito sia sul piano narrativo che stilistico per mantenere un livello di tensione molto alto per la sua intera durata. Colonna sonora, uso del ralenti e dello sfocato sono solo alcuni degli elementi che contribuiscono a trasmettere allo spettatore un senso di pericolo costante e di tragedia imminente; non manca però il senso di rabbia inevitabile di fronte a una situazione di questo tipo, e alle fragilità che questi uomini sfruttano per esercitare il loro dominio.
Parte importante della buona riuscita del film è l’interpretazione degli attori: Barbara Ronchi già la conosciamo (e forse questa non è nemmeno una delle sue migliori interpretazioni); ho trovato invece eccellenti le interpretazioni di Francesco Di Leva nel ruolo di questo marito e padre manipolatore e violento e soprattutto di Francesco Gheghi (già apprezzato ne Il filo invisibile), che ha veramente uno sguardo ipnotico, capace di trasmettere, a distanza di pochi minuti, tenerezza e rabbia.
Nel complesso un buon film che raggiunge il risultato che si ripromette. Forse a tratti c’è un uso eccessivo delle tecniche del ralenti e dello sfocato, che in alcuni casi mi pare appesantisca un po' troppo la narrazione.
Voto: 3,5/5
Familia è infatti una storia familiare di violenze fisiche e psicologiche ispirata alla vera vicenda di Luigi Celeste che nel 2008 sparò al padre e finì in carcere per nove anni.
Personalmente non conoscevo la storia da cui il film è tratto, e che è stata raccontata dallo stesso Luigi nel libro Non sarà sempre così, né avevo letto granché prima di andare al cinema, quindi ho potuto apprezzare fino in fondo la suspence dello sviluppo narrativo.
La storia è dunque quella della famiglia Celeste, la madre Licia (Barbara Ronchi), il padre Franco (Francesco Di Leva), e i due figli, Alessandro e Luigi. Fin da quando sono bambini, Alessandro e Luigi sono immersi in un contesto familiare tossico, in cui il padre Franco esercita continue forme di violenza fisica e non solo nei confronti della madre. A un certo punto, Licia trova la forza di denunciare la situazione e, come conseguenza, il padre viene allontanato di casa, ma i due bambini vengono sottratti alla madre per 4 anni. Li ritroviamo dopo 9 anni giovani adulti (interpretati rispettivamente da Marco Cicalese e Francesco Gheghi) nella nuova casa dove vivono insieme alla madre. In questo tempo, mentre Alessandro è rimasto un ragazzo pacifico e silenzioso, Luigi ha sviluppato ulteriormente la sua vena ribelle che lo ha portato ad avvicinarsi ai gruppi romani di estrema destra. Quando finisce in carcere per aver accoltellato un altro ragazzo durante una rissa, ricompare il padre Franco che, proprio attraverso questo suo figlio inquieto e pieno di rabbia, si riavvicina alla famiglia. Sarà per tutti il ritorno all’incubo già vissuto in passato fino al tragico epilogo.
Il film di Costabile è ben realizzato e costruito sia sul piano narrativo che stilistico per mantenere un livello di tensione molto alto per la sua intera durata. Colonna sonora, uso del ralenti e dello sfocato sono solo alcuni degli elementi che contribuiscono a trasmettere allo spettatore un senso di pericolo costante e di tragedia imminente; non manca però il senso di rabbia inevitabile di fronte a una situazione di questo tipo, e alle fragilità che questi uomini sfruttano per esercitare il loro dominio.
Parte importante della buona riuscita del film è l’interpretazione degli attori: Barbara Ronchi già la conosciamo (e forse questa non è nemmeno una delle sue migliori interpretazioni); ho trovato invece eccellenti le interpretazioni di Francesco Di Leva nel ruolo di questo marito e padre manipolatore e violento e soprattutto di Francesco Gheghi (già apprezzato ne Il filo invisibile), che ha veramente uno sguardo ipnotico, capace di trasmettere, a distanza di pochi minuti, tenerezza e rabbia.
Nel complesso un buon film che raggiunge il risultato che si ripromette. Forse a tratti c’è un uso eccessivo delle tecniche del ralenti e dello sfocato, che in alcuni casi mi pare appesantisca un po' troppo la narrazione.
Voto: 3,5/5
venerdì 6 dicembre 2024
Emilia Pérez
Grazie alla Lucky Red di Andrea Occhipinti ho la possibilità – insieme ad altre centinaia di persone in Italia – di vedere in anteprima, nelle sale Circuito Cinema, l’ultimo film di Jacques Audiard che ha vinto a Cannes il Premio della giuria, mentre il premio per la migliore attrice è andato in realtà alle quattro attrici che tengono la scena in questo film, Karla Sofía Gascón, Selena Gomez, Adriana Paz e Zoe Saldana.
In questa serata gratuita e speciale, prima della visione del film abbiamo anche la possibilità di seguire in streaming (in diretta dal cinema Quattro fontane) la presentazione a cura di Gabriele Niola in cui sono ospiti lo stesso Audiard e l’attrice Karla Sofía Gascón. Il siparietto tra i due – molto ben orchestrato da Niola – è divertente, anche perché Audiard parla solo in francese e la Gascón parla un buon italiano ma non parla francese. Il primo è sornione, la seconda è esuberante: i due convergono su un punto, a nessuno dei due piacciono i musical. Eppure, quello che stiamo per vedere è – anche – un musical.
In realtà, definire quest’ultimo film di Audiard è davvero difficile, e certamente qualunque definizione è destinata a stargli stretta. Così come è difficile raccontare la trama di questo film, che contiene un’idea iniziale che corrisponde al primo snodo narrativo (il narcotrafficante Manitas del Monte fa rapire Rita Moro Castro per farsi aiutare a cambiare sesso e inscenare la sua morte), ma poi si sviluppa in molteplici altre linee narrative principali e secondarie, che vedono protagoniste quattro donne: la Emilia Pérez (Karla Sofía Gascón) che si è lasciata alle spalle Manitas, l’avvocata Rita (Zoe Saldana), la moglie di Manitas Jessie (Selena Gomez), Epifanía (Adriana Paz) con cui Emilia inizia una storia.
Dentro una confezione che è quella di un musical, ma a tratti anche di un polar, di una telenovela, di un romance, e mille altre cose, Audiard costruisce un universo caleidoscopico e rutilante, in cui la narrazione pur mantenendo una sua coerenza di fondo, spiazza continuamente lo spettatore, prende percorsi laterali, va in territori inesplorati e inattesi. In mano a qualcun altro questa materia magmatica e incandescente sarebbe potuta esplodere, e invece nel film di Audiard tutto si tiene, non solo per la maestria del regista, ma perché agisce in sottofondo una straordinaria forza centripeta, quella delle donne che animano e conferiscono spessore a questa storia, anzi che fanno questa storia, e forse fanno LA storia.
Tutto il film vive nel cambiamento, da quello iniziale di Manitas che diventa Emilia, a tutti quelli successivi, che sono stilistici e narrativi: una vera e propria ode al cambiamento, che è il cuore pulsante dell’esistenza e al contempo è un auspicio, perché in questo film le cose cambiano grazie all’emancipazione e al riscatto delle donne.
E forse il cambiamento è l’essenza stessa del cinema di Audiard, diversissimo da film a film, quasi da rendere irriconoscibile la mano del regista nelle sue diverse incarnazioni cinematografiche, eppure straordinariamente coerente nel suo approccio libero e profondamente curioso al mondo e all’umanità.
Voto: 4/5
In questa serata gratuita e speciale, prima della visione del film abbiamo anche la possibilità di seguire in streaming (in diretta dal cinema Quattro fontane) la presentazione a cura di Gabriele Niola in cui sono ospiti lo stesso Audiard e l’attrice Karla Sofía Gascón. Il siparietto tra i due – molto ben orchestrato da Niola – è divertente, anche perché Audiard parla solo in francese e la Gascón parla un buon italiano ma non parla francese. Il primo è sornione, la seconda è esuberante: i due convergono su un punto, a nessuno dei due piacciono i musical. Eppure, quello che stiamo per vedere è – anche – un musical.
In realtà, definire quest’ultimo film di Audiard è davvero difficile, e certamente qualunque definizione è destinata a stargli stretta. Così come è difficile raccontare la trama di questo film, che contiene un’idea iniziale che corrisponde al primo snodo narrativo (il narcotrafficante Manitas del Monte fa rapire Rita Moro Castro per farsi aiutare a cambiare sesso e inscenare la sua morte), ma poi si sviluppa in molteplici altre linee narrative principali e secondarie, che vedono protagoniste quattro donne: la Emilia Pérez (Karla Sofía Gascón) che si è lasciata alle spalle Manitas, l’avvocata Rita (Zoe Saldana), la moglie di Manitas Jessie (Selena Gomez), Epifanía (Adriana Paz) con cui Emilia inizia una storia.
Dentro una confezione che è quella di un musical, ma a tratti anche di un polar, di una telenovela, di un romance, e mille altre cose, Audiard costruisce un universo caleidoscopico e rutilante, in cui la narrazione pur mantenendo una sua coerenza di fondo, spiazza continuamente lo spettatore, prende percorsi laterali, va in territori inesplorati e inattesi. In mano a qualcun altro questa materia magmatica e incandescente sarebbe potuta esplodere, e invece nel film di Audiard tutto si tiene, non solo per la maestria del regista, ma perché agisce in sottofondo una straordinaria forza centripeta, quella delle donne che animano e conferiscono spessore a questa storia, anzi che fanno questa storia, e forse fanno LA storia.
Tutto il film vive nel cambiamento, da quello iniziale di Manitas che diventa Emilia, a tutti quelli successivi, che sono stilistici e narrativi: una vera e propria ode al cambiamento, che è il cuore pulsante dell’esistenza e al contempo è un auspicio, perché in questo film le cose cambiano grazie all’emancipazione e al riscatto delle donne.
E forse il cambiamento è l’essenza stessa del cinema di Audiard, diversissimo da film a film, quasi da rendere irriconoscibile la mano del regista nelle sue diverse incarnazioni cinematografiche, eppure straordinariamente coerente nel suo approccio libero e profondamente curioso al mondo e all’umanità.
Voto: 4/5
mercoledì 4 dicembre 2024
Fernando Botero. La grande mostra. Palazzo Bonaparte, 24 novembre 2024
Per la prima volta, grazie alla proposta della mia amica I., sperimento la visita a una mostra temporanea con un’associazione che non conoscevo, Rome guides. I. me ne ha raccontato meraviglie e a questo punto ho grandi aspettative.
Quando arriviamo al punto di incontro del gruppo, poco distante dall’ingresso di Palazzo Bonaparte, la nostra guida, Vincenzo, è vestito con un costume gonfiabile ispirato alla ballerina di Botero. Non posso credere ai miei occhi, ma pare che per Vincenzo ogni mostra è l’occasione per una invenzione di questo tipo. E già sono conquistata.
Quando poi entriamo a vedere la mostra, la nostra guida non solo dimostra di essere preparatissimo e di aver curato tutto nei minimi dettagli, ma si conferma simpatico e narrativo in un modo gradevole e assolutamente efficace.
Inizia così questo viaggio alla scoperta di Fernando Botero, il famoso artista colombiano morto nel 2003 a 91 anni. Conosciamo dunque innanzitutto il percorso artistico di Botero, e poi a poco a poco scopriamo sia aspetti della sua vita personale e soprattutto le caratteristiche della sua arte: le tecniche, i soggetti, lo stile, e tutto quello che c’è dietro.
Tutto questo lo scopriamo attraversando le sale di Palazzo Bonaparte dove sono esposte centinaia di opere dell’artista: dipinti realizzati con tecniche diverse, disegni, sculture, raccolti sulla base delle tematiche sviluppate dall’artista, ma seguendone anche il percorso.
La cosa bella di questa visita guidata è che non ci limitiamo a guardare le opere, ma cerchiamo di entrare nello spirito di Botero, e così a poco a poco, dietro le sue figure obese e un po’ bambinesche, non vediamo più quella componente buffa che si coglie al primo impatto, bensì riconosciamo una specie di pacatezza malinconica, che finisce per tradursi in assenza di emozioni forti o estreme.
Nella sua arte, Botero sembra cercare di depurare il mondo dai sentimenti troppo forti che caratterizzano le nostre vite, riconducendo i suoi personaggi a una dimensione altra, in cui tutto è attenuato, in sordina, e questo vale per tutto, dalle scelte estetiche (per esempio i colori pastellati) ai contenuti.
Usciamo dalla mostra non solo con gli occhi completamente pieni delle forme generose dei personaggi di Botero, ma certamente con una conoscenza molto meno superficiale della sua arte e del modo in cui questo artista ha scelto di dialogare con la contemporaneità e l’umanità.
Vincenzo è davvero una super guida: competente, appassionato e appassionante.
Sono sicura che non sarà l’ultima mostra che visiterò con lui.
