Prima di ascoltare Minus, il disco da solista con cui Daniel Blumberg ha conquistato i primi posti nelle classifiche dei migliori dischi del 2018, non avevo mai sentito nominare questo musicista. E fin dal primo ascolto ho desiderato fortemente ascoltarlo dal vivo. Non immaginavo che l'occasione sarebbe arrivata così presto grazie ai ragazzi di Unplugged in Monti, che dimostrano di essere sempre sul pezzo e sperimentano con questo concerto una nuova sede, l'Auditorium dello Spin Time Labs.
In attesa del concerto riascolto l'album, ma solo il giorno prima, grazie alla mia amica F., realizzo che Blumberg era il frontman degli Yuck, e che questa è stata solo una delle sue tante collaborazioni e vite musicali, a testimonianza di un'irrequietezza che lo ha portato a sperimentare progetti musicali molto differenti l'uno dall'altro, ma fin qui mimetizzandosi e quasi nascondendosi dietro questi progetti.
Con Minus il musicista esce finalmente allo scoperto. Dal punto di vista personale - come molti hanno messo in evidenza - i testi di queste canzoni sono il perfetto rispecchiamento non soltanto di un momento della vita di Blumberg (la difficile fine di una storia), ma anche di una condizione soggettiva di instabilità emotiva e psichica (che lo ha portato anche a un ricovero). Tutto questo si traduce a livello musicale in una trama sonora in cui la componente melodica e a tratti romantica si trasforma sistematicamente in ripetizione ipnotica e ossessiva, ovvero in distorsione, rumore e distonia, e gli strumenti musicali (il pianoforte, la chitarra elettrica, il contrabbasso, il violoncello, il violino) passano continuamente da un uso tradizionale a un uso sperimentale che attinge a tutte le loro possibilità sonore ed espressive, affiancati dai mille altri oggetti utilizzati per produrre suoni o rumori capaci di armonizzarsi con l'insieme.
Questo complesso insieme di elementi trova la sua massima realizzazione dal vivo, e posso ben dirlo dopo aver assistito al concerto allo Spin Time Labs.
Blumberg si fa accompagnare in questo tour da due incredibili musicisti, il violinista Billy Steiger (capace di far emettere al violino qualunque tipo di suono) e il contrabbassista Tom Wheatle (che sembra zio Fester, ma usa il contrabbasso in un modo indescrivibile e unico, e dimostra di essere in grado di ottenere straordinari risultati anche dal pianoforte e forse pure da altri strumenti). Come Blumberg ci dice nella bella intervista pubblicata su Il Manifesto, si tratta di due dei musicisti che ha conosciuto nell'ambiente del Cafe OTO di Londra, che è diventata negli ultimi anni la sua casa musicale.
Che dire? Il primo impatto oscilla tra il grottesco e l'inquietante. I tre sembrano usciti direttamente da un istituto psichiatrico. Blumberg con la sua aria dinoccolata e il suo berretto calato fin sopra gli occhi, la sua postura completamente ripiegata su sé stessa, il suo dare le spalle al pubblico non solo quando è seduto al pianoforte, ma anche quando è in piedi e imbraccia la chitarra; Wheatle con la sua giaccona larga color panna e i pantaloni altrettanto larghi arrotolati a metà del polpaccio, e il suo volto che Lombroso avrebbe identificato con quello di un serial killer; Steiger con la sua camicia nera a pois bianchi (che sembra uscita dal film Kusama Infinity), il quale - senza scarpe ma con i calzini - allarga progressivamente il suo raggio di azione fino a spostarsi in mezzo al pubblico.
Il concerto è un infinito flusso di coscienza, una specie di seduta psicanalitica di quasi due ore, in cui si viene completamente inghiottiti, anche perché non c'è soluzione di continuità a livello musicale; i brani si fondono l'uno nell'altro, si interrompono bruscamente e poi ritornano, al punto da diventare quasi completamente irriconoscibili. Le melodie sono interrotte da rumori prodotti col sintetizzatore ovvero con gli oggetti in scena, da una filastrocca cantata svogliatamente, da una chitarra elettrica disturbante ad altissimo volume, dal suono di un piccolo flauto, dal trillo di una campanella che i musicisti a turno calciano per farla suonare.
A un certo punto sul palco resta da solo Blumberg, mentre Steiger è in mezzo al pubblico che produce strani suoni con il suo violino, e Wheatle è nel retro del palco che produce rumori sinistri con chissà cosa e a un certo punto accompagna l'esecuzione con il rumore di un aspirapolvere acceso. Poi, sparisce dal palco anche Blumberg che torna a più riprese con dei palloncini, tra cui alcuni rossi a forma di cuore, che farà scoppiare a uno a uno, facendone una componente della sua performance musicale.
Impossibile dire quanto dell'esecuzione musicale è stata programmata e quanto è il frutto dell'improvvisazione e della libera invenzione del momento da parte dei tre musicisti. La cosa incredibile e impressionante è che - a meno che non siano loro stessi a voler produrre distonia pura - le loro individuali improvvisazioni riescono sempre ad amalgamarsi in un insieme che sul piano sonoro mantiene un senso compiuto.
Di fronte a uno spettacolo come quello offerto da Blumberg si può oscillare alternativamente tra l'esaltato e l'inorridito, tra l'entusiastico e il perplesso, ma certamente si esce consapevoli di aver assistito a una vera performance musicale, un vero live, magari con i suoi difetti e le sue cose non perfettamente riuscite, ma comunque uno spettacolo unico che nessun ascolto in cuffia può sostituire.
Alla fine del concerto Blumberg saluta un tale Sasà, una specie di guru vestito di bianco in prima fila, e si va a nascondere dietro le quinte, sicuramente sfiancato da un'esposizione pubblica che se da un lato probabilmente lo esalta, dall'altro lo devasta.
F. si chiede quanto ci sia di costruito nel suo modo di stare sul palco, insomma quanto interpreti il personaggio del genio musicale disturbato; io personalmente sono abbastanza convinta del fatto che quello che abbiamo visto e ascoltato è Daniel Blumberg, esattamente com'è anche nella vita di tutti i giorni, ma Daniel appartiene a quella schiatta di artisti geniali, sregolati e folli che nell'arte (nel suo caso la musica, ma anche il disegno - una sua mostra è attualmente in corso ad Amburgo) possono trovare la loro valvola di sfogo e salvezza o il buco nero nel quale inabissarsi definitivamente senza riuscire più a uscirne.
Per tutti questi motivi assistere a un concerto di Daniel Blumberg è al contempo un'esperienza destabilizzante e unica.
Voto: 4/5
venerdì 29 marzo 2019
mercoledì 27 marzo 2019
Regina madre / Manlio Santanelli. Teatro Piccolo Eliseo, 14 marzo 2019
A me e F. negli ultimi anni, anche grazie all'assidua frequentazione dei teatri, è venuta una vera e propria passione per il teatro napoletano degli anni Ottanta, un periodo che - da quanto abbiamo visto e potuto capire leggendone - è stato ricco di testi, autori e invenzioni, e che ancora oggi a distanza di quarant'anni continua a risultare vivo e potente.
In questo nostro filone di riscoperta decidiamo di andare a vedere Regina madre, un testo teatrale di Manlio Santanelli, autore napoletano ancora vivente, portato in scena con la regia di Carlo Cerciello e interpretato dai bravissimi Fausto Russo Alesi e Imma Villa.
Sul palco un enorme letto; da un lato un Pinocchio, dall'altro la Fata Turchina, sotto decine e decine di bicchieri da una parte e una torta con cinque candeline dall'altra.
Sul lettone due personaggi, una madre anziana e un figlio che è arrivato per fermarsi da lei per un po' su suggerimento del dottore. Tra i due inizia una schermaglia che prende rapidamente toni quasi comici: la madre, il cui nome è appunto Regina, non è capace della minima empatia con il figlio (e la figlia evocata solo nei discorsi) cui viene rinfacciato tutto, dalle scelte personali alla scarsa attenzione verso la madre, dai fallimenti lavorativi ai comportamenti quotidiani, mentre si staglia su tutto la figura perfetta del padre morto molti anni prima. In questa prima parte dello spettacolo si ride, seppure amaramente, complice anche la recitazione in napoletano di Imma Villa nei panni della madre.
A un certo punto, però, arriva un momento di confessione dolorosa tra madre e figlio, e da questo momento nello spettacolo si innesca un cambio di registro, mentre sul lettone su cui i due sono seduti vengono montate - dagli stessi protagonisti - due spalliera (dalla parte della testa e dei piedi).
Inizia da qui un viaggio allucinato nella mente, in cui il figlio diventa la madre e interloquisce con la figlia, la stessa Imma Villa che prima interpretava la madre. Da qui in poi i ruoli si scambiano più volte e la madre rivive nei corpi e nella testa dei due figli. Un cappello a tesa larga costituisce lo strumento scenico che - come un testimone - passando da un attore all'altro, segna anche la consegna dello "spirito" della madre, fino a quando persino questo scambio di ruoli si fa ambiguo. Il registro intanto oscilla pericolosamente tra il drammatico e il grottesco, in una escalation emotiva che si fa sempre più disturbante anche per lo spettatore e che si tramuta in una vera e propria regressione all'infanzia, che potrà dirsi compiuta quando il lettone sul palco viene completato con una sponda che lo trasforma in lettino per bambini.
Attraverso gli occhi allucinati di Fausto Russo Alesi passa il personaggio di un figlio adulto che non si è mai affrancato completamente dalla madre e che in fondo ha bisogno di quest'ultima come capro espiatorio delle proprie mostruosità e dei propri fallimenti, della propria dipendenza dai farmaci e della propria depressione, così come - dall'altro lato - la figlia emerge con la sua debolezza composta, fatta di vuoti interiori e di non meno inquietanti squilibri. Il tutto fino allo svelamento della grande menzogna che la madre ha portato avanti dopo la morte del padre, ossia quella di un matrimonio perfetto con un uomo eccezionale.
Ma il testo di Santanelli, che - come scrivono critici certo più titolati di me - attinge alla lezione del teatro dell'assurdo e ricorda a tratti Ionesco (che non a caso al debutto lo definì éxtraordinaire), non sceglie la strada più semplice e lineare, bensì quella più ambigua, scomoda e complessa. In questo spettacolo non ci sono carnefici e vittime, non ci sono buoni e cattivi, e viene smontata dalla base la facile lettura di una madre anaffettiva responsabile dei traumi e dei problemi dei figli, per lasciare spazio invece a una lettura in cui ognuno è chiamato alle proprie responsabilità individuali rispetto alla propria vita e alle proprie scelte e, al contempo, tutti sono oggetto di compassione di fronte alle sfide della vita.
Voto: 3,5/5
In questo nostro filone di riscoperta decidiamo di andare a vedere Regina madre, un testo teatrale di Manlio Santanelli, autore napoletano ancora vivente, portato in scena con la regia di Carlo Cerciello e interpretato dai bravissimi Fausto Russo Alesi e Imma Villa.
Sul palco un enorme letto; da un lato un Pinocchio, dall'altro la Fata Turchina, sotto decine e decine di bicchieri da una parte e una torta con cinque candeline dall'altra.
