Denti bianchi / Zadie Smith; trad. di Laura Grimaldi. Milano: Mondadori, 2017.
Nelle mie esplorazioni letterarie degli ultimi tempi mi sono resa conto che mancava completamente all'appello nelle mie letture Zadie Smith, scrittrice di padre inglese e madre giamaicana diventata di culto giovanissima, proprio dopo la pubblicazione di Denti bianchi, il suo primo romanzo.
In Denti bianchi protagonisti della storia sono le famiglie di Samad e di Archie, due amici inseparabili da quando si sono ritrovati a condividere l'angusto spazio dentro un carrarmato durante la guerra. Anni dopo entrambi vivono a Londra: Samad Iqbal, bengalese, è sposato con Alsana, lavora in un ristorante indiano, e ha due figli gemelli, Magid e Millat, mentre Archie Jones, inglese, è sposato con Clara, giamaicana, e ha una figlia, Irie.
Nei suoi quattro capitoli, Denti bianchi attraversa le vite e le storie di tutti questi personaggi, a volte risalendo indietro nel tempo e raccontandoci anche le storie degli avi, come quella del bisnonno di Samad, Mangal Pande e quella di Hortense (nonna di Irie) e di sua madre prima di lei, ma muovendosi anche in avanti fino al momento in cui i figli delle due coppie sono adolescenti e infine giovani adulti.
La storia degli Iqbal e dei Jones si intreccia a un certo punto con quella dei Chalfen, ebrei inglesi, famiglia composta da Marcus, il padre scienziato che fa esperimenti genetici coi topi, e Joyce, la madre che scrive libri sulle piante, e da quattro figli, più o meno geniali, tra cui Joshua, coetano di Irie, di Millat e di Magid.
Denti bianchi è un libro sul colonialismo, sul razzismo, sulle difficoltà ma anche le diverse visioni dell'integrazione, sul radicalismo religioso, ma anche sul radicalismo intellettuale, però soprattutto è un libro frizzante e a tratti scanzonato, pieno di umanità, che ci mette di fronte alla complessità delle società multietniche e delle famiglie miste, ovvero delle famiglie di diversa provenienza, che vivono al loro interno tutte le inevitabili contraddizioni del rapporto tra le loro radici e il mondo nel quale vivono, reagendo ciascuno a proprio modo. Queste contraddizioni si amplificano e diventano dirompenti quando si passa alle seconde generazioni, bambini e poi ragazzi nati e cresciuti nel paese ospite, che dunque da un lato sono totalmente interni alla cultura nella quale sono cresciuti, ma dall'altro vivono sulla propria pelle un senso di alterità, a cui ciascuno risponde secondo il proprio modo di essere.
Devo dire che nei primi capitoli, quando la storia si concentra su Samad e Archie ho fatto un po' fatica a ingranare e a entrare in sintonia con la scrittura della Smith; man mano però che la storia si spostava verso i loro figli, Irie, Millat e Magid, e soprattutto dopo l'incontro con la famiglia Chalfen, il godimento è cresciuto significativamente, e l'ultimo terzo del volume l'ho letto tutto d'un fiato in una domenica pomeriggio di pioggia.
Non posso dire che lo stile di Zadie Smith sia pienamente affine alle mie preferenze. Questa scrittura leggera, senza essere superficiale, questa ironia un po' inglese e un po' no, sono caratteristiche che riconosco e apprezzo, ma non sono esattamente quello che mi colpisce di più. Cosicché pur essendo molto contenta di aver letto questo libro, non sono sicura che andrò avanti nella scoperta di questa autrice, come recentemente ho fatto ad esempio per Chimamanda Ngozi Adichie.
Ma - ripeto - non è un giudizio verso un libro riconosciuto unanimemente come un esordio folgorante, bensì solo un fatto di affinità soggettiva.
Voto: 3/5
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