Voto: 3,5/5
Quando arriviamo al punto di incontro del gruppo, poco distante dall’ingresso di Palazzo Bonaparte, la nostra guida, Vincenzo, è vestito con un costume gonfiabile ispirato alla ballerina di Botero. Non posso credere ai miei occhi, ma pare che per Vincenzo ogni mostra è l’occasione per una invenzione di questo tipo. E già sono conquistata.
Quando poi entriamo a vedere la mostra, la nostra guida non solo dimostra di essere preparatissimo e di aver curato tutto nei minimi dettagli, ma si conferma simpatico e narrativo in un modo gradevole e assolutamente efficace.
Inizia così questo viaggio alla scoperta di Fernando Botero, il famoso artista colombiano morto nel 2003 a 91 anni. Conosciamo dunque innanzitutto il percorso artistico di Botero, e poi a poco a poco scopriamo sia aspetti della sua vita personale e soprattutto le caratteristiche della sua arte: le tecniche, i soggetti, lo stile, e tutto quello che c’è dietro.
Tutto questo lo scopriamo attraversando le sale di Palazzo Bonaparte dove sono esposte centinaia di opere dell’artista: dipinti realizzati con tecniche diverse, disegni, sculture, raccolti sulla base delle tematiche sviluppate dall’artista, ma seguendone anche il percorso.
La cosa bella di questa visita guidata è che non ci limitiamo a guardare le opere, ma cerchiamo di entrare nello spirito di Botero, e così a poco a poco, dietro le sue figure obese e un po’ bambinesche, non vediamo più quella componente buffa che si coglie al primo impatto, bensì riconosciamo una specie di pacatezza malinconica, che finisce per tradursi in assenza di emozioni forti o estreme.
Nella sua arte, Botero sembra cercare di depurare il mondo dai sentimenti troppo forti che caratterizzano le nostre vite, riconducendo i suoi personaggi a una dimensione altra, in cui tutto è attenuato, in sordina, e questo vale per tutto, dalle scelte estetiche (per esempio i colori pastellati) ai contenuti.
Usciamo dalla mostra non solo con gli occhi completamente pieni delle forme generose dei personaggi di Botero, ma certamente con una conoscenza molto meno superficiale della sua arte e del modo in cui questo artista ha scelto di dialogare con la contemporaneità e l’umanità.
Vincenzo è davvero una super guida: competente, appassionato e appassionante.
Sono sicura che non sarà l’ultima mostra che visiterò con lui.
Voto: 3,5/5
lunedì 2 dicembre 2024
Giurato numero 2
Con Clint Eastwood il mio rapporto è da sempre altalenante: a film che mi colpiscono e mi piacciono molto seguono film che mi lasciano completamente indifferente (e che per questo finiscono nel dimenticatoio), ovvero film che non riesco proprio ad apprezzare. Proprio per questo, però, di fronte all’uscita di un suo nuovo lavoro non riesco quasi mai a sottrarmi alla visione, perché so di potermi aspettare qualunque cosa.
La cosa più sorprendente è che Eastwood ha ancora punti di vista interessanti sul mondo e sulla contemporaneità e riesce ancora a tradurli in prodotti cinematografici di grande lucidità e qualità nonostante la veneranda età di 94 anni.
Con Giurato numero 2 mi pare che Eastwood realizzi – anche grazie alla solida sceneggiatura di Jonathan Abrams - uno dei suoi migliori film degli ultimi 10-15 anni, sebbene non possa fare un confronto puntuale in quanto non ho visto tutti quelli usciti.
Protagonista del film è Justin Kemp (Nicholas Hoult), un giovane uomo che è stato chiamato a far parte della giuria popolare in un caso di omicidio. Si tratta della morte di una donna, Kendall, trovata nel dirupo sotto un ponte dopo essere stata vista litigare con il suo fidanzato James dentro e fuori da un bar. L’avvocata dell’accusa, Faith Killebrew (Toni Collette), è convinta che James sia colpevole e che si tratti dell’ennesimo caso in cui un uomo non accetta di essere lasciato dalla sua donna e reagisce con violenza; si batte dunque come una leonessa durante il processo per dimostrare la colpevolezza, tanto più che dall’esito di questo processo potrebbe dipendere la sua nomina a procuratore distrettuale. Ben presto però Justin, ascoltando la ricostruzione del caso, si rende conto di essere coinvolto in esso, dal momento che la sera del litigio si trovava nello stesso bar di James e Kendall, e sulla via del ritorno a casa, a causa della pioggia e del fatto di essere sconvolto per una vicenda personale, aveva colpito qualcosa sulla strada, senza capire cosa e convincendosi che si fosse trattato di un cervo. Ben presto Justin realizza di essere lui, pur senza esserne consapevole, l’assassino di Kendall.
A questo punto Justin si trova di fronte a un’impasse: se confessa, visto il suo passato di alcolista, rischia moltissimo e non se lo può permettere perché sta diventando padre e sua moglie ha bisogno di lui, ma se non fa qualcosa per convincere gli altri giurati James è destinato a essere condannato ingiustamente.
Quello di Eastwood è un classico film processuale, ma il cuore della narrazione in questo caso non sta nell’interrogare lo spettatore su chi sia il colpevole, dal momento che la verità la conosciamo molto presto, ma nell’indagare sui meccanismi della giustizia e sulla loro imperfezione. Anzi, a dire la verità, a me pare che il film di Eastwood si voglia interrogare sui modi in cui ognuno di noi costruisce opinioni e giudizi sui fatti di cui non abbia esperienza diretta. In Giurato numero 2 non c’è alcuna rappresentazione manichea della società e nessuno dei protagonisti è un mostro: Justin ha un passato da alcolista ma è pulito da parecchio tempo e sta investendo tutte le sue energie nel costruire una famiglia e James ha sicuramente un passato di marginalità e violenza, ma se l’è lasciato alle spalle e lo rivendica fermamente. Tutti gli altri – gli avvocati, i testimoni e i membri della giuria - agiscono sostanzialmente in buona fede, al massimo gli si possono addebitare superficialità e/o pregiudizi, condizionati come sono dal vissuto personale, dai problemi individuali, dalle esperienze pregresse, dai convincimenti ideologici.
Se in Anatomia di una caduta Justine Triet pone gli spettatori di fronte all’impossibilità di conoscere la verità e li costringe a interrogarsi sui meccanismi personali che portano ciascuno a prendere posizioni o a costruirsi il proprio giudizio, in Giurato numero 2 Eastwood rappresenta tutto (o quasi) il ventaglio dei possibili approcci che le persone chiamate a prendere una posizione di fronte a una vicenda adottano e costringe gli spettatori a empatizzare con il protagonista senza la possibilità di collocarsi super partes.
Ne viene fuori il quadro di una società fortemente atomizzata, in cui gli individui fanno sempre più fatica o hanno sempre meno voglia di conciliare la necessità di preservare il proprio benessere con un superiore bene collettivo, una forma di egoismo e superficialità di massa, di cui siamo tutti vittime più che fautori. E tutto questo Eastwood ce lo racconta non in maniera giudicante e moraleggiante, ma come una sconfitta collettiva, senza però abbandonare del tutto la speranza.
Da vedere.
Voto: 4/5
La cosa più sorprendente è che Eastwood ha ancora punti di vista interessanti sul mondo e sulla contemporaneità e riesce ancora a tradurli in prodotti cinematografici di grande lucidità e qualità nonostante la veneranda età di 94 anni.
Con Giurato numero 2 mi pare che Eastwood realizzi – anche grazie alla solida sceneggiatura di Jonathan Abrams - uno dei suoi migliori film degli ultimi 10-15 anni, sebbene non possa fare un confronto puntuale in quanto non ho visto tutti quelli usciti.
Protagonista del film è Justin Kemp (Nicholas Hoult), un giovane uomo che è stato chiamato a far parte della giuria popolare in un caso di omicidio. Si tratta della morte di una donna, Kendall, trovata nel dirupo sotto un ponte dopo essere stata vista litigare con il suo fidanzato James dentro e fuori da un bar. L’avvocata dell’accusa, Faith Killebrew (Toni Collette), è convinta che James sia colpevole e che si tratti dell’ennesimo caso in cui un uomo non accetta di essere lasciato dalla sua donna e reagisce con violenza; si batte dunque come una leonessa durante il processo per dimostrare la colpevolezza, tanto più che dall’esito di questo processo potrebbe dipendere la sua nomina a procuratore distrettuale. Ben presto però Justin, ascoltando la ricostruzione del caso, si rende conto di essere coinvolto in esso, dal momento che la sera del litigio si trovava nello stesso bar di James e Kendall, e sulla via del ritorno a casa, a causa della pioggia e del fatto di essere sconvolto per una vicenda personale, aveva colpito qualcosa sulla strada, senza capire cosa e convincendosi che si fosse trattato di un cervo. Ben presto Justin realizza di essere lui, pur senza esserne consapevole, l’assassino di Kendall.
A questo punto Justin si trova di fronte a un’impasse: se confessa, visto il suo passato di alcolista, rischia moltissimo e non se lo può permettere perché sta diventando padre e sua moglie ha bisogno di lui, ma se non fa qualcosa per convincere gli altri giurati James è destinato a essere condannato ingiustamente.
Quello di Eastwood è un classico film processuale, ma il cuore della narrazione in questo caso non sta nell’interrogare lo spettatore su chi sia il colpevole, dal momento che la verità la conosciamo molto presto, ma nell’indagare sui meccanismi della giustizia e sulla loro imperfezione. Anzi, a dire la verità, a me pare che il film di Eastwood si voglia interrogare sui modi in cui ognuno di noi costruisce opinioni e giudizi sui fatti di cui non abbia esperienza diretta. In Giurato numero 2 non c’è alcuna rappresentazione manichea della società e nessuno dei protagonisti è un mostro: Justin ha un passato da alcolista ma è pulito da parecchio tempo e sta investendo tutte le sue energie nel costruire una famiglia e James ha sicuramente un passato di marginalità e violenza, ma se l’è lasciato alle spalle e lo rivendica fermamente. Tutti gli altri – gli avvocati, i testimoni e i membri della giuria - agiscono sostanzialmente in buona fede, al massimo gli si possono addebitare superficialità e/o pregiudizi, condizionati come sono dal vissuto personale, dai problemi individuali, dalle esperienze pregresse, dai convincimenti ideologici.
Se in Anatomia di una caduta Justine Triet pone gli spettatori di fronte all’impossibilità di conoscere la verità e li costringe a interrogarsi sui meccanismi personali che portano ciascuno a prendere posizioni o a costruirsi il proprio giudizio, in Giurato numero 2 Eastwood rappresenta tutto (o quasi) il ventaglio dei possibili approcci che le persone chiamate a prendere una posizione di fronte a una vicenda adottano e costringe gli spettatori a empatizzare con il protagonista senza la possibilità di collocarsi super partes.
Ne viene fuori il quadro di una società fortemente atomizzata, in cui gli individui fanno sempre più fatica o hanno sempre meno voglia di conciliare la necessità di preservare il proprio benessere con un superiore bene collettivo, una forma di egoismo e superficialità di massa, di cui siamo tutti vittime più che fautori. E tutto questo Eastwood ce lo racconta non in maniera giudicante e moraleggiante, ma come una sconfitta collettiva, senza però abbandonare del tutto la speranza.
Da vedere.
Voto: 4/5
venerdì 29 novembre 2024
Denti bianchi / Zadie Smith
Denti bianchi / Zadie Smith; trad. di Laura Grimaldi. Milano: Mondadori, 2017.
Nelle mie esplorazioni letterarie degli ultimi tempi mi sono resa conto che mancava completamente all'appello nelle mie letture Zadie Smith, scrittrice di padre inglese e madre giamaicana diventata di culto giovanissima, proprio dopo la pubblicazione di Denti bianchi, il suo primo romanzo.
In Denti bianchi protagonisti della storia sono le famiglie di Samad e di Archie, due amici inseparabili da quando si sono ritrovati a condividere l'angusto spazio dentro un carrarmato durante la guerra. Anni dopo entrambi vivono a Londra: Samad Iqbal, bengalese, è sposato con Alsana, lavora in un ristorante indiano, e ha due figli gemelli, Magid e Millat, mentre Archie Jones, inglese, è sposato con Clara, giamaicana, e ha una figlia, Irie.
Nei suoi quattro capitoli, Denti bianchi attraversa le vite e le storie di tutti questi personaggi, a volte risalendo indietro nel tempo e raccontandoci anche le storie degli avi, come quella del bisnonno di Samad, Mangal Pande e quella di Hortense (nonna di Irie) e di sua madre prima di lei, ma muovendosi anche in avanti fino al momento in cui i figli delle due coppie sono adolescenti e infine giovani adulti.
La storia degli Iqbal e dei Jones si intreccia a un certo punto con quella dei Chalfen, ebrei inglesi, famiglia composta da Marcus, il padre scienziato che fa esperimenti genetici coi topi, e Joyce, la madre che scrive libri sulle piante, e da quattro figli, più o meno geniali, tra cui Joshua, coetano di Irie, di Millat e di Magid.