Sul lettone due personaggi, una madre anziana e un figlio che è arrivato per fermarsi da lei per un po' su suggerimento del dottore. Tra i due inizia una schermaglia che prende rapidamente toni quasi comici: la madre, il cui nome è appunto Regina, non è capace della minima empatia con il figlio (e la figlia evocata solo nei discorsi) cui viene rinfacciato tutto, dalle scelte personali alla scarsa attenzione verso la madre, dai fallimenti lavorativi ai comportamenti quotidiani, mentre si staglia su tutto la figura perfetta del padre morto molti anni prima. In questa prima parte dello spettacolo si ride, seppure amaramente, complice anche la recitazione in napoletano di Imma Villa nei panni della madre.
A un certo punto, però, arriva un momento di confessione dolorosa tra madre e figlio, e da questo momento nello spettacolo si innesca un cambio di registro, mentre sul lettone su cui i due sono seduti vengono montate - dagli stessi protagonisti - due spalliera (dalla parte della testa e dei piedi).
Inizia da qui un viaggio allucinato nella mente, in cui il figlio diventa la madre e interloquisce con la figlia, la stessa Imma Villa che prima interpretava la madre. Da qui in poi i ruoli si scambiano più volte e la madre rivive nei corpi e nella testa dei due figli. Un cappello a tesa larga costituisce lo strumento scenico che - come un testimone - passando da un attore all'altro, segna anche la consegna dello "spirito" della madre, fino a quando persino questo scambio di ruoli si fa ambiguo. Il registro intanto oscilla pericolosamente tra il drammatico e il grottesco, in una escalation emotiva che si fa sempre più disturbante anche per lo spettatore e che si tramuta in una vera e propria regressione all'infanzia, che potrà dirsi compiuta quando il lettone sul palco viene completato con una sponda che lo trasforma in lettino per bambini.
Attraverso gli occhi allucinati di Fausto Russo Alesi passa il personaggio di un figlio adulto che non si è mai affrancato completamente dalla madre e che in fondo ha bisogno di quest'ultima come capro espiatorio delle proprie mostruosità e dei propri fallimenti, della propria dipendenza dai farmaci e della propria depressione, così come - dall'altro lato - la figlia emerge con la sua debolezza composta, fatta di vuoti interiori e di non meno inquietanti squilibri. Il tutto fino allo svelamento della grande menzogna che la madre ha portato avanti dopo la morte del padre, ossia quella di un matrimonio perfetto con un uomo eccezionale.
Ma il testo di Santanelli, che - come scrivono critici certo più titolati di me - attinge alla lezione del teatro dell'assurdo e ricorda a tratti Ionesco (che non a caso al debutto lo definì éxtraordinaire), non sceglie la strada più semplice e lineare, bensì quella più ambigua, scomoda e complessa. In questo spettacolo non ci sono carnefici e vittime, non ci sono buoni e cattivi, e viene smontata dalla base la facile lettura di una madre anaffettiva responsabile dei traumi e dei problemi dei figli, per lasciare spazio invece a una lettura in cui ognuno è chiamato alle proprie responsabilità individuali rispetto alla propria vita e alle proprie scelte e, al contempo, tutti sono oggetto di compassione di fronte alle sfide della vita.
Voto: 3,5/5
lunedì 25 marzo 2019
Radici / Sollima and Music Up Close Cello Ensemble. Auditorium Parco della Musica, 12 marzo 2019
Ormai io e F. siamo diventate delle vere e proprie habitué dei concerti di Giovanni Sollima e - per quanto possibile - non ce ne lasciamo scappare nemmeno uno.
Dopo l'esibizione al Teatro Argentina nel progetto cello solo Ba-Rock, questa volta il violoncellista palermitano porta al Santa Cecilia dell'Auditorium Parco della Musica il concerto Radici, suonato insieme al Music Up Close Cello Ensemble, un progetto europeo rivolto ai giovani cui partecipano l'Accademia di Santa Cecilia e altre orchestre e organizzazioni europee e internazionali.
In particolare, questo concerto è il risultato di un'iniziativa comune dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, della Netherlands Philharmonic Orchestra e dell'Orchestra Sinfonica di Barcellona e Nazionale di Catalogna.
In Sala Borgna, insieme a Giovanni Sollima, entrano dunque dodici giovani violoncellisti, nove dei quali italiani, una olandese e due spagnoli.
Il programma della serata, come ce lo presenta lo stesso Sollima e come è scritto nell'opuscolo illustrativo, è sostanzialmente un percorso attraverso le epoche e le culture, alla ricerca delle radici del canto popolare, che dimostrano di essere profondamente condivise soprattutto a una certa latitudine.
Si comincia dunque con Krunck, un suggestivo canto della tradizione armena di Padre Komitas, per passare alla Sinfonia da Adelson e Salvini di Vincenzo Bellini (al cui interno si riconosce un percorso che attraversa l'Italia per arrivare alla Francia), quindi ci si posta in Brasile con Ceco Aderaldo di Egberto Gismonti, poi alla Romanza di Niccolò Van Westerhout, musicista che per una serie di coincidenze nacque a Mola di Bari, quindi al Fandango di Luigi Boccherini, al canto macedone Ako Umram il Zaginam, e ancora alla Sardana di Pablo Casals, al pezzo Bêri dello stesso Sollima, per chiudere in bellezza con una scatenata pizzica salentina.
Tutti questi pezzi, anche quelli originariamente scritti per altri strumenti, sono ovviamente proposti nella versione arrangiata per Cello Ensemble, con esiti molto interessanti e a tratti emozionanti. È una montagna russa musicale quella su cui Sollima e gli altri violoncellisti ci conducono, facendoci perdere il senso dell'orientamento nello spazio e del tempo e, al contempo, facendoci ritrovare un centro musicale attorno al quale tutto gravita.
L'istrione della situazione resta ovviamente Sollima, che - come è nel suo stile - non sta un attimo fermo e - sia quando suona il suo violoncello sia quando dirige - lo fa con tutto il corpo e con tutto sé stesso; ma quello che colpisce è la concentrazione e la bravura, nonché l'intesa tra i giovani musicisti che lo affiancano e che dimostrano di essere all'altezza del maestro.
Al termine del concerto, il Cello Ensemble ci omaggia con due pezzi ulteriori, Segura Ele di Jaques Morelenbaum, e l'inno del Sudafrica, che come dice Sollima, in realtà è un po' l'inno di tutta l'Africa.
Alla fine - e come sempre ai suoi concerti - il pubblico è entusiasta e anche i numerosi bambini - anche molto piccoli - che hanno assistito attentissimi a tutto il concerto spellandosi le mani per i numerosi applausi.
Sollima si conferma un mattatore musicale capace di mettere la musica in comunicazione da un lato con i musicisti, soprattutto i più giovani, cui tiene particolarmente, dall'altro con il pubblico, a qualunque fascia d'età e livello socio-culturale appartenga.
Voto: 4/5
Dopo l'esibizione al Teatro Argentina nel progetto cello solo Ba-Rock, questa volta il violoncellista palermitano porta al Santa Cecilia dell'Auditorium Parco della Musica il concerto Radici, suonato insieme al Music Up Close Cello Ensemble, un progetto europeo rivolto ai giovani cui partecipano l'Accademia di Santa Cecilia e altre orchestre e organizzazioni europee e internazionali.
In particolare, questo concerto è il risultato di un'iniziativa comune dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, della Netherlands Philharmonic Orchestra e dell'Orchestra Sinfonica di Barcellona e Nazionale di Catalogna.
In Sala Borgna, insieme a Giovanni Sollima, entrano dunque dodici giovani violoncellisti, nove dei quali italiani, una olandese e due spagnoli.
Il programma della serata, come ce lo presenta lo stesso Sollima e come è scritto nell'opuscolo illustrativo, è sostanzialmente un percorso attraverso le epoche e le culture, alla ricerca delle radici del canto popolare, che dimostrano di essere profondamente condivise soprattutto a una certa latitudine.
Si comincia dunque con Krunck, un suggestivo canto della tradizione armena di Padre Komitas, per passare alla Sinfonia da Adelson e Salvini di Vincenzo Bellini (al cui interno si riconosce un percorso che attraversa l'Italia per arrivare alla Francia), quindi ci si posta in Brasile con Ceco Aderaldo di Egberto Gismonti, poi alla Romanza di Niccolò Van Westerhout, musicista che per una serie di coincidenze nacque a Mola di Bari, quindi al Fandango di Luigi Boccherini, al canto macedone Ako Umram il Zaginam, e ancora alla Sardana di Pablo Casals, al pezzo Bêri dello stesso Sollima, per chiudere in bellezza con una scatenata pizzica salentina.
Tutti questi pezzi, anche quelli originariamente scritti per altri strumenti, sono ovviamente proposti nella versione arrangiata per Cello Ensemble, con esiti molto interessanti e a tratti emozionanti. È una montagna russa musicale quella su cui Sollima e gli altri violoncellisti ci conducono, facendoci perdere il senso dell'orientamento nello spazio e del tempo e, al contempo, facendoci ritrovare un centro musicale attorno al quale tutto gravita.
L'istrione della situazione resta ovviamente Sollima, che - come è nel suo stile - non sta un attimo fermo e - sia quando suona il suo violoncello sia quando dirige - lo fa con tutto il corpo e con tutto sé stesso; ma quello che colpisce è la concentrazione e la bravura, nonché l'intesa tra i giovani musicisti che lo affiancano e che dimostrano di essere all'altezza del maestro.
Al termine del concerto, il Cello Ensemble ci omaggia con due pezzi ulteriori, Segura Ele di Jaques Morelenbaum, e l'inno del Sudafrica, che come dice Sollima, in realtà è un po' l'inno di tutta l'Africa.
Alla fine - e come sempre ai suoi concerti - il pubblico è entusiasta e anche i numerosi bambini - anche molto piccoli - che hanno assistito attentissimi a tutto il concerto spellandosi le mani per i numerosi applausi.
Sollima si conferma un mattatore musicale capace di mettere la musica in comunicazione da un lato con i musicisti, soprattutto i più giovani, cui tiene particolarmente, dall'altro con il pubblico, a qualunque fascia d'età e livello socio-culturale appartenga.
Voto: 4/5
venerdì 22 marzo 2019
L'aria del tempo / Massimo Sestini. WeGIL, 10 marzo 2019
Nell'ultimo giorno utile riesco finalmente a fare una scappata a vedere la mostra di Massimo Sestini L'aria del tempo, al palazzo WeGIL di Trastevere.
Si tratta di una mostra tutto sommato piccola e senza troppi fronzoli, come è abbastanza tipico delle mostre organizzate in questo spazio, ma dal sicuro impatto visivo ed emotivo.
Massimo Sestini è un fotoreporter italiano, classe 1963, che ha lavorato per numerose testate giornalistiche fin dagli anni Ottanta, accaparrandosi molti scoop (come la cattura di Licio Gelli e il bikini di Lady D).
La mostra L'aria del tempo (che è diventata anche un libro per la casa editrice Contrasto) dimostra che Sestini - oltre ai lavori su commissione e all'attività da fotoreporter - ha anche una sua specificità e coerenza fotografica, che conferisce ai suoi lavori un valore artistico al di là e al di sopra di quello cronachistico.
