Approfitto del mio weekend bolognese e dell’iniziativa della Cineteca di proiettare gratuitamente per gli associati il film Grand Tour alla presenza del regista per cogliere l’opportunità sia di visitare finalmente il cinema Modernissimo – dove si tiene la proiezione – sia di vedere il film per il quale Miguel Gomes ha vinto il premio per la migliore regia a Cannes, che è il suo primo film che ha una distribuzione nel nostro paese.
Grand Tour è un film decisamente sui generis, che si sviluppa attorno a un plot minimale. Siamo nel 1918 in Birmania, dove Edward (Gonçalo Waddington), che è un funzionario dell’impero britannico, attende l’arrivo della fidanzata Molly (Crista Alfaiate) che non vede da sette anni e con cui dovrebbe sposarsi. Tuttavia, prima che Molly arrivi, Edward prende il primo piroscafo in partenza e comincia un lungo viaggio per l’estremo oriente, Thailandia, Vietnam, Filippine, Giappone, Cina, inseguito dalla fidanzata, arrivata a Rangoon poco dopo la sua partenza e decisa a raggiungerlo e a sposarlo.
Seguiremo in queste terre affascinanti e spesso in luoghi remoti prima Edward, poi Molly, e vivremo con loro esperienze, peripezie e incontri di vario tipo.
Questo viaggio si svolgerà in un’atmosfera che oscilla tra l’indagine sociologica e antropologica e il racconto onirico, avvalendosi di immagini in bianco e nero e a colori, che si alternano apparentemente senza una logica, e un voice over che nelle diverse regioni attraversate utilizzano la lingua locale, mentre invece i due protagonisti (britannici nella storia) parlano portoghese.
Le immagini che vediamo, pur essendo in molti casi atemporali, per cui creano l’illusione di riferirsi a un passato piuttosto remoto, non sono però sistematicamente depurate di ogni riferimento alla contemporaneità, cosicché talvolta il comparire di elementi come i telefoni cellulari o treni moderni crea un potente effetto di straniamento. Anche l’evolvere della narrazione procede in modo inusuale, e si ha quasi la sensazione che la sceneggiatura sia stata scritta dopo il montaggio, per adeguarsi ad esso, e non prima, come normalmente si fa.
A me è sembrato che Gomes, oltre a trarre ispirazione dal cinema americano, in particolare dalla screwball comedy, giochi con il meccanismo di sospensione dell’incredulità dello spettatore, prima trascinandolo nella storia e, subito dopo, costringendolo a prenderne le distanze.
Il regista – nella chiacchierata post film – ci racconta da dove è nata l’idea di fondo e le disavventure della lavorazione del film, iniziata nel gennaio del 2020, e terminata in maniera rocambolesca con una troupe nei luoghi del film collegata a distanza con la Spagna.
Difficile classificare questo film, e anche esprimere un giudizio: Gomes ci dice che è suo interesse lasciare allo spettatore la libertà di interpretare, di farsi un’idea, di costruire e ricostruire autonomamente i significati, senza preordinare sentimenti ed emozioni.
E così, tutto quello che c’è nel film - sentimenti, poesia, emozioni, osservazione, noia – troverà proporzioni diverse negli occhi di chi lo guarda.
Grand Tour non è un film che vuole dire cose specifiche o dare risposte: è una specie di esperienza cinematografica pura che invita a meravigliarsi ancora di fronte al potere di creazione e storytelling che è possibile con una telecamera in mano.
Per me un’esperienza sicuramente diversa da quelle a cui il cinema ci ha abituati negli ultimi decenni, e per questo valevole, anche a fronte di qualche lungaggine e momento di noia.
Voto: 3,5/5
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