Denti bianchi è un libro sul colonialismo, sul razzismo, sulle difficoltà ma anche le diverse visioni dell'integrazione, sul radicalismo religioso, ma anche sul radicalismo intellettuale, però soprattutto è un libro frizzante e a tratti scanzonato, pieno di umanità, che ci mette di fronte alla complessità delle società multietniche e delle famiglie miste, ovvero delle famiglie di diversa provenienza, che vivono al loro interno tutte le inevitabili contraddizioni del rapporto tra le loro radici e il mondo nel quale vivono, reagendo ciascuno a proprio modo. Queste contraddizioni si amplificano e diventano dirompenti quando si passa alle seconde generazioni, bambini e poi ragazzi nati e cresciuti nel paese ospite, che dunque da un lato sono totalmente interni alla cultura nella quale sono cresciuti, ma dall'altro vivono sulla propria pelle un senso di alterità, a cui ciascuno risponde secondo il proprio modo di essere.
Devo dire che nei primi capitoli, quando la storia si concentra su Samad e Archie ho fatto un po' fatica a ingranare e a entrare in sintonia con la scrittura della Smith; man mano però che la storia si spostava verso i loro figli, Irie, Millat e Magid, e soprattutto dopo l'incontro con la famiglia Chalfen, il godimento è cresciuto significativamente, e l'ultimo terzo del volume l'ho letto tutto d'un fiato in una domenica pomeriggio di pioggia.
Non posso dire che lo stile di Zadie Smith sia pienamente affine alle mie preferenze. Questa scrittura leggera, senza essere superficiale, questa ironia un po' inglese e un po' no, sono caratteristiche che riconosco e apprezzo, ma non sono esattamente quello che mi colpisce di più. Cosicché pur essendo molto contenta di aver letto questo libro, non sono sicura che andrò avanti nella scoperta di questa autrice, come recentemente ho fatto ad esempio per Chimamanda Ngozi Adichie.
Ma - ripeto - non è un giudizio verso un libro riconosciuto unanimemente come un esordio folgorante, bensì solo un fatto di affinità soggettiva.
Voto: 3/5
Nelle mie esplorazioni letterarie degli ultimi tempi mi sono resa conto che mancava completamente all'appello nelle mie letture Zadie Smith, scrittrice di padre inglese e madre giamaicana diventata di culto giovanissima, proprio dopo la pubblicazione di Denti bianchi, il suo primo romanzo.
In Denti bianchi protagonisti della storia sono le famiglie di Samad e di Archie, due amici inseparabili da quando si sono ritrovati a condividere l'angusto spazio dentro un carrarmato durante la guerra. Anni dopo entrambi vivono a Londra: Samad Iqbal, bengalese, è sposato con Alsana, lavora in un ristorante indiano, e ha due figli gemelli, Magid e Millat, mentre Archie Jones, inglese, è sposato con Clara, giamaicana, e ha una figlia, Irie.
Nei suoi quattro capitoli, Denti bianchi attraversa le vite e le storie di tutti questi personaggi, a volte risalendo indietro nel tempo e raccontandoci anche le storie degli avi, come quella del bisnonno di Samad, Mangal Pande e quella di Hortense (nonna di Irie) e di sua madre prima di lei, ma muovendosi anche in avanti fino al momento in cui i figli delle due coppie sono adolescenti e infine giovani adulti.
La storia degli Iqbal e dei Jones si intreccia a un certo punto con quella dei Chalfen, ebrei inglesi, famiglia composta da Marcus, il padre scienziato che fa esperimenti genetici coi topi, e Joyce, la madre che scrive libri sulle piante, e da quattro figli, più o meno geniali, tra cui Joshua, coetano di Irie, di Millat e di Magid.
Denti bianchi è un libro sul colonialismo, sul razzismo, sulle difficoltà ma anche le diverse visioni dell'integrazione, sul radicalismo religioso, ma anche sul radicalismo intellettuale, però soprattutto è un libro frizzante e a tratti scanzonato, pieno di umanità, che ci mette di fronte alla complessità delle società multietniche e delle famiglie miste, ovvero delle famiglie di diversa provenienza, che vivono al loro interno tutte le inevitabili contraddizioni del rapporto tra le loro radici e il mondo nel quale vivono, reagendo ciascuno a proprio modo. Queste contraddizioni si amplificano e diventano dirompenti quando si passa alle seconde generazioni, bambini e poi ragazzi nati e cresciuti nel paese ospite, che dunque da un lato sono totalmente interni alla cultura nella quale sono cresciuti, ma dall'altro vivono sulla propria pelle un senso di alterità, a cui ciascuno risponde secondo il proprio modo di essere.
Devo dire che nei primi capitoli, quando la storia si concentra su Samad e Archie ho fatto un po' fatica a ingranare e a entrare in sintonia con la scrittura della Smith; man mano però che la storia si spostava verso i loro figli, Irie, Millat e Magid, e soprattutto dopo l'incontro con la famiglia Chalfen, il godimento è cresciuto significativamente, e l'ultimo terzo del volume l'ho letto tutto d'un fiato in una domenica pomeriggio di pioggia.
Non posso dire che lo stile di Zadie Smith sia pienamente affine alle mie preferenze. Questa scrittura leggera, senza essere superficiale, questa ironia un po' inglese e un po' no, sono caratteristiche che riconosco e apprezzo, ma non sono esattamente quello che mi colpisce di più. Cosicché pur essendo molto contenta di aver letto questo libro, non sono sicura che andrò avanti nella scoperta di questa autrice, come recentemente ho fatto ad esempio per Chimamanda Ngozi Adichie.
Ma - ripeto - non è un giudizio verso un libro riconosciuto unanimemente come un esordio folgorante, bensì solo un fatto di affinità soggettiva.
Voto: 3/5
mercoledì 27 novembre 2024
Parthenope
Ormai vado a vedere i film di Sorrentino a prescindere, come un collezionista fa con tutti i possibili pezzi della sua collezione. Non potevo dunque perdere il suo ultimo lavoro presentato a Cannes, che in qualche modo prosegue il mood nostalgico-napoletano di È stata la mano di Dio.
Al centro di questo racconto Parthenope (Celeste Dalla Porta), che nasce nel mare della spiaggia privata sotto gli occhi di tutta la famiglia e in particolare di suo fratello Raimondo, con cui è destinata ad avere un rapporto speciale. Dal momento della sua nascita, seguiremo poi Parthenope dalla sua giovinezza (quando ha circa 18 anni) fino all'età matura e poi alla vecchiaia, assistendo non solo e non tanto alla sua vita, quanto ai suoi incontri e alle sue molteplici incarnazioni che la porteranno in tutti gli ambienti della città, dai vicoli del centro al fianco del boss di turno, alle aule universitarie prima come studentessa poi come docente, alle ville di Posillipo durante feste di lusso nonché nelle dimore decadenti, al duomo della città per scoprire il mistero del sangue di San Gennaro insieme al cardinale che se ne occupa, nella casa di una diva del cinema dal volto nascosto e poi all'incontro con un'altra diva che ha lasciato da tempo la città. Parthenope si allontanerà da Napoli per poi ritornarci proprio nel momento dei festeggiamenti per lo scudetto della squadra cittadina.
Ho sentito pareri opposti e contrastanti su questo film. Dal mio piccolo e statisticamente non significativo angolo di visuale mi pare che il film sia piaciuto molto ai napoletani, soprattutto uomini, meglio se di mezza età, meglio ancora se emigrati. Del resto, è indubbio che il sentimento che promana dal film di Sorrentino è quello di una nostalgia profonda (in cui si mescolano emozioni anche contraddittorie) verso Napoli, che - siamo direi tutti d'accordo - non è una città qualsiasi, bensì un luogo dotato di un'identità fortissima che si incarna in tutte le molteplici e multiformi sfaccettature della napoletanità.
Sarà che conosco ben poco Napoli e non ho una storia emotiva che mi lega a questa città, ma personalmente non sono riuscita a "sentire" il film e dunque non sono stata in grado di gettare il cuore al di là del manierismo, del gusto estetizzante, dell'iperbole, del grottesco, dell'assiomatico di cui il cinema sorrentiniano è sempre più denso. Non che da questo punto di vista La grande bellezza fosse tanto diverso, ma - sarà per il rapporto più articolato e stratificato che ho con la città di Roma - in quel caso la cifra sorrentiniana mi aveva risuonato di più.
Qui mi è rimasto tutto piuttosto estraneo e un po' sconclusionato, a tratti fastidioso (soprattutto nel modo in cui si sofferma e insiste sul corpo di Parthenope), a tratti noioso.
Eppure, Sorrentino non è tanto più vecchio di me (ci separano solo tre anni), e condivido con lui la scelta di essere andata lontana dal mio luogo di origine, così come l'aver attraversato fasi di repulsione e fasi di recupero nostalgico e non solo con la mia terra. Eppure, il modo in cui Sorrentino traduce tutto questo in racconto per immagini e per parole non mi ha raggiunto.
Voto: 3/5
Al centro di questo racconto Parthenope (Celeste Dalla Porta), che nasce nel mare della spiaggia privata sotto gli occhi di tutta la famiglia e in particolare di suo fratello Raimondo, con cui è destinata ad avere un rapporto speciale. Dal momento della sua nascita, seguiremo poi Parthenope dalla sua giovinezza (quando ha circa 18 anni) fino all'età matura e poi alla vecchiaia, assistendo non solo e non tanto alla sua vita, quanto ai suoi incontri e alle sue molteplici incarnazioni che la porteranno in tutti gli ambienti della città, dai vicoli del centro al fianco del boss di turno, alle aule universitarie prima come studentessa poi come docente, alle ville di Posillipo durante feste di lusso nonché nelle dimore decadenti, al duomo della città per scoprire il mistero del sangue di San Gennaro insieme al cardinale che se ne occupa, nella casa di una diva del cinema dal volto nascosto e poi all'incontro con un'altra diva che ha lasciato da tempo la città. Parthenope si allontanerà da Napoli per poi ritornarci proprio nel momento dei festeggiamenti per lo scudetto della squadra cittadina.
Ho sentito pareri opposti e contrastanti su questo film. Dal mio piccolo e statisticamente non significativo angolo di visuale mi pare che il film sia piaciuto molto ai napoletani, soprattutto uomini, meglio se di mezza età, meglio ancora se emigrati. Del resto, è indubbio che il sentimento che promana dal film di Sorrentino è quello di una nostalgia profonda (in cui si mescolano emozioni anche contraddittorie) verso Napoli, che - siamo direi tutti d'accordo - non è una città qualsiasi, bensì un luogo dotato di un'identità fortissima che si incarna in tutte le molteplici e multiformi sfaccettature della napoletanità.
Sarà che conosco ben poco Napoli e non ho una storia emotiva che mi lega a questa città, ma personalmente non sono riuscita a "sentire" il film e dunque non sono stata in grado di gettare il cuore al di là del manierismo, del gusto estetizzante, dell'iperbole, del grottesco, dell'assiomatico di cui il cinema sorrentiniano è sempre più denso. Non che da questo punto di vista La grande bellezza fosse tanto diverso, ma - sarà per il rapporto più articolato e stratificato che ho con la città di Roma - in quel caso la cifra sorrentiniana mi aveva risuonato di più.
Qui mi è rimasto tutto piuttosto estraneo e un po' sconclusionato, a tratti fastidioso (soprattutto nel modo in cui si sofferma e insiste sul corpo di Parthenope), a tratti noioso.
Eppure, Sorrentino non è tanto più vecchio di me (ci separano solo tre anni), e condivido con lui la scelta di essere andata lontana dal mio luogo di origine, così come l'aver attraversato fasi di repulsione e fasi di recupero nostalgico e non solo con la mia terra. Eppure, il modo in cui Sorrentino traduce tutto questo in racconto per immagini e per parole non mi ha raggiunto.
Voto: 3/5
lunedì 25 novembre 2024
No other land
Il MedFilm Festival è un festival cinematografico che ormai da trent'anni porta all'attenzione degli spettatori romani storie che riguardano i paesi che si affacciano intorno al Mediterraneo, questo nostro mare comune, che però è anche luogo di divisioni geopolitiche e culturali.
Il programma di quest'anno è molto interessante, ma io riesco a vedere un solo film che è forse quello che non andava perso.
No other land è il lungometraggio documentario realizzato da un collettivo israelo-palestinese, formato dall'avvocato e giornalista palestinese Basel Adra e dal giornalista israeliano Yuval Abraham, che sono anche presenti in video e protagonisti della storia, e da Hamdan Ballal e Rachel Szor. Il documentario è stato premiato al Festival di Berlino, sebbene la vittoria e soprattutto il discorso che Adra e Abraham hanno fatto sul palco ritirando il premio abbia suscitato molte polemiche (qui un'intervista ai due), non tanto per quanto hanno detto (secondo me piuttosto ragionevole) bensì perché è diventato ormai impossibile un dibattito sul tema del conflitto israelo-palestinese, anche quando a parlare sono gli stessi protagonisti.