In questa raccolta di foto Sestini ci mostra il mondo dall'alto, raccontandolo attraverso una visione zenitale che trasforma scene di vita quotidiana, luoghi e vicende di cronaca in visioni astratte e pattern capaci di attirare l'attenzione e di condurre al significato profondo nascosto nella ripetizione del segno.
Così si va dalla spiaggia di Ostia il giorno di ferragosto all'ILVA di Taranto, dalla raccolta dei pomodori in Puglia alla gara di sci, dai funerali di Giovanni Paolo II alla Costa Concordia rovesciata in mare, dalla spiaggia punteggiata di ombrelloni chiusi tranne uno (una delle mie preferite!) al barcone dei migranti al largo di Lampedusa (la foto con cui ha vinto il 2° premio al World Press Photo 2015 nella sezione "Foto singole").
La visita della mostra è dunque una passeggiata attraverso la storia recente del nostro paese e i fatti che l'hanno caratterizzato - con tutte le amare riflessioni che essi portano con sé - ma anche l'occasione di una meraviglia visiva che cattura lo sguardo e rimane impressa sulla retina.
La mostra propone due soli pannelli esplicativi che presentano il lavoro di Sestini e la selezione di questa mostra, e semplici didascalie a corredo delle foto; ma va detto che probabilmente le foto di Sestini non hanno bisogno di molte spiegazioni, perché arrivano - con la sola forza dell'immagine - esattamente dove vogliono arrivare.
Oggi forse l'utilizzo dei droni rende la realizzazione di foto di questo genere più comune e in parte più scontata, ma forse meno affascinante, se si pensa che invece Sestini ha volato con tutti i mezzi possibili e spesso anche non autorizzato per realizzare queste immagini, dimostrando una passione e una creatività notevoli.
Una bella scoperta.
Voto: 3,5/5
Si tratta di una mostra tutto sommato piccola e senza troppi fronzoli, come è abbastanza tipico delle mostre organizzate in questo spazio, ma dal sicuro impatto visivo ed emotivo.
Massimo Sestini è un fotoreporter italiano, classe 1963, che ha lavorato per numerose testate giornalistiche fin dagli anni Ottanta, accaparrandosi molti scoop (come la cattura di Licio Gelli e il bikini di Lady D).
La mostra L'aria del tempo (che è diventata anche un libro per la casa editrice Contrasto) dimostra che Sestini - oltre ai lavori su commissione e all'attività da fotoreporter - ha anche una sua specificità e coerenza fotografica, che conferisce ai suoi lavori un valore artistico al di là e al di sopra di quello cronachistico.
In questa raccolta di foto Sestini ci mostra il mondo dall'alto, raccontandolo attraverso una visione zenitale che trasforma scene di vita quotidiana, luoghi e vicende di cronaca in visioni astratte e pattern capaci di attirare l'attenzione e di condurre al significato profondo nascosto nella ripetizione del segno.
Così si va dalla spiaggia di Ostia il giorno di ferragosto all'ILVA di Taranto, dalla raccolta dei pomodori in Puglia alla gara di sci, dai funerali di Giovanni Paolo II alla Costa Concordia rovesciata in mare, dalla spiaggia punteggiata di ombrelloni chiusi tranne uno (una delle mie preferite!) al barcone dei migranti al largo di Lampedusa (la foto con cui ha vinto il 2° premio al World Press Photo 2015 nella sezione "Foto singole").
La visita della mostra è dunque una passeggiata attraverso la storia recente del nostro paese e i fatti che l'hanno caratterizzato - con tutte le amare riflessioni che essi portano con sé - ma anche l'occasione di una meraviglia visiva che cattura lo sguardo e rimane impressa sulla retina.
La mostra propone due soli pannelli esplicativi che presentano il lavoro di Sestini e la selezione di questa mostra, e semplici didascalie a corredo delle foto; ma va detto che probabilmente le foto di Sestini non hanno bisogno di molte spiegazioni, perché arrivano - con la sola forza dell'immagine - esattamente dove vogliono arrivare.
Oggi forse l'utilizzo dei droni rende la realizzazione di foto di questo genere più comune e in parte più scontata, ma forse meno affascinante, se si pensa che invece Sestini ha volato con tutti i mezzi possibili e spesso anche non autorizzato per realizzare queste immagini, dimostrando una passione e una creatività notevoli.
Una bella scoperta.
Voto: 3,5/5
mercoledì 20 marzo 2019
Il professore cambia scuola
Nella cinematografia francese il tema dell'istruzione e della scuola è un filone piuttosto consolidato che ha prodotto lavori molto interessanti. Tra gli altri ricordo qui in particolare La classe di Laurent Cantet e La schivata di Abdellatif Kechiche.
In questo filone si inserisce anche il film di Olivier Ayache-Vidal, Les grands esprits, trasformato dai nostri geniali distributori in un titolo che sembra fare concorrenza alle commedie trash degli anni Settanta, Il professore cambia scuola.
Il film ha come protagonista François Foucault (Denis Podalydès), un professore di letteratura - figlio di un famoso scrittore - che insegna nel prestigioso liceo Enrico IV nel centro di Parigi. François è appassionato del proprio lavoro, che svolge con grande professionalità e vive come una vera e propria missione. In occasione della presentazione di un libro del padre, si trova a commentare sulla necessità di destinare alle scuole suburbane insegnanti con maggiore esperienza e per questo, a seguito di un incontro presso il Ministero della pubblica istruzione, gli viene chiesto se è disponibile a svolgere la propria attività presso una di queste scuole per un anno scolastico, al fine di promuovere una politica nuova che il Ministero vorrebbe lanciare.
Non del tutto convinto, François decide di accettare la sfida e si ritrova a insegnare in una scuola in cui la quasi totalità della classe è formata di studenti di altre provenienze etniche, immigrati di seconda generazione con grosse carenze formative e non solo, mentre il corpo insegnanti è costituito da giovani alle prime armi, che oscillano tra la frustrazione, la disperazione e la rassegnazione, una scuola nella quale i problemi si risolvono a colpi di consigli di disciplina e di espulsioni.
François, che all'inizio pensa di poter applicare il suo metodo anche nella nuova scuola, dovrà invece cambiare più volte il suo approccio, accogliendo gli insegnamenti che arrivano dai suoi colleghi, in particolare dalla giovane insegnante di storia e geografia, e anche entrando nel mondo dei suoi allievi, di cui dovrà comprendere le necessità e le aspirazioni.
Quella di Ayache-Vidal - pur con un approccio sicuramente semplificato e semplicistico, ai limiti della favoletta buonista in alcuni momenti - è una riflessione interessante sui compiti della scuola e sul ruolo che questa può svolgere per dare ai ragazzi nelle situazioni più svantaggiate una prospettiva di futuro, oltre che una amara considerazione sul fatto che il sistema scolastico è strutturato in modo tale da favorire un circolo vizioso, per cui chi è già avvantaggiato per provenienza ed estrazione sociale ha le migliori condizioni e opportunità per andare ancora più avanti, mentre chi già viene da situazioni difficili deve accontentarsi di una scuola e di un insegnamento di serie B che non gli offre alcuna occasione di affrancarsi.
La tendenza delle scuole a diventare ghetti o enclave privilegiate è una realtà in molta parte del mondo occidentale e certamente è alla base di molti problemi delle nostre società.
Il film di Ayache-Vidal riesce a dribblare il rischio di un eccesso di retorica, pur raccontando una storia che è di buoni sentimenti e che punta - entro certi limiti - al lieto fine.
Voto: 3/5
In questo filone si inserisce anche il film di Olivier Ayache-Vidal, Les grands esprits, trasformato dai nostri geniali distributori in un titolo che sembra fare concorrenza alle commedie trash degli anni Settanta, Il professore cambia scuola.
Il film ha come protagonista François Foucault (Denis Podalydès), un professore di letteratura - figlio di un famoso scrittore - che insegna nel prestigioso liceo Enrico IV nel centro di Parigi. François è appassionato del proprio lavoro, che svolge con grande professionalità e vive come una vera e propria missione. In occasione della presentazione di un libro del padre, si trova a commentare sulla necessità di destinare alle scuole suburbane insegnanti con maggiore esperienza e per questo, a seguito di un incontro presso il Ministero della pubblica istruzione, gli viene chiesto se è disponibile a svolgere la propria attività presso una di queste scuole per un anno scolastico, al fine di promuovere una politica nuova che il Ministero vorrebbe lanciare.
Non del tutto convinto, François decide di accettare la sfida e si ritrova a insegnare in una scuola in cui la quasi totalità della classe è formata di studenti di altre provenienze etniche, immigrati di seconda generazione con grosse carenze formative e non solo, mentre il corpo insegnanti è costituito da giovani alle prime armi, che oscillano tra la frustrazione, la disperazione e la rassegnazione, una scuola nella quale i problemi si risolvono a colpi di consigli di disciplina e di espulsioni.
François, che all'inizio pensa di poter applicare il suo metodo anche nella nuova scuola, dovrà invece cambiare più volte il suo approccio, accogliendo gli insegnamenti che arrivano dai suoi colleghi, in particolare dalla giovane insegnante di storia e geografia, e anche entrando nel mondo dei suoi allievi, di cui dovrà comprendere le necessità e le aspirazioni.
Quella di Ayache-Vidal - pur con un approccio sicuramente semplificato e semplicistico, ai limiti della favoletta buonista in alcuni momenti - è una riflessione interessante sui compiti della scuola e sul ruolo che questa può svolgere per dare ai ragazzi nelle situazioni più svantaggiate una prospettiva di futuro, oltre che una amara considerazione sul fatto che il sistema scolastico è strutturato in modo tale da favorire un circolo vizioso, per cui chi è già avvantaggiato per provenienza ed estrazione sociale ha le migliori condizioni e opportunità per andare ancora più avanti, mentre chi già viene da situazioni difficili deve accontentarsi di una scuola e di un insegnamento di serie B che non gli offre alcuna occasione di affrancarsi.
La tendenza delle scuole a diventare ghetti o enclave privilegiate è una realtà in molta parte del mondo occidentale e certamente è alla base di molti problemi delle nostre società.
Il film di Ayache-Vidal riesce a dribblare il rischio di un eccesso di retorica, pur raccontando una storia che è di buoni sentimenti e che punta - entro certi limiti - al lieto fine.
Voto: 3/5
lunedì 18 marzo 2019
Fedeltà / Marco Missiroli
Fedeltà / Marco Missiroli. Torino: Einaudi, 2019.
Ho comprato il libro di Marco Missiroli praticamente appena uscito e ho iniziato a leggerlo poco dopo. Di lui mi era piaciuto moltissimo Atti osceni in luogo privato e avevo apprezzato anche Senza coda, cosicché ero impaziente di tuffarmi in questa nuova storia, che da più parti avevo letto essere il suo romanzo della maturità, e scopro l'altro ieri già finalista al Premio Strega.
Ebbene, sarà sempre perché le aspettative fanno brutti scherzi, ma il romanzo mi ha deluso. E qui provo a spiegare anche perché, tanto più che in giro si leggono diverse critiche molto positive (il che potrebbe anche voler dire che la mia lettura è stata in qualche modo condizionata).
