Inserisco al volo questo spettacolo nella mia programmazione teatrale dell’autunno perché mi arrivano voci molto positive in merito. E così, dopo una lunghissima giornata di lavoro, eccomi al Teatro Vascello a vedere Il giardino dei ciliegi, il terzo lavoro – dopo Il gabbiano e Lo zio Vanja - della trilogia dedicata alle opere di Anton Čechov da parte del regista Leonardo Lidi.
De Il giardino dei ciliegi non so praticamente nulla, né ho tempo di fare qualche piccolo ripasso prima dello spettacolo, così mi affido completamente al regista e agli attori di questa messa in scena.
Il palcoscenico è cosparso di sedie di plastica impilabili ed è delimitato da tende argentate che scendono dal soffitto, una specie di balera abbandonata dove cominciano a interagire alcuni personaggi le cui relazioni reciproche non sempre sono chiare. A un certo punto, sulle note di Ritornerai di Bruno Lauzi, il palco si affolla di molti altri personaggi, una famiglia e connessi vari, che tornano da non si sa dove dopo molto tempo.
Molta parte delle conversazioni che si svilupperanno di qui in poi ruoteranno intorno a un famigerato giardino dei ciliegi che fa parte della proprietà dove è ambientata la pièce. Questa proprietà gestita dal figlio del contadino che per tanto tempo ha servito i proprietari, figlio che è ormai un ricco imprenditore e al rientro della famiglia dichiara fin da subito la necessità/opportunità di vendere il giardino dei ciliegi e farci costruire villette.
In una scenografia che cambia principalmente grazie a un grande pannello parallelo al palcoscenico che in alcuni casi fa da soffitto e in altri fa da pavimento per gli attori – come nella scena a bordo piscina -, gli improbabili protagonisti di questa estate di ritorni e cambiamenti entrano ed escono dalla scena, interagendo in modi non sempre del tutto intellegibili, o producendosi in monologhi che a volte rasentano l’assurdo. Il più delle volte ne viene fuori un effetto straniante e farsesco che strappa a più riprese la risata (dietro di me ci sono dei ragazzi molto giovani che ridono moltissimo per tutto lo spettacolo).
In questa confusione creativa e a tratti destabilizzante, ma devo dire mai noiosa, appare chiaro però che al centro di tutto ci sono temi quali l’arrivismo, la privatizzazione, il parassitismo e molto altro. Ed è abbastanza evidente che quel giardino, che si vuole vendere perché ormai i suoi frutti non rendono molto in termini puramente economici, può rappresentare qualunque realtà culturale pubblica – il teatro in primis – che, pur oggetto di affezione e nostalgie, non è più coerente con l’orientamento al profitto e la pretesa sostenibilità di qualunque investimento.
Il senso di dismissione, decadenza, sgretolamento che attraversa – seppure con un approccio molto giocoso e apparentemente scombinato – questa messa in scena troverà il suo apice nel disallestimento finale di tutta la scenografia che mostrerà infine i personaggi, ciascuno isolato nelle sue piccole o grandi tristezze, in mezzo agli oggetti di scena e a tutta la strumentazione che le quinte normalmente nascondono.
Non sono in grado di dire che tipo di lettura sia quella di Lidi rispetto all’originale checoviano, né quanto ci sia di checoviano in questa reinterpretazione, però senza dubbio la regia di Lidi dimostra personalità nel fare arrivare allo spettatore un approccio ben preciso, sebbene sghembo.
Voto: 3,5/5
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