Il film è stato girato nell'arco di circa quattro anni, dal 2019 al 2023, nell'insediamento di Masafer Yatta, un insieme di 19 villaggi rurali abitati da palestinesi in Cisgiordania. Al centro del racconto Basel, che dopo aver studiato Legge, è tornato a casa in questo piccolo villaggio per raccogliere il testimone dell'attivismo non violento che da anni suo padre sta portando avanti. Il modo in cui Basel conduce questa battaglia consiste nel documentare con il suo smartphone e la sua videocamera la vita nel villaggio e soprattutto le numerose occasioni in cui l'esercito israeliano interviene con le ruspe a distruggere case, scuole, stalle, sulla base del fatto che quel territorio è stato dichiarato zona di addestramento militare. Intanto, ai confini della medesima area, negli anni crescono le dimensioni degli insediamenti dei coloni israeliani, coloni che talvolta partecipano agli sgomberi insieme ai militari.
No other land è però anche la storia di un'amicizia, quella tra Basel e Yuval, un giovane giornalista israeliano che a sua volta sta provando a raccontare quello che succede in questi territori attraverso la conoscenza diretta e la documentazione. I due sono coetanei e tutto sommato condividono anche la lettura della realtà, pur appartenendo a campi teoricamente opposti, però la loro collaborazione e amicizia mette anche in evidenza le diseguaglianze di trattamento e le discriminazioni, dal momento che mentre Yuval può muoversi liberamente con la sua macchina, Basel e i palestinesi sono praticamente reclusi nei territori occupati, e controllati, se non minacciati, dalle forze israeliane.
A poco a poco, attraverso questo racconto in presa diretta, emergono così la frustrazione, la rabbia, il dolore, la depressione che gli abitanti di queste terre vivono sulla loro pelle di fronte all'ingiustizia e all'impossibilità di una vita normale.
Anche Basel, pur con la solidità del suo attivismo, ha forti momenti di scoramento, quando si rende conto che, per quanto si porti all'attenzione del mondo quanto accade, nulla cambia, se non in peggio, e la causa palestinese è solo occasione di esercizio di potere - come nel caso della visita di Tony Blair - ovvero di esposizione mediatica del dolore - come nel caso delle numerose troupe che arrivano a documentare e intervistare, senza avere di fatto alcun impatto sulla realtà.
In questa guerra tra le due parti - lì dove non diventa violenta e armata, cosa che non accade di rado, con conseguenze a volte tragiche - è combattuta a colpi di smartphone che riprendono le situazioni da punti di vista opposti, una specie di guerra di propaganda che conferma - se ancora ce ne fosse stato bisogno - la non oggettività delle immagini, anche quelle in movimento, che nel nostro mondo iperesposto vengono utilizzate a sostegno di tutto e del contrario di tutto.
Lo stesso Basel a un certo punto del film esprime chiaramente la sua frustrazione in proposito, sapendo ormai per esperienza che, anche qualora queste immagini dovessero raggiungere un numero elevato di persone, in concreto nulla cambierebbe, come niente è cambiato fin qui.
Si esce dal cinema con lo stesso senso di frustrazione e di impotenza, da spettatori di una storia che si compie sotto i nostri occhi e di cui portiamo e porteremo il peso nel giudizio dei posteri.
Voto: 3,5/5
Il programma di quest'anno è molto interessante, ma io riesco a vedere un solo film che è forse quello che non andava perso.
No other land è il lungometraggio documentario realizzato da un collettivo israelo-palestinese, formato dall'avvocato e giornalista palestinese Basel Adra e dal giornalista israeliano Yuval Abraham, che sono anche presenti in video e protagonisti della storia, e da Hamdan Ballal e Rachel Szor. Il documentario è stato premiato al Festival di Berlino, sebbene la vittoria e soprattutto il discorso che Adra e Abraham hanno fatto sul palco ritirando il premio abbia suscitato molte polemiche (qui un'intervista ai due), non tanto per quanto hanno detto (secondo me piuttosto ragionevole) bensì perché è diventato ormai impossibile un dibattito sul tema del conflitto israelo-palestinese, anche quando a parlare sono gli stessi protagonisti.
Il film è stato girato nell'arco di circa quattro anni, dal 2019 al 2023, nell'insediamento di Masafer Yatta, un insieme di 19 villaggi rurali abitati da palestinesi in Cisgiordania. Al centro del racconto Basel, che dopo aver studiato Legge, è tornato a casa in questo piccolo villaggio per raccogliere il testimone dell'attivismo non violento che da anni suo padre sta portando avanti. Il modo in cui Basel conduce questa battaglia consiste nel documentare con il suo smartphone e la sua videocamera la vita nel villaggio e soprattutto le numerose occasioni in cui l'esercito israeliano interviene con le ruspe a distruggere case, scuole, stalle, sulla base del fatto che quel territorio è stato dichiarato zona di addestramento militare. Intanto, ai confini della medesima area, negli anni crescono le dimensioni degli insediamenti dei coloni israeliani, coloni che talvolta partecipano agli sgomberi insieme ai militari.
No other land è però anche la storia di un'amicizia, quella tra Basel e Yuval, un giovane giornalista israeliano che a sua volta sta provando a raccontare quello che succede in questi territori attraverso la conoscenza diretta e la documentazione. I due sono coetanei e tutto sommato condividono anche la lettura della realtà, pur appartenendo a campi teoricamente opposti, però la loro collaborazione e amicizia mette anche in evidenza le diseguaglianze di trattamento e le discriminazioni, dal momento che mentre Yuval può muoversi liberamente con la sua macchina, Basel e i palestinesi sono praticamente reclusi nei territori occupati, e controllati, se non minacciati, dalle forze israeliane.
A poco a poco, attraverso questo racconto in presa diretta, emergono così la frustrazione, la rabbia, il dolore, la depressione che gli abitanti di queste terre vivono sulla loro pelle di fronte all'ingiustizia e all'impossibilità di una vita normale.
Anche Basel, pur con la solidità del suo attivismo, ha forti momenti di scoramento, quando si rende conto che, per quanto si porti all'attenzione del mondo quanto accade, nulla cambia, se non in peggio, e la causa palestinese è solo occasione di esercizio di potere - come nel caso della visita di Tony Blair - ovvero di esposizione mediatica del dolore - come nel caso delle numerose troupe che arrivano a documentare e intervistare, senza avere di fatto alcun impatto sulla realtà.
In questa guerra tra le due parti - lì dove non diventa violenta e armata, cosa che non accade di rado, con conseguenze a volte tragiche - è combattuta a colpi di smartphone che riprendono le situazioni da punti di vista opposti, una specie di guerra di propaganda che conferma - se ancora ce ne fosse stato bisogno - la non oggettività delle immagini, anche quelle in movimento, che nel nostro mondo iperesposto vengono utilizzate a sostegno di tutto e del contrario di tutto.
Lo stesso Basel a un certo punto del film esprime chiaramente la sua frustrazione in proposito, sapendo ormai per esperienza che, anche qualora queste immagini dovessero raggiungere un numero elevato di persone, in concreto nulla cambierebbe, come niente è cambiato fin qui.
Si esce dal cinema con lo stesso senso di frustrazione e di impotenza, da spettatori di una storia che si compie sotto i nostri occhi e di cui portiamo e porteremo il peso nel giudizio dei posteri.
Voto: 3,5/5
venerdì 22 novembre 2024
Aspettando Re Lear / di e con Alessandro Preziosi. Teatro Quirino, 9 novembre 2024
Quest’anno non solo la mia selezione teatrale è molto più contenuta degli ultimi anni (un po’ per stanchezza, un po’ per delusione, un po’ per livello dell’offerta), ma arrivo spessissimo a teatro senza aver letto praticamente niente dello spettacolo. Che poi è vero che il massimo sarebbe poter partecipare a una lezione che ci spieghi le cose prima di vederle per potercele gustare al meglio, ma è anche vero che uno spettacolo bello deve essere in grado di conquistarci anche senza saperne assolutamente nulla.
In questo caso, sono arrivata allo spettacolo di Preziosi completamente a digiuno di informazioni. Conoscevo le qualità di Alessandro Preziosi a teatro (terreno sul quale l’attore si è spostato quasi completamente), e potevo ipotizzare dal titolo dello spettacolo che ci fosse un’ascendenza shakespeariana, ma oltre questo non andavo.
Scopro dunque solo a teatro che lo spettacolo è sì ispirato alla tragedia di Shakespeare, ma – come forse il titolo poteva far ipotizzare – questa primaria ispirazione si è combinata con l’Aspettando Godot di Samuel Beckett, che però io non ho mai letto né visto rappresentato.
Sempre a teatro scopro che la scenografia, che fin dall’inizio mi appare in qualche modo familiare e che comprendo essere protagonista della messa in scena al pari degli attori, è costituita da una serie di opere di Michelangelo Pistoletto che Alessandro Preziosi ha incontrato e conosciuto quasi per caso e con cui ha avviato questa collaborazione. Anche gli abiti di scena sono stati scelti coerentemente: si tratta di abiti ideati dalla Fondazione Cittadellarte di Biella insieme al collettivo Fashion B.E.S.T., pezzi unici in materiali tracciabili e riciclati, concepiti a strati, che a poco a poco si scompongono lasciando i personaggi in una tuta nera, una specie di nudità che si confonde con le ombre.
Sulla scena, oltre ad Alessandro Preziosi nei panni di Re Lear (ma anche regista dello spettacolo), ci sono il bravissimo Nando Paone nei panni di Gloucester, Arianna Primavera nel ruolo di Cordelia e anche del Matto, Roberto Manzi che fa Kent e Valerio Ameli che interpreta Edgar.
Il Re Lear di Preziosi è un uomo ormai vecchio e che sta perdendo il senno, il quale vuole lasciare le sue terre e il suo potere alla figlia che lo ama di più, ma che - fidandosi delle apparenze e delle parole vacue - lascia la sua eredità alle due maggiori, cacciando dal suo regno Cordelia, la figlia più amata che si è rifiutata di adularlo. Contemporaneamente Gloucester a sua volta è oggetto di un inganno: il figliastro Edmund gli fa credere che Edgar stia progettando il suo assassinio, e dunque disconosce e allontana il figlio.
In questo turbinio di eventi il momento clou è quello della tempesta che travolge i protagonisti, ma li riconduce alla verità e alla riconciliazione.
La rilettura di Re Lear da parte di Alessandro Preziosi si concentra significativamente sul rapporto tra padri e figli, sull’eredità tra generazioni, e dunque parla anche di noi e del nostro futuro.
Gli attori sulla scena sono tutti molto bravi (Preziosi mi pare voglia proporsi il nuovo Gassman), la scenografia è suggestiva ed efficace, la drammaturgia interessante (anche se a volte può disorientare), le musiche invece mi hanno un po’ lasciato perplessa. Uno spettacolo che nel complesso ho trovato bello, senza uscirne entusiasta nemmeno questa volta.
Voto: 3/5
In questo caso, sono arrivata allo spettacolo di Preziosi completamente a digiuno di informazioni. Conoscevo le qualità di Alessandro Preziosi a teatro (terreno sul quale l’attore si è spostato quasi completamente), e potevo ipotizzare dal titolo dello spettacolo che ci fosse un’ascendenza shakespeariana, ma oltre questo non andavo.
Scopro dunque solo a teatro che lo spettacolo è sì ispirato alla tragedia di Shakespeare, ma – come forse il titolo poteva far ipotizzare – questa primaria ispirazione si è combinata con l’Aspettando Godot di Samuel Beckett, che però io non ho mai letto né visto rappresentato.
Sempre a teatro scopro che la scenografia, che fin dall’inizio mi appare in qualche modo familiare e che comprendo essere protagonista della messa in scena al pari degli attori, è costituita da una serie di opere di Michelangelo Pistoletto che Alessandro Preziosi ha incontrato e conosciuto quasi per caso e con cui ha avviato questa collaborazione. Anche gli abiti di scena sono stati scelti coerentemente: si tratta di abiti ideati dalla Fondazione Cittadellarte di Biella insieme al collettivo Fashion B.E.S.T., pezzi unici in materiali tracciabili e riciclati, concepiti a strati, che a poco a poco si scompongono lasciando i personaggi in una tuta nera, una specie di nudità che si confonde con le ombre.
Sulla scena, oltre ad Alessandro Preziosi nei panni di Re Lear (ma anche regista dello spettacolo), ci sono il bravissimo Nando Paone nei panni di Gloucester, Arianna Primavera nel ruolo di Cordelia e anche del Matto, Roberto Manzi che fa Kent e Valerio Ameli che interpreta Edgar.