I protagonisti di Fedeltà sono principalmente due, Carlo e Margherita, che sono marito e moglie: il primo è uno scrittore mancato, un professore giunto alla cattedra grazie al padre, e un redattore di guide turistiche per sbarcare il lunario; la seconda è un'architetta che però si è trovata infine a gestire un'agenzia immobiliare. La loro storia funziona e l'intesa ancora dura dopo diversi anni insieme, anche se Missiroli li mette sotto la lente di ingrandimento in un momento in cui entrambi sono inquieti e sentono affiorare un desiderio di apertura a qualcosa di diverso.
Carlo è stato sorpreso nel bagno con una sua studentessa, Sofia, ma i due hanno detto a tutti che si è trattato di un malinteso e che il professore stava solo soccorrendo l'allieva che si era sentita male.
Margherita si sta facendo curare una pubalgia da Andrea e non può fare a meno di sentire il desiderio che le mani del giovane vadano oltre la fisioterapia.
La figura che in qualche modo supervisiona su tutto questo e di cui sia Carlo che Margherita cercano la confidenza è Anna, la mamma di quest'ultima, che ha fatto la sarta per tutta la vita ed è rimasta vedova dopo la morte di suo marito ferroviere. Una donna di un'altra generazione, che anche di fronte al dubbio è in grado di attingere alle proprie risorse emotive e al proprio bagaglio di convincimenti.
Come ha detto qualcuno, Anna è il personaggio più intenso del romanzo di Missiroli, e nella seconda parte del libro, quella che si svolge nove anni dopo, quando Carlo e Margherita si sono trasferiti in una nuova casa e hanno un figlio, Lorenzo, diventa la vera protagonista, il motore immobile del racconto.
E, personalmente, se devo salvare il libro lo salvo principalmente per il personaggio di Anna.
Gli altri personaggi intorno infatti mi sono sembrati decisamente meno convincenti: pochissimo convincenti personaggi in certa misura secondari, come Sofia, che torna a Rimini a lavorare nella ferramenta del padre, e Andrea, che è pericolosamente attirato dai combattimenti dei cani e dai fight club e, dopo alcune relazioni più o meno passeggere o fallimentari, sceglie di vivere la propria omosessualità con Giorgio. Non so se è perché appartengono a una generazione che conosco meno, ma a me sono sembrati poco approfonditi dal punto di vista psicologico e nel complesso poco credibili.
Alla fine anche con Carlo e Margherita ci sono entrata pochissimo in sintonia, e in questo loro perenne senso di precarietà e incertezza, bisogno di altro senza capire bene di cosa, inquietudine e ricerca incessante, non sono riuscita a volergli bene. Intuisco che Missiroli voglia rappresentare attraverso di loro una specifica generazione (i personaggi hanno circa 35 anni nella prima metà del romanzo e 44 nella seconda metà), ma non mi è chiaro se questa generazione non è la mia o se sono io che in qualche modo le sono in parte estranea. A me durante la lettura - più che sentir parlare di una generazione - mi è sembrato di vedere rappresentata una specie di crisi di mezza età il cui esito mi è risultato peraltro consolatorio: sperimentare e cercare spiragli di novità e di libertà per poi ripristinare gli equilibri, come se gli equilibri fossero la normalità e non fosse invece vero esattamente il contrario.
Anche i numerosi riferimenti alla nostra contemporaneità social - soprattutto se sommati a questi per me improbabili richiami ad ambienti marginali come quelli dei fight club e dei combattimenti dei cani - mi sono sembrati più un modo di apparire contemporanei che il prodotto naturale della narrazione.
In generale, e forse è questo l'aspetto che mi ha infastidito e turbato di più, è quella forte sensazione di artificiosità che secondo me - a parte che per il personaggio di Anna - pervade il romanzo, in cui vicende e personaggi appaiono un po' scritti a tavolino.
Ne risente secondo me anche la scrittura di Missiroli, una scrittura che resta di qualità e letterariamente di spessore, ma che - nel tentativo di mantenere fede alla scelta di creare delle transizioni morbide e delle forme di continuità tra i personaggi slittando la narrazione dall'uno all'altro grazie a degli elementi di connessione (un gesto, una parola che si ripetono) - si fa un po' costruita e poco spontanea. Personalmente ho poco gradito anche gli inserti che descrivono amplessi e atti sessuali vissuti o immaginati e che utilizzano un linguaggio esplicito, al limite del volgare; e il punto per me non è certo l'imbarazzo o il moralismo, che su questo fronte non mi appartengono, ma la sostanziale gratuità - a mio modesto parere - di questa scelta.
Poi magari Fedeltà vincerà il Premio Strega e tutti lo elogeranno, mentre io rimarrò la dilettante che non ha capito nulla, ma alla fine non me ne preoccupo. Proprio il fatto di non essere una professionista della critica letteraria mi consente delle libertà e magari anche delle figuracce che altri non potrebbero permettersi.
Voto: 2,5/5
Ho comprato il libro di Marco Missiroli praticamente appena uscito e ho iniziato a leggerlo poco dopo. Di lui mi era piaciuto moltissimo Atti osceni in luogo privato e avevo apprezzato anche Senza coda, cosicché ero impaziente di tuffarmi in questa nuova storia, che da più parti avevo letto essere il suo romanzo della maturità, e scopro l'altro ieri già finalista al Premio Strega.
Ebbene, sarà sempre perché le aspettative fanno brutti scherzi, ma il romanzo mi ha deluso. E qui provo a spiegare anche perché, tanto più che in giro si leggono diverse critiche molto positive (il che potrebbe anche voler dire che la mia lettura è stata in qualche modo condizionata).
I protagonisti di Fedeltà sono principalmente due, Carlo e Margherita, che sono marito e moglie: il primo è uno scrittore mancato, un professore giunto alla cattedra grazie al padre, e un redattore di guide turistiche per sbarcare il lunario; la seconda è un'architetta che però si è trovata infine a gestire un'agenzia immobiliare. La loro storia funziona e l'intesa ancora dura dopo diversi anni insieme, anche se Missiroli li mette sotto la lente di ingrandimento in un momento in cui entrambi sono inquieti e sentono affiorare un desiderio di apertura a qualcosa di diverso.
Carlo è stato sorpreso nel bagno con una sua studentessa, Sofia, ma i due hanno detto a tutti che si è trattato di un malinteso e che il professore stava solo soccorrendo l'allieva che si era sentita male.
Margherita si sta facendo curare una pubalgia da Andrea e non può fare a meno di sentire il desiderio che le mani del giovane vadano oltre la fisioterapia.
La figura che in qualche modo supervisiona su tutto questo e di cui sia Carlo che Margherita cercano la confidenza è Anna, la mamma di quest'ultima, che ha fatto la sarta per tutta la vita ed è rimasta vedova dopo la morte di suo marito ferroviere. Una donna di un'altra generazione, che anche di fronte al dubbio è in grado di attingere alle proprie risorse emotive e al proprio bagaglio di convincimenti.
Come ha detto qualcuno, Anna è il personaggio più intenso del romanzo di Missiroli, e nella seconda parte del libro, quella che si svolge nove anni dopo, quando Carlo e Margherita si sono trasferiti in una nuova casa e hanno un figlio, Lorenzo, diventa la vera protagonista, il motore immobile del racconto.
E, personalmente, se devo salvare il libro lo salvo principalmente per il personaggio di Anna.
Gli altri personaggi intorno infatti mi sono sembrati decisamente meno convincenti: pochissimo convincenti personaggi in certa misura secondari, come Sofia, che torna a Rimini a lavorare nella ferramenta del padre, e Andrea, che è pericolosamente attirato dai combattimenti dei cani e dai fight club e, dopo alcune relazioni più o meno passeggere o fallimentari, sceglie di vivere la propria omosessualità con Giorgio. Non so se è perché appartengono a una generazione che conosco meno, ma a me sono sembrati poco approfonditi dal punto di vista psicologico e nel complesso poco credibili.
Alla fine anche con Carlo e Margherita ci sono entrata pochissimo in sintonia, e in questo loro perenne senso di precarietà e incertezza, bisogno di altro senza capire bene di cosa, inquietudine e ricerca incessante, non sono riuscita a volergli bene. Intuisco che Missiroli voglia rappresentare attraverso di loro una specifica generazione (i personaggi hanno circa 35 anni nella prima metà del romanzo e 44 nella seconda metà), ma non mi è chiaro se questa generazione non è la mia o se sono io che in qualche modo le sono in parte estranea. A me durante la lettura - più che sentir parlare di una generazione - mi è sembrato di vedere rappresentata una specie di crisi di mezza età il cui esito mi è risultato peraltro consolatorio: sperimentare e cercare spiragli di novità e di libertà per poi ripristinare gli equilibri, come se gli equilibri fossero la normalità e non fosse invece vero esattamente il contrario.
Anche i numerosi riferimenti alla nostra contemporaneità social - soprattutto se sommati a questi per me improbabili richiami ad ambienti marginali come quelli dei fight club e dei combattimenti dei cani - mi sono sembrati più un modo di apparire contemporanei che il prodotto naturale della narrazione.
In generale, e forse è questo l'aspetto che mi ha infastidito e turbato di più, è quella forte sensazione di artificiosità che secondo me - a parte che per il personaggio di Anna - pervade il romanzo, in cui vicende e personaggi appaiono un po' scritti a tavolino.
Ne risente secondo me anche la scrittura di Missiroli, una scrittura che resta di qualità e letterariamente di spessore, ma che - nel tentativo di mantenere fede alla scelta di creare delle transizioni morbide e delle forme di continuità tra i personaggi slittando la narrazione dall'uno all'altro grazie a degli elementi di connessione (un gesto, una parola che si ripetono) - si fa un po' costruita e poco spontanea. Personalmente ho poco gradito anche gli inserti che descrivono amplessi e atti sessuali vissuti o immaginati e che utilizzano un linguaggio esplicito, al limite del volgare; e il punto per me non è certo l'imbarazzo o il moralismo, che su questo fronte non mi appartengono, ma la sostanziale gratuità - a mio modesto parere - di questa scelta.
Poi magari Fedeltà vincerà il Premio Strega e tutti lo elogeranno, mentre io rimarrò la dilettante che non ha capito nulla, ma alla fine non me ne preoccupo. Proprio il fatto di non essere una professionista della critica letteraria mi consente delle libertà e magari anche delle figuracce che altri non potrebbero permettersi.
Voto: 2,5/5
venerdì 15 marzo 2019
Gloria Bell
Pare (o almeno così ho letto!) che Julianne Moore, dopo aver visto il film del 2013 di Sebastián Lelio, Gloria, si sia innamorata del personaggio e abbia chiesto al regista di farne un remake di ambientazione americana e contemporanea.
Ed eccoci qua a partecipare di nuovo alla vita di questa donna di mezza età, divorziata da più di dieci anni, con figli ormai grandi e autonomi e che hanno fatto le loro scelte di vita, che ama ballare e vorrebbe trovare qualcuno con cui condividere questa nuova fase della vita. Una donna che con tutta evidenza ama la vita ed è ancora capace di godere appieno di tutte le occasioni che le si presentano, ma deve fare i conti con l'inevitabile malinconia e la solitudine che a volte si affacciano in una fase dell'esistenza in cui i grandi progetti e obiettivi sono stati realizzati e la quotidianità non è più sovraffollata di impegni. È dunque il momento in cui - se non lo si è fatto prima - bisogna imparare soprattutto a godere dei piccoli piaceri e a star bene con sé stessi prima ancora che con gli altri.
