È raro che dopo la visione di un film io mi trovi in una situazione per cui non sono in grado di dire se mi è piaciuto oppure l'ho detestato. Ebbene, il film di Adina Pintilie mi ha lasciata esattamente in questo stato d'animo e, a distanza di qualche giorno dalla visione, continuo a non sapere se si tratta di un film interessante nella sua sperimentalità e cerebralità, ovvero - come diceva Fantozzi - di una "una ca**ta pazzesca".
Touch me not (uscito in Italia con un titolo come al solito poco congruente, Ognuno ha diritto di amare) ha vinto l'Orso d'Oro a Berlino nel 2018 ed è stato premiato come migliore opera prima, ma - a dimostrazione del fatto che forse non sono l'unica a essere rimasta perplessa - la vittoria a Berlino ha suscitato numerose e persino aspre polemiche, nonché critiche verso la decisione della giuria guidata da Tom Tykwer.
Il film della rumena Pintilie è un'originale forma di quasi-documentario, nella quale la videocamera e la regista non sono nascosti al di qua dello schermo, bensì sono protagonisti della scena e spesso interagiscono con i personaggi che la regista ha deciso di indagare. Al centro di questa indagine ci sono Laura (Laura Benson) e Tómas (Tómas Lemarquis), una donna di mezza età e un giovane che hanno entrambi problemi nell'interazione fisica con gli altri. Laura vive una vera e propria sofferenza nella vicinanza e nel contatto fisico, mentre Tómas - apparentemente meno problematico - ha dei forti blocchi emotivi che gli impediscono di entrare in relazione in maniera profonda.
La regista li ha seguiti nei loro numerosi e talvolta bizzarri tentativi di affrontare e risolvere una condizione che sembrerebbe essere anche quella della regista, e che forse è il vero motivo che l'ha spinta a portare avanti questo complesso progetto.
Il film si presenta visivamente molto connotato: quasi tutto quello che avviene sullo schermo è affogato in un bianco asettico e quasi accecante (gli ambienti, gli abiti ecc.), mentre la telecamera indaga i corpi in modo iper-ravvicinato, mostrando di questi corpi ogni dettaglio anche minimo. È per questo che alcuni critici hanno parlato di una pornografia dello sguardo che in qualche modo viola i corpi e conferisce una patina morbosa all'esplorazione. Personalmente, ho visto in questa scelta la rappresentazione della condizione della regista e degli stessi protagonisti: da un lato una mancanza di empatia e di partecipazione affettiva, dall'altro una curiosità e un desiderio che però si può manifestare solo con il filtro della macchina da presa.
Intorno ai due personaggi principali, un uomo e una donna apparentemente normalissimi, ma completamente imbrigliati in un blocco psicologico-emotivo dalle conseguenze devastanti, si muovono diversi altri personaggi: di alcuni intuiamo a malapena che sono persone a cui Laura e Tómas sono o sono stati legati affettivamente, altre sono figure cui i due si rivolgono per risolvere i loro problemi. Tómas partecipa a delle sedute di consapevolezza corporea in cui incontra Christian, un giovane uomo con una disabilità grave e il corpo deforme che però sembra aver sciolto i nodi del rapporto con la propria corporeità e sessualità; si incontreranno più avanti in un locale bdsm dove Tómas va per curiosità e per seguire una donna. Laura incontra invece un trans, conosciuto su Internet, che le racconta il rapporto con il proprio corpo e il percorso di accettazione, e poi un uomo che la aiuta ad affrontare gradualmente le sue resistenze.
Nel frattempo la telecamera fa più volte capolino e la Pintilie a sua volta emerge come ulteriore protagonista rivolgendosi a un personaggio al di là dello schermo, forse la madre, cui in qualche modo fa risalire l'origine dei suoi blocchi.
Il tutto procede per oltre due ore con una lentezza e una ripetitività a tratti quasi esasperante; si esce carichi di angoscia e con la sensazione di aver partecipato a una faticosa seduta psicanalitica da cui però forse veniamo fuori più malconci di quando siamo entrati. E questa angoscia ce la si trascina dietro per giorni.
Voto: 2,5/5
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