Il Re Lear di Preziosi è un uomo ormai vecchio e che sta perdendo il senno, il quale vuole lasciare le sue terre e il suo potere alla figlia che lo ama di più, ma che - fidandosi delle apparenze e delle parole vacue - lascia la sua eredità alle due maggiori, cacciando dal suo regno Cordelia, la figlia più amata che si è rifiutata di adularlo. Contemporaneamente Gloucester a sua volta è oggetto di un inganno: il figliastro Edmund gli fa credere che Edgar stia progettando il suo assassinio, e dunque disconosce e allontana il figlio.
In questo turbinio di eventi il momento clou è quello della tempesta che travolge i protagonisti, ma li riconduce alla verità e alla riconciliazione.
La rilettura di Re Lear da parte di Alessandro Preziosi si concentra significativamente sul rapporto tra padri e figli, sull’eredità tra generazioni, e dunque parla anche di noi e del nostro futuro.
Gli attori sulla scena sono tutti molto bravi (Preziosi mi pare voglia proporsi il nuovo Gassman), la scenografia è suggestiva ed efficace, la drammaturgia interessante (anche se a volte può disorientare), le musiche invece mi hanno un po’ lasciato perplessa. Uno spettacolo che nel complesso ho trovato bello, senza uscirne entusiasta nemmeno questa volta.
Voto: 3/5
mercoledì 20 novembre 2024
Berlinguer - La grande ambizione
Andrea Segre è un regista che seguo con una certa continuità, sebbene non del tutto assiduamente. Dei suoi film apprezzo sempre il tocco delicato, l’impegno politico, l’approccio documentaristico.
Di fronte al suo ultimo film dedicato alla figura di Enrico Berlinguer, interpretato da Elio Germano, non posso certo sottrarmi alla visione.
La grande ambizione racconta uno specifico periodo della vicenda politica e umana di Berlinguer, ossia quello compreso tra la visita a Sofia e l’attentato (di cui io non avevo alcuna memoria) del 1973 e la morte di Moro del maggio 1978, in pratica gli anni del tentativo del politico comunista di perseguire il progetto del cosiddetto “compromesso storico”.
Ci sono molte cose apprezzabili nel film di Andrea Segre: innanzitutto l’ottimo mix tra i video e le immagini di archivio e il girato contemporaneo, che riescono a dialogare molto bene sia sul piano estetico che sul piano narrativo; in secondo luogo l’attitudine (tipicamente documentaristica) di mettere in fila gli eventi sfuggendo alla tendenza – soprattutto contemporanea – alla frammentazione e anche al setaccio inevitabile operato dalla storia e dalla memoria individuale; in terzo luogo la scelta di non trasformare il personaggio di Berlinguer né in un santino né nella caricatura di sé stesso, raccontandolo con sincerità ed equilibrio; infine, l’interpretazione di Elio Germano che (dopo la parziale delusione di Iddu) qui ho ritrovato pienamente nella sua capacità di mettersi al servizio del personaggio e non viceversa. Bravi anche gli altri interpreti che riportano davanti ai nostri occhi tutto un mondo politico che sembra davvero appartenere a un passato lontanissimo, abituati come siamo da qualche tempo a vedere sorgere e tramontare stelle politiche (e non solo) in tempi rapidissimi.
Tralascio le polemiche e i giudizi sulla linea perseguita da Berlinguer con il compromesso storico – non ho né le competenze né le conoscenze per esprimermi in proposito -, però posso dire che il film di Segre è l’occasione per immergersi in quegli anni e in quel mondo politico, misurando la distanza con la contemporaneità e suscitando inevitabilmente domande e riflessioni, cui ognuno potrà dare seguito secondo il proprio particolare punto di vista e la propria sensibilità interpretativa.
Un buon film che - pur non apportando particolari elementi di novità o dirompenti - conferma le qualità di Andrea Segre e ribadisce che ogni tanto tocca buttare un occhio al passato e mettere in ordine alcuni eventi anche per guardare con sguardo nuovo il presente.
Voto: 3,5/5
Di fronte al suo ultimo film dedicato alla figura di Enrico Berlinguer, interpretato da Elio Germano, non posso certo sottrarmi alla visione.
La grande ambizione racconta uno specifico periodo della vicenda politica e umana di Berlinguer, ossia quello compreso tra la visita a Sofia e l’attentato (di cui io non avevo alcuna memoria) del 1973 e la morte di Moro del maggio 1978, in pratica gli anni del tentativo del politico comunista di perseguire il progetto del cosiddetto “compromesso storico”.
Ci sono molte cose apprezzabili nel film di Andrea Segre: innanzitutto l’ottimo mix tra i video e le immagini di archivio e il girato contemporaneo, che riescono a dialogare molto bene sia sul piano estetico che sul piano narrativo; in secondo luogo l’attitudine (tipicamente documentaristica) di mettere in fila gli eventi sfuggendo alla tendenza – soprattutto contemporanea – alla frammentazione e anche al setaccio inevitabile operato dalla storia e dalla memoria individuale; in terzo luogo la scelta di non trasformare il personaggio di Berlinguer né in un santino né nella caricatura di sé stesso, raccontandolo con sincerità ed equilibrio; infine, l’interpretazione di Elio Germano che (dopo la parziale delusione di Iddu) qui ho ritrovato pienamente nella sua capacità di mettersi al servizio del personaggio e non viceversa. Bravi anche gli altri interpreti che riportano davanti ai nostri occhi tutto un mondo politico che sembra davvero appartenere a un passato lontanissimo, abituati come siamo da qualche tempo a vedere sorgere e tramontare stelle politiche (e non solo) in tempi rapidissimi.
Tralascio le polemiche e i giudizi sulla linea perseguita da Berlinguer con il compromesso storico – non ho né le competenze né le conoscenze per esprimermi in proposito -, però posso dire che il film di Segre è l’occasione per immergersi in quegli anni e in quel mondo politico, misurando la distanza con la contemporaneità e suscitando inevitabilmente domande e riflessioni, cui ognuno potrà dare seguito secondo il proprio particolare punto di vista e la propria sensibilità interpretativa.
Un buon film che - pur non apportando particolari elementi di novità o dirompenti - conferma le qualità di Andrea Segre e ribadisce che ogni tanto tocca buttare un occhio al passato e mettere in ordine alcuni eventi anche per guardare con sguardo nuovo il presente.
Voto: 3,5/5
lunedì 18 novembre 2024
Il sen(n)o / con Lucia Mascino. Romaeuropa Festival, Teatro Vascello, 4 novembre 2024
Nell'ambito del Romaeuropa Festival non perdo l'occasione di andare a vedere dal vivo questo spettacolo che ha come protagonista e mattatrice la bravissima Lucia Mascino, che nel corso degli anni ho imparato ad apprezzare sempre di più.
Il testo è di Monica Dolan (titolo originale The B*easts), ed è stato tradotto e adattato per i palchi italiani da Serena Sinigaglia. Protagonista è una psicoterapeuta che si è trovata a gestire il caso di una madre e di sua figlia che a otto anni ha voluto e ottenuto dalla madre di potersi sottoporre a un intervento di chirurgia estetica per aumentare il volume del seno.
Di fronte a questa vicenda, la protagonista - divisa tra una sua dimensione privata di cui sappiamo poco e un ruolo pubblico molto delicato - si rivolge direttamente agli spettatori per raccontare questa storia, ma anche per condividere con loro le sue riflessioni, i suoi pensieri e i suoi dubbi.
Il racconto diventa l'occasione per sfuggire al facile giudizio volto a colpevolizzare una madre e sua figlia, bensì per riflettere sulla società tutta, sui suoi processi e percorsi che in qualche modo hanno condotto a tale situazione, certo estrema, ma sempre meno isolata. Ed è anche l'occasione per la psicoterapeuta per riflettere sul proprio ruolo e sulla propria responsabilità, essendo essa stessa chiamata a stilare un rapporto medico nell'ambito di un processo penale.
Non ci sono risposte nel testo di Monica Dolan, ma solo riflessioni e domande, che chiamano ciascuno di noi a interrogarsi, non tanto per prendere posizione, ma piuttosto per provare a capire e a interpretare una realtà che si fa sempre più sfuggente e difficile.
Sul palco un grande albero spoglio riverso, illuminato, con il quale la protagonista interagisce, curandolo, o utilizzandolo come seduta o come luogo di parziale nascondimento.
Lucia Mascino è brava nel recitare con tutto il corpo - come dice la mia amica I. - offrendo a questo personaggio una fragilità e un'empatia palpabili, capaci di produrre un vero processo identificativo rispetto al senso di inadeguatezza che la protagonista rivela di fronte alla complessità del reale e che risulta infine pienamente comprensibile. Il lungo applauso conferma il gradimento del pubblico.
Voto: 3,5/5
Il testo è di Monica Dolan (titolo originale The B*easts), ed è stato tradotto e adattato per i palchi italiani da Serena Sinigaglia. Protagonista è una psicoterapeuta che si è trovata a gestire il caso di una madre e di sua figlia che a otto anni ha voluto e ottenuto dalla madre di potersi sottoporre a un intervento di chirurgia estetica per aumentare il volume del seno.
Di fronte a questa vicenda, la protagonista - divisa tra una sua dimensione privata di cui sappiamo poco e un ruolo pubblico molto delicato - si rivolge direttamente agli spettatori per raccontare questa storia, ma anche per condividere con loro le sue riflessioni, i suoi pensieri e i suoi dubbi.
Il racconto diventa l'occasione per sfuggire al facile giudizio volto a colpevolizzare una madre e sua figlia, bensì per riflettere sulla società tutta, sui suoi processi e percorsi che in qualche modo hanno condotto a tale situazione, certo estrema, ma sempre meno isolata. Ed è anche l'occasione per la psicoterapeuta per riflettere sul proprio ruolo e sulla propria responsabilità, essendo essa stessa chiamata a stilare un rapporto medico nell'ambito di un processo penale.
Non ci sono risposte nel testo di Monica Dolan, ma solo riflessioni e domande, che chiamano ciascuno di noi a interrogarsi, non tanto per prendere posizione, ma piuttosto per provare a capire e a interpretare una realtà che si fa sempre più sfuggente e difficile.
Sul palco un grande albero spoglio riverso, illuminato, con il quale la protagonista interagisce, curandolo, o utilizzandolo come seduta o come luogo di parziale nascondimento.
Lucia Mascino è brava nel recitare con tutto il corpo - come dice la mia amica I. - offrendo a questo personaggio una fragilità e un'empatia palpabili, capaci di produrre un vero processo identificativo rispetto al senso di inadeguatezza che la protagonista rivela di fronte alla complessità del reale e che risulta infine pienamente comprensibile. Il lungo applauso conferma il gradimento del pubblico.
Voto: 3,5/5
giovedì 14 novembre 2024
Micah P. Hinson (+ Krano). Festival Sabir, Città dell'altra economia, 13 ottobre 2024
Ormai sono una habitué dei concerti di Micah P. Hinson al punto tale che conosco i volti delle persone che, come me, non si perdono nemmeno uno degli appuntamenti con il musicista texano.
Questa volta l'occasione di ascoltarlo dal vivo è offerta dal Festival Sabir, il festival diffuso delle culture mediterranee si è svolto dal 10 al 13 ottobre alla città dell'altra economia di Roma.
L'ingresso è gratuito e il festival è all'aperto. Io arrivo come sempre molto presto per potermi sistemare molto davanti, sotto il palco. Quando arrivo vedo che Micah P. Hinson è già in giro e chiacchiera con alcune persone non lontano dal palco. Intorno alle 21,15 inizia l'opening che è affidato a Krano, un ragazzone che con la sua chitarra - con l'aggiunta talvolta dell'armonica da bocca - comincia a intonare canzoni intimiste in un dialetto che faccio fatica a comprendere. Guardando su Internet, scopro che Krano è il progetto musicale di Marco Spigariol, che dal 2012 - dopo alcune esperienze musicali, anche internazionali - si è ritirato nel suo paese di origine, a Valdobbiadene, e ha cominciato a comporre canzoni nel dialetto locale.
Devo dire che il suo mini-concerto non mi conquista pienamente, ma apprezzo alcune canzoni e soprattutto l'atteggiamento umile e tenero che Krano ha sul palco e con il pubblico.
Dopo un rapido cambio, sale sul palco Alessandro "Asso" Stefana, il musicista italiano che da qualche tempo accompagna Micah nei suoi tour, e comincia a provare e ad accordare tutti gli strumenti. Tutto è pronto.
Intorno alle 22, sale sul palco Micah accompagnato da Stefana e da Paolo Mongardi, il batterista, ricostruendo la formazione che ho già avuto modo di ascoltare al Monk nel marzo del 2023 e che mi aveva regalato un bellissimo concerto.
Come allora Stefana cura gli arrangiamenti e funge da polistrumentista, suonando il basso, la chitarra, la tastiera, l'armonica da bocca e la steel guitar, mentre Micah alterna chitarra elettrica e acustica. Mongardi mette la ciliegina sulla torta con il suo modo mirabile di suonare la batteria, producendo sonorità, ritmi e arrangiamenti molto diversi.