Gloria è naturalmente empatica: ci conquista quando balla in pista, quando canta a squarciagola o a mezza bocca alla guida della sua macchina, quando partecipa ai corsi di yoga e a quelli per liberare la risata, quando chiacchiera con le amiche, quando ancora fa il ruolo di mamma e soprattutto quando non smette di cercare e di essere sé stessa.
L'incontro con Arnold (John Turturro), anche lui separato, le farà ritrovare la bellezza di condividere e le darà l'occasione di poter esprimere i propri desideri, anche sessuali, nient'affatto sopiti, come a volte si tende a pensare quando si parla di quell'età della vita.
Purtroppo Arnold, pur nella sua apparenza di galantuomo, si rivelerà profondamente dipendente dalla sua ex moglie e dalle figlie e incapace - per vigliaccheria o altro - di affrontare le situazioni difficili e di essere sincero con Gloria. E per questo Gloria, dopo avergli concesso un paio di occasioni di riscatto, romperà la relazione e si vendicherà a modo suo.
L'immagine finale di Gloria che al matrimonio della figlia di una sua amica rifiuta un invito a ballare, ma scende poi in pista da sola, godendosi il momento e disinteressandosi del mondo circostante, è una specie di dichiarazione di intenti, nonché la dichiarazione più diretta del fatto che non possiamo far dipendere il nostro benessere da nessun'altro se non da noi stessi.
Ovviamente, come sempre accade nei remake, la tentazione del confronto con il precedente è forte, anche se, nel mio caso, dell'originale di Lelio ricordo la sensazione che mi aveva trasmesso, ma non il dettaglio. È evidente che tra la Paulína Garcia nel contesto sudamericano del primo film e la Julianne Moore nella Los Angeles di oggi c'è una grossa distanza e differenza, ma personalmente sono più incline a vedere la continuità tra le due attraverso la rappresentazione - magari con accenti parzialmente diversi - di una fase della vita di una donna che è trasversale ai luoghi e al tempo.
Un film che resta godibile, credibile e tenero al contempo, anche se per chi ha già visto il primo si perde un po' la sorpresa data dall'originalità della trattazione che Lelio ci propone. Forse un remake che ha poco significato per noi, ma molto per un mercato americano ben più autoreferenziale e dove probabilmente i film stranieri trovano uno spazio ridottissimo. E bisogna rendere merito a Julianne Moore di aver portato agli americani questo personaggio.
Voto: 3,5/5
Ed eccoci qua a partecipare di nuovo alla vita di questa donna di mezza età, divorziata da più di dieci anni, con figli ormai grandi e autonomi e che hanno fatto le loro scelte di vita, che ama ballare e vorrebbe trovare qualcuno con cui condividere questa nuova fase della vita. Una donna che con tutta evidenza ama la vita ed è ancora capace di godere appieno di tutte le occasioni che le si presentano, ma deve fare i conti con l'inevitabile malinconia e la solitudine che a volte si affacciano in una fase dell'esistenza in cui i grandi progetti e obiettivi sono stati realizzati e la quotidianità non è più sovraffollata di impegni. È dunque il momento in cui - se non lo si è fatto prima - bisogna imparare soprattutto a godere dei piccoli piaceri e a star bene con sé stessi prima ancora che con gli altri.
Gloria è naturalmente empatica: ci conquista quando balla in pista, quando canta a squarciagola o a mezza bocca alla guida della sua macchina, quando partecipa ai corsi di yoga e a quelli per liberare la risata, quando chiacchiera con le amiche, quando ancora fa il ruolo di mamma e soprattutto quando non smette di cercare e di essere sé stessa.
L'incontro con Arnold (John Turturro), anche lui separato, le farà ritrovare la bellezza di condividere e le darà l'occasione di poter esprimere i propri desideri, anche sessuali, nient'affatto sopiti, come a volte si tende a pensare quando si parla di quell'età della vita.
Purtroppo Arnold, pur nella sua apparenza di galantuomo, si rivelerà profondamente dipendente dalla sua ex moglie e dalle figlie e incapace - per vigliaccheria o altro - di affrontare le situazioni difficili e di essere sincero con Gloria. E per questo Gloria, dopo avergli concesso un paio di occasioni di riscatto, romperà la relazione e si vendicherà a modo suo.
L'immagine finale di Gloria che al matrimonio della figlia di una sua amica rifiuta un invito a ballare, ma scende poi in pista da sola, godendosi il momento e disinteressandosi del mondo circostante, è una specie di dichiarazione di intenti, nonché la dichiarazione più diretta del fatto che non possiamo far dipendere il nostro benessere da nessun'altro se non da noi stessi.
Ovviamente, come sempre accade nei remake, la tentazione del confronto con il precedente è forte, anche se, nel mio caso, dell'originale di Lelio ricordo la sensazione che mi aveva trasmesso, ma non il dettaglio. È evidente che tra la Paulína Garcia nel contesto sudamericano del primo film e la Julianne Moore nella Los Angeles di oggi c'è una grossa distanza e differenza, ma personalmente sono più incline a vedere la continuità tra le due attraverso la rappresentazione - magari con accenti parzialmente diversi - di una fase della vita di una donna che è trasversale ai luoghi e al tempo.
Un film che resta godibile, credibile e tenero al contempo, anche se per chi ha già visto il primo si perde un po' la sorpresa data dall'originalità della trattazione che Lelio ci propone. Forse un remake che ha poco significato per noi, ma molto per un mercato americano ben più autoreferenziale e dove probabilmente i film stranieri trovano uno spazio ridottissimo. E bisogna rendere merito a Julianne Moore di aver portato agli americani questo personaggio.
Voto: 3,5/5
mercoledì 13 marzo 2019
Kusama Infinity
Nelle mie periodiche ricerche sul Giappone in vista di un futuro viaggio - che spero prima o poi arriverà - mi sono imbattuta tempo fa nelle foto dell'isola di Naoshima, una specie di museo di arte contemporanea a cielo aperto dove, tra le altre cose, troneggia una enorme zucca gialla a pois.
Lì per lì l'opera d'arte mi aveva incuriosita ma nulla più; non credo di aver nemmeno cercato il nome dell'artista o forse l'avevo cercato e poi dimenticato.
Ed ecco che finalmente è arrivata l'occasione non solo per sapere chi c'è dietro la zucca gialla a pois di Naoshima, ma anche per conoscere questa straordinaria artista e la sua incredibile vita.
Stiamo parlando di Kusama Yayoi, l'artista giapponese vivente (sta per compiere 90 anni) nata nel paese di Matsumoto da una famiglia borghese formata da padre, madre e quattro figli. Nell'infanzia di Kusama ci sono le radici dei suoi traumi, ma anche il germe dell'arte, uno strumento ch'ella utilizzò fin da piccola per esprimere il suo malessere e trasformare in immagini le sue allucinazioni.
Dopo i difficili esordi giapponesi e la difficoltà a far accettare la sua arte in un paese molto conservatore, Kusama decise alla fine degli anni '50 di andare negli Stati Uniti, stabilendosi alfine a New York. Qui fece per i primi anni una difficile vita da emigrata, due volte emarginata dal mondo artistico newyorkese, in quanto donna e in quanto giapponese.
Negli anni Sessanta la sua arte cominciò a conquistare gli ambienti intellettuali e spesso divenne ispiratrice per artisti ben più blasonati che non sempre le riconobbero la primogenitura di alcune invenzioni.
All'inizio degli anni Settanta tornò in Giappone. Questo fu per lei un periodo difficile, in particolare a causa del peggiorare della sua salute mentale che la portò anche ad alcuni tentativi di suicidio.
Fu solo negli anni Ottanta che la sua arte fu riscoperta fino alla consacrazione definitiva negli anni Novanta.
Da molti anni ormai Kusama Yayoi vive in un istituto psichiatrico dal quale si allontana per raggiungere tutti i giorni il suo studio dove continua a realizzare un numero incredibile di opere, con quella straordinaria vena e urgenza creativa che l'ha caratterizzata per tutta la vita.
Un personaggio eclettico e dalle mille sfumature, la cui vita riporta alla mente le vicende di molti altri artisti che hanno dovuto fare i conti con la malattia mentale e con la difficoltà a essere riconosciuti dai loro contemporanei.
Per fortuna quella di Kusama Yayoi è in parte una storia a lieto fine, fors'anche grazie alla sua caparbietà e alla sua lunga vita che hanno permesso alla sua arte, precorritrice dei tempi, di giungere fino al momento utile per poter essere riconosciuta.
Il film - seppure un po' didascalico, ma anche utile in questo essere didascalico - ricostruisce la vicenda di questa artista attraverso le sue stesse parole, nonché quelle di numerosi amici, artisti, galleristi, collezionisti, oltre a utilizzare video e foto di archivio.
Da vedere.
Voto: 4/5
Lì per lì l'opera d'arte mi aveva incuriosita ma nulla più; non credo di aver nemmeno cercato il nome dell'artista o forse l'avevo cercato e poi dimenticato.
Ed ecco che finalmente è arrivata l'occasione non solo per sapere chi c'è dietro la zucca gialla a pois di Naoshima, ma anche per conoscere questa straordinaria artista e la sua incredibile vita.
Stiamo parlando di Kusama Yayoi, l'artista giapponese vivente (sta per compiere 90 anni) nata nel paese di Matsumoto da una famiglia borghese formata da padre, madre e quattro figli. Nell'infanzia di Kusama ci sono le radici dei suoi traumi, ma anche il germe dell'arte, uno strumento ch'ella utilizzò fin da piccola per esprimere il suo malessere e trasformare in immagini le sue allucinazioni.
Dopo i difficili esordi giapponesi e la difficoltà a far accettare la sua arte in un paese molto conservatore, Kusama decise alla fine degli anni '50 di andare negli Stati Uniti, stabilendosi alfine a New York. Qui fece per i primi anni una difficile vita da emigrata, due volte emarginata dal mondo artistico newyorkese, in quanto donna e in quanto giapponese.
Negli anni Sessanta la sua arte cominciò a conquistare gli ambienti intellettuali e spesso divenne ispiratrice per artisti ben più blasonati che non sempre le riconobbero la primogenitura di alcune invenzioni.
All'inizio degli anni Settanta tornò in Giappone. Questo fu per lei un periodo difficile, in particolare a causa del peggiorare della sua salute mentale che la portò anche ad alcuni tentativi di suicidio.
Fu solo negli anni Ottanta che la sua arte fu riscoperta fino alla consacrazione definitiva negli anni Novanta.
Da molti anni ormai Kusama Yayoi vive in un istituto psichiatrico dal quale si allontana per raggiungere tutti i giorni il suo studio dove continua a realizzare un numero incredibile di opere, con quella straordinaria vena e urgenza creativa che l'ha caratterizzata per tutta la vita.
Un personaggio eclettico e dalle mille sfumature, la cui vita riporta alla mente le vicende di molti altri artisti che hanno dovuto fare i conti con la malattia mentale e con la difficoltà a essere riconosciuti dai loro contemporanei.