Micah ci saluta in spagnolo e ci dice che da qualche tempo vive a Madrid, anche se ci ricorda - come sempre - di venire dal Texas. Ormai il suo look con capigliatura da nativo americano, abbigliamento da cowboy e cappellone con la piuma si è quasi standardizzato, almeno per chi - come me - lo conosce da tempo.
Anche il suo modo di stare sul palco è per me ormai talmente riconoscibile, nell'alternanza di canzoni suonate rabbiosamente, altre invece dolorosamente, mentre tra una canzone e l'altra Micah ci racconta delle cose (di carattere personale, ma anche tante di tipo politico) e non nasconde in alcun modo la sua personalità decisamente originale e a suo modo eccentrica.
Chi conosce la sua storia personale sa che Micah è quasi un sopravvissuto: mentre parla di quello che gli è accaduto, dice anche di quando era sposato, e io ricordo il concerto al Monk in cui c'era la moglie con il figlio. Insomma, ogni volta con Micah è come ritrovare un vecchio amico la cui vita ha sempre avuto dei percorsi strani e imprevedibili, ma a cui non puoi che volere bene per la naiveté e la sincerità che lo caratterizzano.
E poi ascoltarlo suonare e cantare è sempre uno straordinario viaggio emotivo che non può lasciare indifferenti, e che - devo dire - gli arrangiamenti di Stefana hanno ulteriormente impreziosito e accentuato.
Non ho tenuto traccia puntuale della scaletta, ma direi che a naso ha strutturato il concerto come fa di solito negli ultimi tempi: canzoni dell'ultimo album (tra cui alcune delle mie preferite, Carelessly, What does it matter now, Me & you che si alternano a suoi grandi classici (stasera Beneath the rose è la seconda canzone in scaletta) e a cover più o meno famose (tra cui Please daddy, don't get drunk this Christmas), alcune delle quali sono anche entrate nei suoi album.
In questo caso ci delizia anche - nel bis inevitabile - con una vera e propria canzone country che non gli avevo mai sentito suonare e di cui purtroppo non ho colto né il titolo né l'autore, ma solo il commento di Micah che ci dice che il country è il male, perché lì in qualche modo si annida il peggio del genere umano, ma che qualcosa della tradizione del country si può ancora recuperare.
Un concerto che nei contenuti non è stato molto diverso da quello dello scorso anno, e forse per questo sono rimasta meno colpita, o forse perché il tipo di concerto era più adatto a una location intima come quella del Monk, ma Micah P. Hinson accompagnato dai due musicisti italiani resta uno spettacolo da non perdere.
Voto: 3,5/5
Questa volta l'occasione di ascoltarlo dal vivo è offerta dal Festival Sabir, il festival diffuso delle culture mediterranee si è svolto dal 10 al 13 ottobre alla città dell'altra economia di Roma.
L'ingresso è gratuito e il festival è all'aperto. Io arrivo come sempre molto presto per potermi sistemare molto davanti, sotto il palco. Quando arrivo vedo che Micah P. Hinson è già in giro e chiacchiera con alcune persone non lontano dal palco. Intorno alle 21,15 inizia l'opening che è affidato a Krano, un ragazzone che con la sua chitarra - con l'aggiunta talvolta dell'armonica da bocca - comincia a intonare canzoni intimiste in un dialetto che faccio fatica a comprendere. Guardando su Internet, scopro che Krano è il progetto musicale di Marco Spigariol, che dal 2012 - dopo alcune esperienze musicali, anche internazionali - si è ritirato nel suo paese di origine, a Valdobbiadene, e ha cominciato a comporre canzoni nel dialetto locale.
Devo dire che il suo mini-concerto non mi conquista pienamente, ma apprezzo alcune canzoni e soprattutto l'atteggiamento umile e tenero che Krano ha sul palco e con il pubblico.
Dopo un rapido cambio, sale sul palco Alessandro "Asso" Stefana, il musicista italiano che da qualche tempo accompagna Micah nei suoi tour, e comincia a provare e ad accordare tutti gli strumenti. Tutto è pronto.
Intorno alle 22, sale sul palco Micah accompagnato da Stefana e da Paolo Mongardi, il batterista, ricostruendo la formazione che ho già avuto modo di ascoltare al Monk nel marzo del 2023 e che mi aveva regalato un bellissimo concerto.
Come allora Stefana cura gli arrangiamenti e funge da polistrumentista, suonando il basso, la chitarra, la tastiera, l'armonica da bocca e la steel guitar, mentre Micah alterna chitarra elettrica e acustica. Mongardi mette la ciliegina sulla torta con il suo modo mirabile di suonare la batteria, producendo sonorità, ritmi e arrangiamenti molto diversi.
Micah ci saluta in spagnolo e ci dice che da qualche tempo vive a Madrid, anche se ci ricorda - come sempre - di venire dal Texas. Ormai il suo look con capigliatura da nativo americano, abbigliamento da cowboy e cappellone con la piuma si è quasi standardizzato, almeno per chi - come me - lo conosce da tempo.
Anche il suo modo di stare sul palco è per me ormai talmente riconoscibile, nell'alternanza di canzoni suonate rabbiosamente, altre invece dolorosamente, mentre tra una canzone e l'altra Micah ci racconta delle cose (di carattere personale, ma anche tante di tipo politico) e non nasconde in alcun modo la sua personalità decisamente originale e a suo modo eccentrica.
Chi conosce la sua storia personale sa che Micah è quasi un sopravvissuto: mentre parla di quello che gli è accaduto, dice anche di quando era sposato, e io ricordo il concerto al Monk in cui c'era la moglie con il figlio. Insomma, ogni volta con Micah è come ritrovare un vecchio amico la cui vita ha sempre avuto dei percorsi strani e imprevedibili, ma a cui non puoi che volere bene per la naiveté e la sincerità che lo caratterizzano.
E poi ascoltarlo suonare e cantare è sempre uno straordinario viaggio emotivo che non può lasciare indifferenti, e che - devo dire - gli arrangiamenti di Stefana hanno ulteriormente impreziosito e accentuato.
Non ho tenuto traccia puntuale della scaletta, ma direi che a naso ha strutturato il concerto come fa di solito negli ultimi tempi: canzoni dell'ultimo album (tra cui alcune delle mie preferite, Carelessly, What does it matter now, Me & you che si alternano a suoi grandi classici (stasera Beneath the rose è la seconda canzone in scaletta) e a cover più o meno famose (tra cui Please daddy, don't get drunk this Christmas), alcune delle quali sono anche entrate nei suoi album.
In questo caso ci delizia anche - nel bis inevitabile - con una vera e propria canzone country che non gli avevo mai sentito suonare e di cui purtroppo non ho colto né il titolo né l'autore, ma solo il commento di Micah che ci dice che il country è il male, perché lì in qualche modo si annida il peggio del genere umano, ma che qualcosa della tradizione del country si può ancora recuperare.
Un concerto che nei contenuti non è stato molto diverso da quello dello scorso anno, e forse per questo sono rimasta meno colpita, o forse perché il tipo di concerto era più adatto a una location intima come quella del Monk, ma Micah P. Hinson accompagnato dai due musicisti italiani resta uno spettacolo da non perdere.
Voto: 3,5/5
mercoledì 13 novembre 2024
Se l'acqua ride / Paolo Malaguti
Se l'acqua ride / Paolo Malaguti. Torino: Einaudi, 2020.
Ho ricevuto questo libro in regalo per il mio compleanno e mi ha subito attirata a sé, così l'ho messo in lettura quasi immediatamente, in un'atmosfera estiva che ben si sposava con i contenuti del romanzo.
Paolo Malaguti si muove dalle parti di uno dei topoi più classici della letteratura, ossia quello del racconto di un'estate durante la quale il protagonista abbandona definitivamente l'infanzia.
Siamo negli anni Sessanta. Ganbeto, soprannome che gli è stato affibbiato per la sua corporatura, ha 14 anni; viene da una famiglia modesta e vive in quell'area del Veneto dove il sistema dei fiumi che ha il Po al suo centro non è lontano dallo sfociare nel mare Adriatico. Quella di Ganbeto è una famiglia storicamente legata ai trasporti delle merci sui fiumi per mezzo di imbarcazioni chiamate burci. Il nonno del ragazzo, Caronte, ancora svolge quest'attività con il suo burcio, la Teresina, e sia il figlio che il nipote lo aiutano, in particolare nel periodo estivo.
Il mondo però sta rapidamente cambiando e molti sono i segnali che il mestiere di Caronte è destinato a scomparire. Quando, dopo l'ultimo anno della scuola dell'obbligo, Ganbeto si trova a dover fare delle scelte sul proprio futuro, fantastica della sua vita da marinaio, e l'estate successiva - mentre il padre si converte definitivamente al lavoro in fabbrica - il ragazzo parte con il nonno per imparare quel mestiere al tramonto.
Sarà appunto l'estate in cui Ganbeto si accorgerà sia dei propri cambiamenti interiori ed esteriori (la crescita fisica, l'interesse per le ragazze, il parziale allontanamento dagli amici) sia dei cambiamenti del mondo circostante. Non solo la sua infanzia sta finendo, ma anche un'intera società sta sparendo sotto la spinta di un progresso che porta i bagni e le televisioni nelle case, e rende obsoleta la funzione dei burci e dei mestieri ad essi connessi (come quello dei cavalcanti, proprietari di cavalli a cui le imbarcazioni venivano agganciate per risalire i fiumi o i canali in caso di bonaccia).
Durante questa estate, Ganbeto passerà dallo sguardo stupito e ingenuo sul mondo circostante che di solito caratterizza l'età infantile a uno sguardo nuovo, più consapevole e per certi versi più doloroso, quello che lo accompagnerà nell'età adulta. In questo processo comprenderà meglio le scelte opposte del padre e del nonno, e sarà chiamato a sua volta a scegliere una strada che non è necessariamente quella che il suo sé bambino sognava, ma che non solo è quella più praticabile ma è anche in grado di dargli molte soddisfazioni.
Nel libro di Malaguti, che è arricchito da una lingua contaminata da espressioni tipiche dei dialetti della zona in cui è ambientata la storia, si respira un'atmosfera malinconica e agrodolce, tipica dei momenti della storia individuale e collettiva in cui bisogna lasciar andare il passato e aprirsi al futuro, senza tradire nessuno dei due.
Il risultato mi ha cullato durante la lettura (quasi fossi anch'io a bordo della Teresina) e infine mi ha commosso dolcemente.
Voto: 4/5
Ho ricevuto questo libro in regalo per il mio compleanno e mi ha subito attirata a sé, così l'ho messo in lettura quasi immediatamente, in un'atmosfera estiva che ben si sposava con i contenuti del romanzo.
Paolo Malaguti si muove dalle parti di uno dei topoi più classici della letteratura, ossia quello del racconto di un'estate durante la quale il protagonista abbandona definitivamente l'infanzia.
Siamo negli anni Sessanta. Ganbeto, soprannome che gli è stato affibbiato per la sua corporatura, ha 14 anni; viene da una famiglia modesta e vive in quell'area del Veneto dove il sistema dei fiumi che ha il Po al suo centro non è lontano dallo sfociare nel mare Adriatico. Quella di Ganbeto è una famiglia storicamente legata ai trasporti delle merci sui fiumi per mezzo di imbarcazioni chiamate burci. Il nonno del ragazzo, Caronte, ancora svolge quest'attività con il suo burcio, la Teresina, e sia il figlio che il nipote lo aiutano, in particolare nel periodo estivo.
Il mondo però sta rapidamente cambiando e molti sono i segnali che il mestiere di Caronte è destinato a scomparire. Quando, dopo l'ultimo anno della scuola dell'obbligo, Ganbeto si trova a dover fare delle scelte sul proprio futuro, fantastica della sua vita da marinaio, e l'estate successiva - mentre il padre si converte definitivamente al lavoro in fabbrica - il ragazzo parte con il nonno per imparare quel mestiere al tramonto.
Sarà appunto l'estate in cui Ganbeto si accorgerà sia dei propri cambiamenti interiori ed esteriori (la crescita fisica, l'interesse per le ragazze, il parziale allontanamento dagli amici) sia dei cambiamenti del mondo circostante. Non solo la sua infanzia sta finendo, ma anche un'intera società sta sparendo sotto la spinta di un progresso che porta i bagni e le televisioni nelle case, e rende obsoleta la funzione dei burci e dei mestieri ad essi connessi (come quello dei cavalcanti, proprietari di cavalli a cui le imbarcazioni venivano agganciate per risalire i fiumi o i canali in caso di bonaccia).
Durante questa estate, Ganbeto passerà dallo sguardo stupito e ingenuo sul mondo circostante che di solito caratterizza l'età infantile a uno sguardo nuovo, più consapevole e per certi versi più doloroso, quello che lo accompagnerà nell'età adulta. In questo processo comprenderà meglio le scelte opposte del padre e del nonno, e sarà chiamato a sua volta a scegliere una strada che non è necessariamente quella che il suo sé bambino sognava, ma che non solo è quella più praticabile ma è anche in grado di dargli molte soddisfazioni.