Per fortuna quella di Kusama Yayoi è in parte una storia a lieto fine, fors'anche grazie alla sua caparbietà e alla sua lunga vita che hanno permesso alla sua arte, precorritrice dei tempi, di giungere fino al momento utile per poter essere riconosciuta.
Il film - seppure un po' didascalico, ma anche utile in questo essere didascalico - ricostruisce la vicenda di questa artista attraverso le sue stesse parole, nonché quelle di numerosi amici, artisti, galleristi, collezionisti, oltre a utilizzare video e foto di archivio.
Da vedere.
Voto: 4/5
lunedì 11 marzo 2019
Ognuno ha diritto di amare – Touch me not
È raro che dopo la visione di un film io mi trovi in una situazione per cui non sono in grado di dire se mi è piaciuto oppure l'ho detestato. Ebbene, il film di Adina Pintilie mi ha lasciata esattamente in questo stato d'animo e, a distanza di qualche giorno dalla visione, continuo a non sapere se si tratta di un film interessante nella sua sperimentalità e cerebralità, ovvero - come diceva Fantozzi - di una "una ca**ta pazzesca".
Touch me not (uscito in Italia con un titolo come al solito poco congruente, Ognuno ha diritto di amare) ha vinto l'Orso d'Oro a Berlino nel 2018 ed è stato premiato come migliore opera prima, ma - a dimostrazione del fatto che forse non sono l'unica a essere rimasta perplessa - la vittoria a Berlino ha suscitato numerose e persino aspre polemiche, nonché critiche verso la decisione della giuria guidata da Tom Tykwer.
Il film della rumena Pintilie è un'originale forma di quasi-documentario, nella quale la videocamera e la regista non sono nascosti al di qua dello schermo, bensì sono protagonisti della scena e spesso interagiscono con i personaggi che la regista ha deciso di indagare. Al centro di questa indagine ci sono Laura (Laura Benson) e Tómas (Tómas Lemarquis), una donna di mezza età e un giovane che hanno entrambi problemi nell'interazione fisica con gli altri. Laura vive una vera e propria sofferenza nella vicinanza e nel contatto fisico, mentre Tómas - apparentemente meno problematico - ha dei forti blocchi emotivi che gli impediscono di entrare in relazione in maniera profonda.
La regista li ha seguiti nei loro numerosi e talvolta bizzarri tentativi di affrontare e risolvere una condizione che sembrerebbe essere anche quella della regista, e che forse è il vero motivo che l'ha spinta a portare avanti questo complesso progetto.
Il film si presenta visivamente molto connotato: quasi tutto quello che avviene sullo schermo è affogato in un bianco asettico e quasi accecante (gli ambienti, gli abiti ecc.), mentre la telecamera indaga i corpi in modo iper-ravvicinato, mostrando di questi corpi ogni dettaglio anche minimo. È per questo che alcuni critici hanno parlato di una pornografia dello sguardo che in qualche modo viola i corpi e conferisce una patina morbosa all'esplorazione. Personalmente, ho visto in questa scelta la rappresentazione della condizione della regista e degli stessi protagonisti: da un lato una mancanza di empatia e di partecipazione affettiva, dall'altro una curiosità e un desiderio che però si può manifestare solo con il filtro della macchina da presa.
Intorno ai due personaggi principali, un uomo e una donna apparentemente normalissimi, ma completamente imbrigliati in un blocco psicologico-emotivo dalle conseguenze devastanti, si muovono diversi altri personaggi: di alcuni intuiamo a malapena che sono persone a cui Laura e Tómas sono o sono stati legati affettivamente, altre sono figure cui i due si rivolgono per risolvere i loro problemi. Tómas partecipa a delle sedute di consapevolezza corporea in cui incontra Christian, un giovane uomo con una disabilità grave e il corpo deforme che però sembra aver sciolto i nodi del rapporto con la propria corporeità e sessualità; si incontreranno più avanti in un locale bdsm dove Tómas va per curiosità e per seguire una donna. Laura incontra invece un trans, conosciuto su Internet, che le racconta il rapporto con il proprio corpo e il percorso di accettazione, e poi un uomo che la aiuta ad affrontare gradualmente le sue resistenze.
Nel frattempo la telecamera fa più volte capolino e la Pintilie a sua volta emerge come ulteriore protagonista rivolgendosi a un personaggio al di là dello schermo, forse la madre, cui in qualche modo fa risalire l'origine dei suoi blocchi.
Il tutto procede per oltre due ore con una lentezza e una ripetitività a tratti quasi esasperante; si esce carichi di angoscia e con la sensazione di aver partecipato a una faticosa seduta psicanalitica da cui però forse veniamo fuori più malconci di quando siamo entrati. E questa angoscia ce la si trascina dietro per giorni.
Voto: 2,5/5
Touch me not (uscito in Italia con un titolo come al solito poco congruente, Ognuno ha diritto di amare) ha vinto l'Orso d'Oro a Berlino nel 2018 ed è stato premiato come migliore opera prima, ma - a dimostrazione del fatto che forse non sono l'unica a essere rimasta perplessa - la vittoria a Berlino ha suscitato numerose e persino aspre polemiche, nonché critiche verso la decisione della giuria guidata da Tom Tykwer.
Il film della rumena Pintilie è un'originale forma di quasi-documentario, nella quale la videocamera e la regista non sono nascosti al di qua dello schermo, bensì sono protagonisti della scena e spesso interagiscono con i personaggi che la regista ha deciso di indagare. Al centro di questa indagine ci sono Laura (Laura Benson) e Tómas (Tómas Lemarquis), una donna di mezza età e un giovane che hanno entrambi problemi nell'interazione fisica con gli altri. Laura vive una vera e propria sofferenza nella vicinanza e nel contatto fisico, mentre Tómas - apparentemente meno problematico - ha dei forti blocchi emotivi che gli impediscono di entrare in relazione in maniera profonda.
La regista li ha seguiti nei loro numerosi e talvolta bizzarri tentativi di affrontare e risolvere una condizione che sembrerebbe essere anche quella della regista, e che forse è il vero motivo che l'ha spinta a portare avanti questo complesso progetto.
Il film si presenta visivamente molto connotato: quasi tutto quello che avviene sullo schermo è affogato in un bianco asettico e quasi accecante (gli ambienti, gli abiti ecc.), mentre la telecamera indaga i corpi in modo iper-ravvicinato, mostrando di questi corpi ogni dettaglio anche minimo. È per questo che alcuni critici hanno parlato di una pornografia dello sguardo che in qualche modo viola i corpi e conferisce una patina morbosa all'esplorazione. Personalmente, ho visto in questa scelta la rappresentazione della condizione della regista e degli stessi protagonisti: da un lato una mancanza di empatia e di partecipazione affettiva, dall'altro una curiosità e un desiderio che però si può manifestare solo con il filtro della macchina da presa.
Intorno ai due personaggi principali, un uomo e una donna apparentemente normalissimi, ma completamente imbrigliati in un blocco psicologico-emotivo dalle conseguenze devastanti, si muovono diversi altri personaggi: di alcuni intuiamo a malapena che sono persone a cui Laura e Tómas sono o sono stati legati affettivamente, altre sono figure cui i due si rivolgono per risolvere i loro problemi. Tómas partecipa a delle sedute di consapevolezza corporea in cui incontra Christian, un giovane uomo con una disabilità grave e il corpo deforme che però sembra aver sciolto i nodi del rapporto con la propria corporeità e sessualità; si incontreranno più avanti in un locale bdsm dove Tómas va per curiosità e per seguire una donna. Laura incontra invece un trans, conosciuto su Internet, che le racconta il rapporto con il proprio corpo e il percorso di accettazione, e poi un uomo che la aiuta ad affrontare gradualmente le sue resistenze.
Nel frattempo la telecamera fa più volte capolino e la Pintilie a sua volta emerge come ulteriore protagonista rivolgendosi a un personaggio al di là dello schermo, forse la madre, cui in qualche modo fa risalire l'origine dei suoi blocchi.
Il tutto procede per oltre due ore con una lentezza e una ripetitività a tratti quasi esasperante; si esce carichi di angoscia e con la sensazione di aver partecipato a una faticosa seduta psicanalitica da cui però forse veniamo fuori più malconci di quando siamo entrati. E questa angoscia ce la si trascina dietro per giorni.
Voto: 2,5/5
venerdì 8 marzo 2019
Alice / Momix. Teatro Olimpico, 26 febbraio 2019
Ed è arrivata anche la mia prima volta a uno spettacolo dei Momix. La mia amica C. mi propone di andare al Teatro Olimpico a vedere il loro ultimo lavoro, Alice, ispirato al romanzo di Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, che arriva a Roma in anteprima mondiale.
La scelta non deve stupire perché l'ideatore e coreografo del progetto Momix, Moses Pendleton, è un accademico dell'Accademia filarmonica di Roma e dunque evidentemente ha con la città un rapporto consolidato e speciale.
La mia amica C. li ha già visti più volte, dunque sa cosa l'aspetta, io invece - che tra l'altro non amo particolarmente gli spettacoli di danza - sono veramente colpita dalla creatività e dalla capacità immaginifica che c'è dietro un lavoro di questo genere.
La messa in scena di Alice si articola in una successione di quadri, ciascuno ispirato a un episodio o a un capitolo della storia narrata da Carroll, che prendono vita grazie a un mix unico garantito dalla somma di componenti se vogliamo semplici, ma perfettamente integrate: l'uso delle luci e delle immagini proiettate sul fondale, la scelta delle musiche, l'utilizzo di oggetti comuni (palle, scale ecc.), i costumi e la straordinaria maestria dei bravissimi ballerini.
Negli spettacoli dei Momix non c'è alcun effetto speciale, e anche quelli che sembrano effetti speciali sono in realtà straordinarie invenzioni visive di Moses Pendleton. Nel caso di Alice, io ho trovato particolarmente d'impatto la danza con gli specchi, in cui i ballerini fanno ballare e volare la loro immagine riflessa e si trasformano da uomini in strani esseri che sembrano quasi insetti; e poi quella dei fiori, in cui l'interazione tra i movimenti delle ballerine e i loro abiti cangianti trasforma continuamente l'apparenza di quello che vediamo sul palco. Ma le scene capaci di lasciare a bocca aperta sono numerose e le magie visive si susseguono senza soluzione di continuità, catturando l'attenzione persino dei numerosi bambini e ragazzi presenti in sala.
Anche il registro della messa in scena cambia nel corso dello spettacolo, passando da uno più bucolico e figurativo (penso per esempio all'inizio dello spettacolo) a uno più astratto e techno (penso in particolare ad alcuni momenti della seconda parte).
Dal mio primo incontro con i Momix esco con un'ammirazione infinita per l'inventore di tutto questo, Moses Pendleton, che da ormai 40 anni (ha dato avvio al progetto Momix nei primi anni Ottanta) continua a stupire il pubblico di tutto il mondo con la sola forza della sua incredibile visionarietà e genialità creativa, oltre che ovviamente grazie a corpi di ballo formati da ballerini di altissimo livello.
Applauso. E il voto lo dò non tanto a questo specifico spettacolo ma alla meraviglia del mio incontro con una tale capacità immaginifica (sarà anche perché io ne sono completamente sprovvista :-D )
Voto: 4/5
La scelta non deve stupire perché l'ideatore e coreografo del progetto Momix, Moses Pendleton, è un accademico dell'Accademia filarmonica di Roma e dunque evidentemente ha con la città un rapporto consolidato e speciale.
La mia amica C. li ha già visti più volte, dunque sa cosa l'aspetta, io invece - che tra l'altro non amo particolarmente gli spettacoli di danza - sono veramente colpita dalla creatività e dalla capacità immaginifica che c'è dietro un lavoro di questo genere.
La messa in scena di Alice si articola in una successione di quadri, ciascuno ispirato a un episodio o a un capitolo della storia narrata da Carroll, che prendono vita grazie a un mix unico garantito dalla somma di componenti se vogliamo semplici, ma perfettamente integrate: l'uso delle luci e delle immagini proiettate sul fondale, la scelta delle musiche, l'utilizzo di oggetti comuni (palle, scale ecc.), i costumi e la straordinaria maestria dei bravissimi ballerini.
Negli spettacoli dei Momix non c'è alcun effetto speciale, e anche quelli che sembrano effetti speciali sono in realtà straordinarie invenzioni visive di Moses Pendleton. Nel caso di Alice, io ho trovato particolarmente d'impatto la danza con gli specchi, in cui i ballerini fanno ballare e volare la loro immagine riflessa e si trasformano da uomini in strani esseri che sembrano quasi insetti; e poi quella dei fiori, in cui l'interazione tra i movimenti delle ballerine e i loro abiti cangianti trasforma continuamente l'apparenza di quello che vediamo sul palco. Ma le scene capaci di lasciare a bocca aperta sono numerose e le magie visive si susseguono senza soluzione di continuità, catturando l'attenzione persino dei numerosi bambini e ragazzi presenti in sala.
Anche il registro della messa in scena cambia nel corso dello spettacolo, passando da uno più bucolico e figurativo (penso per esempio all'inizio dello spettacolo) a uno più astratto e techno (penso in particolare ad alcuni momenti della seconda parte).
Dal mio primo incontro con i Momix esco con un'ammirazione infinita per l'inventore di tutto questo, Moses Pendleton, che da ormai 40 anni (ha dato avvio al progetto Momix nei primi anni Ottanta) continua a stupire il pubblico di tutto il mondo con la sola forza della sua incredibile visionarietà e genialità creativa, oltre che ovviamente grazie a corpi di ballo formati da ballerini di altissimo livello.
Applauso. E il voto lo dò non tanto a questo specifico spettacolo ma alla meraviglia del mio incontro con una tale capacità immaginifica (sarà anche perché io ne sono completamente sprovvista :-D )
Voto: 4/5
mercoledì 6 marzo 2019
Copia originale
Il film di Marielle Heller, Copia originale (che sinceramente io avrei mantenuto con il suo titolo inglese Can you ever forgive me?), è tratto dal libro autobiografico di Lee Israel, una scrittrice newyorkese di origine ebrea, famosa prima per aver scritto alcune biografie romanzate, poi per aver realizzato false ma credibilissime lettere di personaggi famosi dell'Ottocento e del Novecento da vendere sul mercato dei collezionisti.
Lee Israel (la grande Melissa McCarthy) è sovrappeso, alcolista, lesbica (ma abbandonata dalla compagna Elaine), depressa, si veste in maniera trasandata e fuori moda e non ha peli sulla lingua. Vive in totale solitudine in un appartamento infestato dalle mosche insieme alla sua amatissima gatta e si ritrova a un certo punto, a causa del suo brutto carattere, senza lavoro e senza un centesimo, abbandonata anche dalla sua agente che le rimprovera di essersi alienata tutti i contatti che le aveva procurato.
Siamo a New York negli anni Novanta.
Quando Lee trova per caso, in un libro consultato alla New York Public Library, alcune lettere di Fanny Bryce, decide di rubarle e venderle ad Anna (Dolly Wells), una libraia di cui conquista la fiducia e poi anche l'amicizia; capisce così che quello delle lettere dei personaggi famosi è un mercato molto ricco e promettente e decide - anche sfruttando la sua conoscenza delle biografie di molti personaggi - di confezionare, con ogni cura e verosimiglianza, delle lettere false, la cui vendita le garantisce una rendita cospicua.
In questo losco affare Lee si fa aiutare a un certo punto da Jack (Richard E. Grant), un omosessuale, anche lui alcolista e malato di solitudine, che vive alla giornata e sbarca il lunario come può. I due diventano compagni di bevute e di affari, fino a che la truffa messa in piedi da Lee non viene scoperta e i due non vengono condannati.
Quella della Heller è una commedia di ambientazione newyorkese che a questo "genere" cinematografico strizza pesantemente l'occhio nella scelta della colonna sonora (dove trovano posto anche Dinah Washington e Chet Baker) e nel modo convenzionale di rappresentare la città (dallo skyline illuminato al Brooklyn Bridge coperto di neve); però dentro questo confezionamento classico da commedia "romantica" la regista mette tutto sottosopra: al centro c'è una coppia che rappresenta il rovesciamento e la negazione di qualunque cliché della coppia romantica e fa cantare Goodnight ladies in un tipico night newyorkese al transessuale Justin Vivian Bond (già visto in un altro film di ambientazione newyorkese, Shortbus).
Anche grazie a questo azzeccatissimo mix, i due protagonisti, che hanno fatto del cinismo e del sarcasmo verso il mondo (fino allo scherzo organizzato e deliberato a danni dei loro "nemici") la loro personale corazza a protezione delle loro fragilità e della profonda tristezza e solitudine che li caratterizza, sprigionano una tenerezza infinita e non si può fare a meno di adorarli.
Un film che non è in alcun modo moralistico, bensì spinge a guardare sempre quello che si nasconde dietro l'apparenza delle persone per comprenderne davvero i comportamenti e i modi di essere.
Voto: 3,5/5
Lee Israel (la grande Melissa McCarthy) è sovrappeso, alcolista, lesbica (ma abbandonata dalla compagna Elaine), depressa, si veste in maniera trasandata e fuori moda e non ha peli sulla lingua. Vive in totale solitudine in un appartamento infestato dalle mosche insieme alla sua amatissima gatta e si ritrova a un certo punto, a causa del suo brutto carattere, senza lavoro e senza un centesimo, abbandonata anche dalla sua agente che le rimprovera di essersi alienata tutti i contatti che le aveva procurato.
Siamo a New York negli anni Novanta.
Quando Lee trova per caso, in un libro consultato alla New York Public Library, alcune lettere di Fanny Bryce, decide di rubarle e venderle ad Anna (Dolly Wells), una libraia di cui conquista la fiducia e poi anche l'amicizia; capisce così che quello delle lettere dei personaggi famosi è un mercato molto ricco e promettente e decide - anche sfruttando la sua conoscenza delle biografie di molti personaggi - di confezionare, con ogni cura e verosimiglianza, delle lettere false, la cui vendita le garantisce una rendita cospicua.
In questo losco affare Lee si fa aiutare a un certo punto da Jack (Richard E. Grant), un omosessuale, anche lui alcolista e malato di solitudine, che vive alla giornata e sbarca il lunario come può. I due diventano compagni di bevute e di affari, fino a che la truffa messa in piedi da Lee non viene scoperta e i due non vengono condannati.
Quella della Heller è una commedia di ambientazione newyorkese che a questo "genere" cinematografico strizza pesantemente l'occhio nella scelta della colonna sonora (dove trovano posto anche Dinah Washington e Chet Baker) e nel modo convenzionale di rappresentare la città (dallo skyline illuminato al Brooklyn Bridge coperto di neve); però dentro questo confezionamento classico da commedia "romantica" la regista mette tutto sottosopra: al centro c'è una coppia che rappresenta il rovesciamento e la negazione di qualunque cliché della coppia romantica e fa cantare Goodnight ladies in un tipico night newyorkese al transessuale Justin Vivian Bond (già visto in un altro film di ambientazione newyorkese, Shortbus).
Anche grazie a questo azzeccatissimo mix, i due protagonisti, che hanno fatto del cinismo e del sarcasmo verso il mondo (fino allo scherzo organizzato e deliberato a danni dei loro "nemici") la loro personale corazza a protezione delle loro fragilità e della profonda tristezza e solitudine che li caratterizza, sprigionano una tenerezza infinita e non si può fare a meno di adorarli.
Un film che non è in alcun modo moralistico, bensì spinge a guardare sempre quello che si nasconde dietro l'apparenza delle persone per comprenderne davvero i comportamenti e i modi di essere.
Voto: 3,5/5
lunedì 4 marzo 2019
La cena delle belve. Teatro Quirino, 24 febbraio 2019
La cena delle belve è un testo teatrale scritto nel 1960 da Vahé Katchà, diventato poi nel 1964 un film per la regia di Christian Jaque. Nel 2001 Julien Sibre se n'è innamorato e, dopo aver ricontattato Katchà, morto poi un paio di anni dopo, ha deciso di rimetterlo in scena.
In Italia il testo francese è stato riadattato da Vincenzo Cerami ed è in questa versione che lo spettacolo arriva in Italia con la regia di Julien Sibre e Virginia Acqua, portato in scena dal Teatro Carcano Centro d'Arte Contemporanea.
La messa in scena si avvale anche della proiezione di video animati in bianco e nero realizzati per la versione francese dello spettacolo, che mostrano quanto accade al di fuori della stanza dove si svolge la vicenda, i cui disegni in bianco e nero, un po' spigolosi e minimalisti, ricordano un po' lo stile di Marjane Satrapi.
La storia è quella di un gruppo di amici che, nella Roma del 1943, si ritrova a casa del libraio Vittorio per festeggiare il compleanno della moglie di questi, Sofia. Quando la cena è quasi terminata si sentono degli spari in strada e i sei si accorgono che qualcuno ha ucciso due ufficiali delle SS. Inizia così il rastrellamento nel palazzo e alla loro porta bussa un comandante delle SS che sta prendendo in ostaggio due persone per ogni appartamento per rappresaglia. Quando entra riconosce Vittorio da cui ha acquistato in passato dei libri antichi e, in nome di questa conoscenza, concede agli occupanti di scegliere loro stessi chi saranno i due ostaggi.
Inizia così un gioco al massacro, una lotta per la sopravvivenza in cui ognuno tira fuori il peggio di sé e accampa le motivazioni più varie per non doversi proporre come ostaggio. Una specie di esperimento sociale che dimostra come l'amicizia e i legami tengono solo fino a quando non viene messa a repentaglio la propria stessa vita.
Lo spettacolo ha un fondo evidentemente drammatico, ma lo stile è ironico e brillante e a più riprese si ride e si sorride, seppure amaramente.
Pur rivelando a tratti la sua età, il testo di Katchà riadattato da Cerami mantiene ancora oggi la sua freschezza e modernità e rivela, anche al di là della contingenza storica che racconta, alcuni tratti della natura umana che sono trasversali rispetto al tempo e allo spazio. Ne viene fuori un ritratto in cui, di fronte al pericolo della morte, egoismo e meschinità hanno la meglio, indipendentemente da carattere, livello culturale, condizione personale.