Nel libro di Malaguti, che è arricchito da una lingua contaminata da espressioni tipiche dei dialetti della zona in cui è ambientata la storia, si respira un'atmosfera malinconica e agrodolce, tipica dei momenti della storia individuale e collettiva in cui bisogna lasciar andare il passato e aprirsi al futuro, senza tradire nessuno dei due.
Il risultato mi ha cullato durante la lettura (quasi fossi anch'io a bordo della Teresina) e infine mi ha commosso dolcemente.
Voto: 4/5
lunedì 11 novembre 2024
Roberto Zucco / Bernard-Marie Koltès; regia di Giorgina Pi. Teatro Vascello, 26 ottobre 2024
Roberto Zucco è l'ultima pièce teatrale scritta da Bernard-Marie Koltès prima della sua prematura morte. È ispirata alla storia di Roberto Succo, un giovane che, tra la fine degli anni Settanta e gli Ottanta, prima uccise i genitori, poi fu arrestato ma riuscì ad evadere rifugiandosi in Francia, dove ammazzò almeno altre cinque persone. Dopo un nuovo arresto e un nuovo tentativo di fuga, finì suicida in carcere.
Alla vicenda di Succo è dedicato anche un film di qualche anno fa di Cédric Kahn.
Koltès costruisce un'opera teatrale la cui drammaturgia si presta a un'interpretazione dal sapore cinematografico: si tratta infatti di 15 quadri che cominciano con la prima fuga dal carcere e terminano con il secondo tentativo di evasione, in un andamento chiaramente circolare.
Nel mezzo procedono in parallelo la vicenda delle peregrinazioni di Zucco in Italia e poi in Francia, costellate dalle sue bravate e dai suoi omicidi, e la storia di una giovanissima che si innamora di lui e che cerca di sfuggire alla sua famiglia disfunzionale (un padre violento, una madre sottomessa, una sorella zitella e un fratello che da controllore si trasforma in sfruttatore).
Sul palco ogni quadro è delineato mediante pochi elementi di scenografia identificativi dei singoli ambienti e, al termine di ogni scena, gli stessi attori spostano questi elementi allestendo la scena successiva.
Ho apprezzato molto la regia e la messa in scena, che ho trovato visivamente affascinante, così come ho trovato molto convincente Valentino Mannias, l'interprete del protagonista, inquietante al punto giusto e capace di trasmettere chiaramente il senso di disagio mentale e di pazzia che caratterizza il personaggio.
Lo spettacolo ha molti interpreti e molte voci, e direi anche molti registri diversi, che vanno dal drammatico al grottesco (come del resto è abbastanza tipico dell'opera di Koltès). Devo dire che non tutto mi ha convinto, e non saprei dire se dipenda dal testo di Koltès oppure dalla recitazione - invero un po' straniante - di alcuni attori, o da alcune scelte di regia.
Lo spettacolo si fa seguire con interesse, ma mi è rimasto un po' estraneo cosicché, a parte il senso di disagio veicolato dai personaggi principali, non mi sono portata a casa grandi emozioni e riflessioni.
Voto: 3/5
Alla vicenda di Succo è dedicato anche un film di qualche anno fa di Cédric Kahn.
Koltès costruisce un'opera teatrale la cui drammaturgia si presta a un'interpretazione dal sapore cinematografico: si tratta infatti di 15 quadri che cominciano con la prima fuga dal carcere e terminano con il secondo tentativo di evasione, in un andamento chiaramente circolare.
Nel mezzo procedono in parallelo la vicenda delle peregrinazioni di Zucco in Italia e poi in Francia, costellate dalle sue bravate e dai suoi omicidi, e la storia di una giovanissima che si innamora di lui e che cerca di sfuggire alla sua famiglia disfunzionale (un padre violento, una madre sottomessa, una sorella zitella e un fratello che da controllore si trasforma in sfruttatore).
Sul palco ogni quadro è delineato mediante pochi elementi di scenografia identificativi dei singoli ambienti e, al termine di ogni scena, gli stessi attori spostano questi elementi allestendo la scena successiva.
Ho apprezzato molto la regia e la messa in scena, che ho trovato visivamente affascinante, così come ho trovato molto convincente Valentino Mannias, l'interprete del protagonista, inquietante al punto giusto e capace di trasmettere chiaramente il senso di disagio mentale e di pazzia che caratterizza il personaggio.
Lo spettacolo ha molti interpreti e molte voci, e direi anche molti registri diversi, che vanno dal drammatico al grottesco (come del resto è abbastanza tipico dell'opera di Koltès). Devo dire che non tutto mi ha convinto, e non saprei dire se dipenda dal testo di Koltès oppure dalla recitazione - invero un po' straniante - di alcuni attori, o da alcune scelte di regia.
Lo spettacolo si fa seguire con interesse, ma mi è rimasto un po' estraneo cosicché, a parte il senso di disagio veicolato dai personaggi principali, non mi sono portata a casa grandi emozioni e riflessioni.
Voto: 3/5
venerdì 8 novembre 2024
Festa del cinema di Roma, 16-27 ottobre 2024 (Terza parte)
Leggi anche la prima e la seconda parte delle recensioni della Festa del cinema.
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Anora
Anora è il film vincitore della Palma d'oro a Cannes che la Festa del cinema di Roma ci dà la possibilità di vedere in anteprima. Prima di sedermi in Sala Petrassi, del film non sapevo quasi nulla, se non che il regista è Sean Baker, che ho scoperto qualche anno fa con la visione di Red Rocket.
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Bring them down
Il film dell'irlandese Chris Andrews è un dramma rurale senza via d'uscite. Ambientato nelle colline irlandesi, protagonisti sono due famiglie le cui fattorie non sono distanti e i cui terreni sono confinanti: quella di Mikey (Christopher Abbot) che vive da solo col padre e alleva pecore, e quella di Caroline (Nora-Jane Noone), di suo marito Gary (Paul Ready) e di suo figlio Jack (Barry Keoghan).
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Anora
Anora è il film vincitore della Palma d'oro a Cannes che la Festa del cinema di Roma ci dà la possibilità di vedere in anteprima. Prima di sedermi in Sala Petrassi, del film non sapevo quasi nulla, se non che il regista è Sean Baker, che ho scoperto qualche anno fa con la visione di Red Rocket.
Sean Baker è un regista che sfugge a qualunque classificazione e che fa film decisamente originali, sia a livello di soggetto sia a livello di confezione.
Qui la protagonista è Anora (Mikey Madison), una ragazza di origine russa che si fa chiamare Ani e che si mantiene facendo la lavoratrice del sesso in un locale. Ani è una donna molto sicura di sé e gestisce il suo lavoro con grande padronanza e al contempo naturalezza. Un giorno viene chiamata dal proprietario del locale per occuparsi delle esigenze di Ivan, in realtà Vanja (Mark Eydelshteyn), il rampollo di una famiglia di oligarchi russi che è negli Stati Uniti teoricamente per studiare, ma passa il tempo a divertirsi coi soldi dei genitori, tra sesso, droghe, shopping e feste. Tra Ani e Ivan si crea una sintonia: Ani accompagna Ivan nei suoi sballi e lo "aiuta" a goderseli di più, Ivan trova in Ani la perfetta partner di una filosofia di vita tutta all'insegna del lusso e del divertimento. Questo incastro porta i due a Las Vegas e al matrimonio, suscitando le ire dei genitori di Ivan che mandano i loro scagnozzi armeni a risistemare la situazione.
Se nella prima parte del film prevale la vena romantica, la seconda si fa invece grottesca e divertente, per poi virare, attraverso il personaggio chiave di Igor (quel Yuriy Borisov ammirato nel bellissimo Scompartimento n. 6), verso la malinconia e il senso di sconfitta, che in realtà - a ben vedere - corrono sotterranee fin dal principio e durante tutta la narrazione.
Gli attori in parte semisconosciuti di Sean Baker sono eccezionali nei loro ruoli, la sceneggiatura è godibilissima, a tratti esilarante, le scene ben costruite. Il film di Sean Baker è un tourbillon nel quale si viene piacevolmente risucchiati, per poi essere risputati fuori storditi e malinconici, esattamente come la protagonista, volitiva, decisa, piena di risorse, ma condannata in qualche modo a restare al suo posto, a constatare per l'ennesima volta che solo tra simili ci si comprende davvero, e che i ricchi vincono sempre perché viaggiano su altri binari.
Voto: 4/5
Qui la protagonista è Anora (Mikey Madison), una ragazza di origine russa che si fa chiamare Ani e che si mantiene facendo la lavoratrice del sesso in un locale. Ani è una donna molto sicura di sé e gestisce il suo lavoro con grande padronanza e al contempo naturalezza. Un giorno viene chiamata dal proprietario del locale per occuparsi delle esigenze di Ivan, in realtà Vanja (Mark Eydelshteyn), il rampollo di una famiglia di oligarchi russi che è negli Stati Uniti teoricamente per studiare, ma passa il tempo a divertirsi coi soldi dei genitori, tra sesso, droghe, shopping e feste. Tra Ani e Ivan si crea una sintonia: Ani accompagna Ivan nei suoi sballi e lo "aiuta" a goderseli di più, Ivan trova in Ani la perfetta partner di una filosofia di vita tutta all'insegna del lusso e del divertimento. Questo incastro porta i due a Las Vegas e al matrimonio, suscitando le ire dei genitori di Ivan che mandano i loro scagnozzi armeni a risistemare la situazione.
Se nella prima parte del film prevale la vena romantica, la seconda si fa invece grottesca e divertente, per poi virare, attraverso il personaggio chiave di Igor (quel Yuriy Borisov ammirato nel bellissimo Scompartimento n. 6), verso la malinconia e il senso di sconfitta, che in realtà - a ben vedere - corrono sotterranee fin dal principio e durante tutta la narrazione.
Gli attori in parte semisconosciuti di Sean Baker sono eccezionali nei loro ruoli, la sceneggiatura è godibilissima, a tratti esilarante, le scene ben costruite. Il film di Sean Baker è un tourbillon nel quale si viene piacevolmente risucchiati, per poi essere risputati fuori storditi e malinconici, esattamente come la protagonista, volitiva, decisa, piena di risorse, ma condannata in qualche modo a restare al suo posto, a constatare per l'ennesima volta che solo tra simili ci si comprende davvero, e che i ricchi vincono sempre perché viaggiano su altri binari.
Voto: 4/5
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Bring them down
Il film dell'irlandese Chris Andrews è un dramma rurale senza via d'uscite. Ambientato nelle colline irlandesi, protagonisti sono due famiglie le cui fattorie non sono distanti e i cui terreni sono confinanti: quella di Mikey (Christopher Abbot) che vive da solo col padre e alleva pecore, e quella di Caroline (Nora-Jane Noone), di suo marito Gary (Paul Ready) e di suo figlio Jack (Barry Keoghan).
Tutto ruota intorno al furto di due montoni del gregge di cui si occupa Mikey, e a partire da questo episodio, grazie anche a una narrazione che ci mostra gli eventi da punti di vista differenti, via via scopriamo i complessi rapporti tra queste due famiglie, e si vanno delineando i motivi dell'ostilità di Gary, ma soprattutto di Jack nei confronti di Mikey. La vicenda si fa così sempre più cupa e nera, e si avverte con forza sempre maggiore quanto primitiva e lontana dal mondo sia la vita di queste persone, talvolta frutto di una scelta consapevole, una forma quasi di espiazione dei propri errori, altre volte una condizione che si subisce ma da cui non si riesce a sfuggire.
Storia fatta di buio, di sangue, di sguardi e di pochissime parole, in cui viene lasciato interamente allo spettatore interpretare i sentimenti e i pensieri che stanno dietro le azioni non sempre prevedibili dei personaggi del film.
Ottimo cast, bravo Abbot, sempre con la giusta dose di ambiguità Keoghan. Qualche perplessità ho invece sulla costruzione del film e il montaggio, che a volte ho trovato un po' confuso e disorientante.
A tratti mi ha richiamato alla mente - più come sensazione che come narrazione - As bestas di Sorogoyen, altro dramma provenienti da mondi remoti e rurali, nei quali ogni cosa può amplificarsi e assumere proporzioni ingestibili.
Voto: 3/5
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We live in time - Tutto il tempo che abbiamo
Il regista John Crowley si affida ad Andrew Garfield e Florence Pugh per dare spessore ai protagonisti di questa storia dal soggetto piuttosto classico, ma che sa essere decisamente sorprendente. Tobias e Almut si conoscono in un'occasione non felice: Almut investe Tobias nel giorno in cui lui ha firmato le carte del divorzio. Nel breve tempo che i due trascorrono insieme nasce un feeling che li porterà a rivedersi, e poi a diventare una coppia, a fare una figlia, a condividere gioie e successi personali e lavorativi (Almut è una chef stellata), ad affrontare la malattia di Almut.
Detto così, sembra qualcosa di già visto mille volte, un melodramma tra il romantico e il lacrimevole. Crowley però riesce a dare a questa storia un respiro fresco e originale, ottimamente supportato dall'ottima alchimia tra i due protagonisti, ma anche da una sceneggiatura di altissimo livello (di Nick Payne) e quasi senza sbavature, da un montaggio che attraverso la scomposizione della narrazione ci permette di scoprire le cose in maniera sempre nuova e sorprendente, da una colonna sonora non banale.
Oltre ad alcune scene davvero magistrali (penso in particolare a quella della nascita di Ella nella stazione di servizio), il film promana una tenerezza, una sincerità e una vitalità, che in opere come questa facilmente scadono nello stucchevole e nel lacrimevole. Non che in We live in time non ci si commuova, ma la commozione è uno dei tanti sentimenti della giostra emotiva che Crowley magistralmente costruisce.
Chi legge questo blog sa che rapporto difficile ed entusiasmante ho con il tempo: non potevo non amare un film che mette al centro il "tempo che abbiamo", non per dirci banalmente che dobbiamo vivere il presente ecc. ecc. ma per farci capire, mettendo in sequenza una vita, quanta ricchezza c'è al suo interno, se solo la sappiamo vedere.
Voto: 4/5
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The outrun
The outrun è il film della regista Nora Fingscheidt, tratto dal romanzo autobiografico dal titolo Nelle isole estreme di Amy Liptrot, che è anche coautrice della sceneggiatura.
Al centro del racconto Rona (la sempre bravissima Saoirse Ronan), una giovane donna originaria delle isole Orcadi che ha studiato biologia e vissuto per un periodo a Londra, ma di fronte a un serio problema di alcolismo decide di ritornare a casa, per affrontare i suoi fantasmi anche attraverso un rinnovato contatto con la natura selvaggia delle isole.
Il presente di Rona è nelle Orcadi, dove lei ha fatto ritorno alla ricerca di sé stessa e nel tentativo di colmare i suoi vuoti e dare una risposta alla propria insoddisfazione. Attraverso un montaggio che ci porta avanti e indietro nel tempo, in fasi diverse della giovane vita della protagonista, via via ne comprendiamo il percorso e la personalità: vediamo Rona bambina all'interno di un contesto familiare non facile, in particolare a causa del bipolarismo grave del padre che ha portato alla separazione dei genitori e ha spinto la madre verso una religiosità quasi bigotta; poi più avanti la ritroviamo a Londra tra discoteche, uscite con gli amici, sbronze colossali, e nelle varie fasi del rapporto con il giovane Daynin (Paapa Essiedu), dall'intesa iniziale all'allontanamento a causa dei problemi di alcolismo di lei; infine la ritroviamo nel primo tentativo di rimanere sobria attraverso un programma di disintossicazione, che dopo oltre 200 giorni si infrange contro una crisi del padre e il fondo di vino di un bicchiere.
Rispetto ad altre storie simili che già conosciamo o che abbiamo visto sullo schermo, la cosa interessante in questo caso non è solo la riflessione sulla dipendenza, ma anche e soprattutto il rapporto con il paesaggio e la natura, probabilmente particolarmente significativo per Rona in virtù della sua formazione universitaria, ma anche come conseguenza delle sue origini.
Nell'alternativa tra metropoli e ruralità estrema io al momento non avrei dubbi su cosa scegliere e faccio davvero fatica a capire una vita così solitaria e ritirata in un posto dal clima così inospitale, però devo anche dire che queste realtà mi affascinano enormemente e mi piacerebbe entrarci in contatto.
Voto: 3,5/5
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Conclave
Di Edward Berger avevo visto Niente di nuovo sul fronte occidentale (non al cinema) e devo dire che non mi aveva colpita particolarmente. Questa volta il regista austriaco - ispirandosi nuovamente a un romanzo - si sposta dalle trincee della prima guerra mondiale a un luogo se vogliamo ancora più claustrofobico, le stanze del Vaticano durante il conclave.
Il libro omonimo è quello di Robert Harris, un best seller che ovviamente non ho letto, ma che - dopo aver visto il film - mi sono fatta l'idea che appartenga allo stesso genere di libri come Il codice Da Vinci di Dan Brown.
Al centro del romanzo la morte del pontefice, a seguito della quale viene affidato al cardinale decano Thomas Lawrence (un credibilissimo Ralph Fiennes) il compito di gestire il conclave che dovrà eleggere il nuovo pontefice. Mentre a Roma convergono da tutto il mondo i cardinali, nonché un folto stuolo di suore che dovrà occuparsi del vitto e alloggio degli stessi durante il periodo del conclave, si vanno delineando gli schieramenti. Al soglio pontificio ambiscono un cardinale africano Adeyemi (Lucian Msamati), lo statunitense cardinale Tremblay (John Lithgow), nonché due italiani, i cardinali Bellini (Stanley Tucci) e Tedesco (Sergio Castellitto), esponenti di posizioni "politiche" e punti di vista molto diversi.
Il tono della narrazione è quello di un vero e proprio thriller, in cui si susseguono i colpi di scena: prima l'arrivo di un cardinale nominato in pectore dal precedente pontefice, il cardinale Benitez (Carlos Diehz), poi l'emergere di scandali che riguardano Adeyemi e Tremblay, e parallelamente anche il voto dei convenuti si sposta. Lawrence deve gestire tutto questo, in una condizione individuale sempre più difficile e incerta, fino al colpo di scena finale (invero piuttosto incredibile, nel senso di difficile da credere).
Non si può dire che il film non mantenga viva l'attenzione, e certamente si avvale di attori molto in parte (su tutti Ralph Fiennes), però sul piano dell'intreccio non convince (probabilmente come il libro da cui proviene). Ho trovato invece strepitosa la fotografia - alcune scene da lasciare a bocca aperta per composizione e colori - e molto affascinanti procedure e dettagli messi a punto nei secoli dalla Chiesa per gestire il momento della transizione tra un pontefice e un altro.
Voto: 3/5
A tratti mi ha richiamato alla mente - più come sensazione che come narrazione - As bestas di Sorogoyen, altro dramma provenienti da mondi remoti e rurali, nei quali ogni cosa può amplificarsi e assumere proporzioni ingestibili.
Voto: 3/5
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We live in time - Tutto il tempo che abbiamo
Il regista John Crowley si affida ad Andrew Garfield e Florence Pugh per dare spessore ai protagonisti di questa storia dal soggetto piuttosto classico, ma che sa essere decisamente sorprendente. Tobias e Almut si conoscono in un'occasione non felice: Almut investe Tobias nel giorno in cui lui ha firmato le carte del divorzio. Nel breve tempo che i due trascorrono insieme nasce un feeling che li porterà a rivedersi, e poi a diventare una coppia, a fare una figlia, a condividere gioie e successi personali e lavorativi (Almut è una chef stellata), ad affrontare la malattia di Almut.
Detto così, sembra qualcosa di già visto mille volte, un melodramma tra il romantico e il lacrimevole. Crowley però riesce a dare a questa storia un respiro fresco e originale, ottimamente supportato dall'ottima alchimia tra i due protagonisti, ma anche da una sceneggiatura di altissimo livello (di Nick Payne) e quasi senza sbavature, da un montaggio che attraverso la scomposizione della narrazione ci permette di scoprire le cose in maniera sempre nuova e sorprendente, da una colonna sonora non banale.
Oltre ad alcune scene davvero magistrali (penso in particolare a quella della nascita di Ella nella stazione di servizio), il film promana una tenerezza, una sincerità e una vitalità, che in opere come questa facilmente scadono nello stucchevole e nel lacrimevole. Non che in We live in time non ci si commuova, ma la commozione è uno dei tanti sentimenti della giostra emotiva che Crowley magistralmente costruisce.
Chi legge questo blog sa che rapporto difficile ed entusiasmante ho con il tempo: non potevo non amare un film che mette al centro il "tempo che abbiamo", non per dirci banalmente che dobbiamo vivere il presente ecc. ecc. ma per farci capire, mettendo in sequenza una vita, quanta ricchezza c'è al suo interno, se solo la sappiamo vedere.
Voto: 4/5
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The outrun
The outrun è il film della regista Nora Fingscheidt, tratto dal romanzo autobiografico dal titolo Nelle isole estreme di Amy Liptrot, che è anche coautrice della sceneggiatura.
Al centro del racconto Rona (la sempre bravissima Saoirse Ronan), una giovane donna originaria delle isole Orcadi che ha studiato biologia e vissuto per un periodo a Londra, ma di fronte a un serio problema di alcolismo decide di ritornare a casa, per affrontare i suoi fantasmi anche attraverso un rinnovato contatto con la natura selvaggia delle isole.
Il presente di Rona è nelle Orcadi, dove lei ha fatto ritorno alla ricerca di sé stessa e nel tentativo di colmare i suoi vuoti e dare una risposta alla propria insoddisfazione. Attraverso un montaggio che ci porta avanti e indietro nel tempo, in fasi diverse della giovane vita della protagonista, via via ne comprendiamo il percorso e la personalità: vediamo Rona bambina all'interno di un contesto familiare non facile, in particolare a causa del bipolarismo grave del padre che ha portato alla separazione dei genitori e ha spinto la madre verso una religiosità quasi bigotta; poi più avanti la ritroviamo a Londra tra discoteche, uscite con gli amici, sbronze colossali, e nelle varie fasi del rapporto con il giovane Daynin (Paapa Essiedu), dall'intesa iniziale all'allontanamento a causa dei problemi di alcolismo di lei; infine la ritroviamo nel primo tentativo di rimanere sobria attraverso un programma di disintossicazione, che dopo oltre 200 giorni si infrange contro una crisi del padre e il fondo di vino di un bicchiere.
Rispetto ad altre storie simili che già conosciamo o che abbiamo visto sullo schermo, la cosa interessante in questo caso non è solo la riflessione sulla dipendenza, ma anche e soprattutto il rapporto con il paesaggio e la natura, probabilmente particolarmente significativo per Rona in virtù della sua formazione universitaria, ma anche come conseguenza delle sue origini.
Nell'alternativa tra metropoli e ruralità estrema io al momento non avrei dubbi su cosa scegliere e faccio davvero fatica a capire una vita così solitaria e ritirata in un posto dal clima così inospitale, però devo anche dire che queste realtà mi affascinano enormemente e mi piacerebbe entrarci in contatto.
Voto: 3,5/5
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Conclave
Di Edward Berger avevo visto Niente di nuovo sul fronte occidentale (non al cinema) e devo dire che non mi aveva colpita particolarmente. Questa volta il regista austriaco - ispirandosi nuovamente a un romanzo - si sposta dalle trincee della prima guerra mondiale a un luogo se vogliamo ancora più claustrofobico, le stanze del Vaticano durante il conclave.
Il libro omonimo è quello di Robert Harris, un best seller che ovviamente non ho letto, ma che - dopo aver visto il film - mi sono fatta l'idea che appartenga allo stesso genere di libri come Il codice Da Vinci di Dan Brown.
Al centro del romanzo la morte del pontefice, a seguito della quale viene affidato al cardinale decano Thomas Lawrence (un credibilissimo Ralph Fiennes) il compito di gestire il conclave che dovrà eleggere il nuovo pontefice. Mentre a Roma convergono da tutto il mondo i cardinali, nonché un folto stuolo di suore che dovrà occuparsi del vitto e alloggio degli stessi durante il periodo del conclave, si vanno delineando gli schieramenti. Al soglio pontificio ambiscono un cardinale africano Adeyemi (Lucian Msamati), lo statunitense cardinale Tremblay (John Lithgow), nonché due italiani, i cardinali Bellini (Stanley Tucci) e Tedesco (Sergio Castellitto), esponenti di posizioni "politiche" e punti di vista molto diversi.
Il tono della narrazione è quello di un vero e proprio thriller, in cui si susseguono i colpi di scena: prima l'arrivo di un cardinale nominato in pectore dal precedente pontefice, il cardinale Benitez (Carlos Diehz), poi l'emergere di scandali che riguardano Adeyemi e Tremblay, e parallelamente anche il voto dei convenuti si sposta. Lawrence deve gestire tutto questo, in una condizione individuale sempre più difficile e incerta, fino al colpo di scena finale (invero piuttosto incredibile, nel senso di difficile da credere).
Non si può dire che il film non mantenga viva l'attenzione, e certamente si avvale di attori molto in parte (su tutti Ralph Fiennes), però sul piano dell'intreccio non convince (probabilmente come il libro da cui proviene). Ho trovato invece strepitosa la fotografia - alcune scene da lasciare a bocca aperta per composizione e colori - e molto affascinanti procedure e dettagli messi a punto nei secoli dalla Chiesa per gestire il momento della transizione tra un pontefice e un altro.
Voto: 3/5