E in questo senso tutti dobbiamo fare i conti con questa nostra natura e non chiamarci fuori o sentirci superiori nella consapevolezza che, nella concretezza di una situazione di questo genere, non saremmo migliori dei personaggi che vediamo agire sul palco e sui cui volti riconosciamo la paura primordiale che sotterraneamente accompagna tutta la nostra esistenza.
Spettacolo non sfavillante dal mio punto di vista, ma certamente gradevole e apprezzabile, ben interpretato dall'ottimo cast di attori.
Voto: 3/5
In Italia il testo francese è stato riadattato da Vincenzo Cerami ed è in questa versione che lo spettacolo arriva in Italia con la regia di Julien Sibre e Virginia Acqua, portato in scena dal Teatro Carcano Centro d'Arte Contemporanea.
La messa in scena si avvale anche della proiezione di video animati in bianco e nero realizzati per la versione francese dello spettacolo, che mostrano quanto accade al di fuori della stanza dove si svolge la vicenda, i cui disegni in bianco e nero, un po' spigolosi e minimalisti, ricordano un po' lo stile di Marjane Satrapi.
La storia è quella di un gruppo di amici che, nella Roma del 1943, si ritrova a casa del libraio Vittorio per festeggiare il compleanno della moglie di questi, Sofia. Quando la cena è quasi terminata si sentono degli spari in strada e i sei si accorgono che qualcuno ha ucciso due ufficiali delle SS. Inizia così il rastrellamento nel palazzo e alla loro porta bussa un comandante delle SS che sta prendendo in ostaggio due persone per ogni appartamento per rappresaglia. Quando entra riconosce Vittorio da cui ha acquistato in passato dei libri antichi e, in nome di questa conoscenza, concede agli occupanti di scegliere loro stessi chi saranno i due ostaggi.
Inizia così un gioco al massacro, una lotta per la sopravvivenza in cui ognuno tira fuori il peggio di sé e accampa le motivazioni più varie per non doversi proporre come ostaggio. Una specie di esperimento sociale che dimostra come l'amicizia e i legami tengono solo fino a quando non viene messa a repentaglio la propria stessa vita.
Lo spettacolo ha un fondo evidentemente drammatico, ma lo stile è ironico e brillante e a più riprese si ride e si sorride, seppure amaramente.
Pur rivelando a tratti la sua età, il testo di Katchà riadattato da Cerami mantiene ancora oggi la sua freschezza e modernità e rivela, anche al di là della contingenza storica che racconta, alcuni tratti della natura umana che sono trasversali rispetto al tempo e allo spazio. Ne viene fuori un ritratto in cui, di fronte al pericolo della morte, egoismo e meschinità hanno la meglio, indipendentemente da carattere, livello culturale, condizione personale.
E in questo senso tutti dobbiamo fare i conti con questa nostra natura e non chiamarci fuori o sentirci superiori nella consapevolezza che, nella concretezza di una situazione di questo genere, non saremmo migliori dei personaggi che vediamo agire sul palco e sui cui volti riconosciamo la paura primordiale che sotterraneamente accompagna tutta la nostra esistenza.
Spettacolo non sfavillante dal mio punto di vista, ma certamente gradevole e apprezzabile, ben interpretato dall'ottimo cast di attori.
Voto: 3/5
venerdì 1 marzo 2019
La paranza dei bambini
Non ho letto il romanzo di Saviano, né ho nei confronti di quest'ultimo posizioni preconcette a favore o contro, quindi mi limiterò a parlare del film di Claudio Giovannesi per come l'ho recepito secondo la mia sensibilità.
La paranza dei bambini racconta la storia di Nicola (interpretato dalla bella faccia - forse fin troppo pulita - di Francesco Di Napoli), un quindicenne del rione Sanità, che vive con il fratello più piccolo e la madre che gestisce una lavanderia. Nicola passa le giornate insieme a un gruppo di adolescenti come lui che vivono della competizione con i gruppi degli altri quartieri e di piccole bravate, e sognano motorini nuovi e abbigliamento alla moda che non si possono permettere. E a Napoli la scorciatoia per fare soldi è la camorra che non c'è nemmeno bisogno di andare a cercare, perché sta gomito a gomito con la tua vita.
Nicola non è molto diverso dai ragazzi della sua età: è idealista e sognatore, romantico e coraggioso, a tratti ingenuo e vuole qualcosa di meglio per sé, per la sua famiglia, per la ragazza che ama e per i suoi amici. Ma non ha strumenti culturali né esempi alternativi, ed è completamente permeato dei modelli circostanti, tanto da identificare la sua personale idea di giustizia e di buona convivenza civile in un boss ucciso, Tonino Striano, che - come dice lui - non faceva pagare il pizzo ai commercianti ed era benvoluto da tutti. Una volta entrato - insieme ai suoi amici - a servizio del boss locale nello spaccio di droga, Nicola non ha altro obiettivo che riportare il quartiere a quella che lui considera ingenuamente l'età dell'oro e realizzare una forma di impossibile giustizia, senza rendersi pienamente conto del prezzo da pagare.
Approfittando di un vuoto di potere, seguito all'arresto dei boss di zona, Nicola coinvolge i figli di Tonino Striano nel progetto di prendere il controllo del quartiere, anche con l'appoggio di don Vittorio (Renato Carpentieri), un boss agli arresti domiciliari, e in breve tempo - grazie alla sua determinazione e alla sua crescente spregiudicatezza - riesce nell'intento.
Nicola si rende però ben presto conto che questa strada, se da un lato produce soldi e ricchezza e regala momenti di apparente serenità, dall'altro lato non ama né preserva alcun equilibrio, anzi chiama a un'escalation di violenza inarrestabile che si autoalimenta stritolando nel suo ingranaggio tutti coloro che ne fanno parte e mettendo a rischio anche i più deboli. Se dunque è vero che sono i soldi della camorra che permettono a Nicola di rincontrare Letizia (Viviana Aprea), la ragazza di cui si è innamorato al primo sguardo, è la stessa camorra che lo costringe ad allontanarsene e che ne mette addirittura in pericolo la vita.
La perdita dell'innocenza può dirsi compiuta quando Nicola giunge all'omicidio premeditato e nei suoi occhi leggiamo la fine dei sogni ma anche l'inevitabilità della prosecuzione di questo gioco al massacro che ruba l'anima e spessissimo anche la vita.
Claudio Giovannesi, che già aveva dato prova di una particolare sensibilità e capacità nel raccontare gli adolescenti in posizioni di marginalità con i film Alì ha gli occhi azzurri e Fiore, con La paranza dei bambini conferma di saper indagare l'animo tormentato degli adolescenti, di saper guardare il mondo con i loro occhi smarriti e coraggiosi, trasmettendo allo spettatore il messaggio che non esiste crimine peggiore contro l'umanità di quello che distrugge la speranza di un mondo migliore che è proprio del cuore di bambini e ragazzi.
Perché è evidente che gli unici colpevoli di questo abominio sono gli adulti. Opportunisti, rassegnati, silenziosi, vittime o carnefici, in ogni caso compiacenti e dunque colpevoli.
Forse questi adolescenti - come ha detto qualcuno - hanno facce troppo belle e pulite per essere totalmente credibili, ma la mia sensazione è che Giovannesi di questo mondo non abbia voluto raccontare le miserie in presa diretta, bensì i sogni e il loro stravolgimento.
Voto: 3,5/5
La paranza dei bambini racconta la storia di Nicola (interpretato dalla bella faccia - forse fin troppo pulita - di Francesco Di Napoli), un quindicenne del rione Sanità, che vive con il fratello più piccolo e la madre che gestisce una lavanderia. Nicola passa le giornate insieme a un gruppo di adolescenti come lui che vivono della competizione con i gruppi degli altri quartieri e di piccole bravate, e sognano motorini nuovi e abbigliamento alla moda che non si possono permettere. E a Napoli la scorciatoia per fare soldi è la camorra che non c'è nemmeno bisogno di andare a cercare, perché sta gomito a gomito con la tua vita.
Nicola non è molto diverso dai ragazzi della sua età: è idealista e sognatore, romantico e coraggioso, a tratti ingenuo e vuole qualcosa di meglio per sé, per la sua famiglia, per la ragazza che ama e per i suoi amici. Ma non ha strumenti culturali né esempi alternativi, ed è completamente permeato dei modelli circostanti, tanto da identificare la sua personale idea di giustizia e di buona convivenza civile in un boss ucciso, Tonino Striano, che - come dice lui - non faceva pagare il pizzo ai commercianti ed era benvoluto da tutti. Una volta entrato - insieme ai suoi amici - a servizio del boss locale nello spaccio di droga, Nicola non ha altro obiettivo che riportare il quartiere a quella che lui considera ingenuamente l'età dell'oro e realizzare una forma di impossibile giustizia, senza rendersi pienamente conto del prezzo da pagare.
Approfittando di un vuoto di potere, seguito all'arresto dei boss di zona, Nicola coinvolge i figli di Tonino Striano nel progetto di prendere il controllo del quartiere, anche con l'appoggio di don Vittorio (Renato Carpentieri), un boss agli arresti domiciliari, e in breve tempo - grazie alla sua determinazione e alla sua crescente spregiudicatezza - riesce nell'intento.
Nicola si rende però ben presto conto che questa strada, se da un lato produce soldi e ricchezza e regala momenti di apparente serenità, dall'altro lato non ama né preserva alcun equilibrio, anzi chiama a un'escalation di violenza inarrestabile che si autoalimenta stritolando nel suo ingranaggio tutti coloro che ne fanno parte e mettendo a rischio anche i più deboli. Se dunque è vero che sono i soldi della camorra che permettono a Nicola di rincontrare Letizia (Viviana Aprea), la ragazza di cui si è innamorato al primo sguardo, è la stessa camorra che lo costringe ad allontanarsene e che ne mette addirittura in pericolo la vita.
La perdita dell'innocenza può dirsi compiuta quando Nicola giunge all'omicidio premeditato e nei suoi occhi leggiamo la fine dei sogni ma anche l'inevitabilità della prosecuzione di questo gioco al massacro che ruba l'anima e spessissimo anche la vita.
Claudio Giovannesi, che già aveva dato prova di una particolare sensibilità e capacità nel raccontare gli adolescenti in posizioni di marginalità con i film Alì ha gli occhi azzurri e Fiore, con La paranza dei bambini conferma di saper indagare l'animo tormentato degli adolescenti, di saper guardare il mondo con i loro occhi smarriti e coraggiosi, trasmettendo allo spettatore il messaggio che non esiste crimine peggiore contro l'umanità di quello che distrugge la speranza di un mondo migliore che è proprio del cuore di bambini e ragazzi.
Perché è evidente che gli unici colpevoli di questo abominio sono gli adulti. Opportunisti, rassegnati, silenziosi, vittime o carnefici, in ogni caso compiacenti e dunque colpevoli.
Forse questi adolescenti - come ha detto qualcuno - hanno facce troppo belle e pulite per essere totalmente credibili, ma la mia sensazione è che Giovannesi di questo mondo non abbia voluto raccontare le miserie in presa diretta, bensì i sogni e il loro stravolgimento.
Voto: 3,5/5