A me e F. negli ultimi anni, anche grazie all'assidua frequentazione dei teatri, è venuta una vera e propria passione per il teatro napoletano degli anni Ottanta, un periodo che - da quanto abbiamo visto e potuto capire leggendone - è stato ricco di testi, autori e invenzioni, e che ancora oggi a distanza di quarant'anni continua a risultare vivo e potente.
In questo nostro filone di riscoperta decidiamo di andare a vedere Regina madre, un testo teatrale di Manlio Santanelli, autore napoletano ancora vivente, portato in scena con la regia di Carlo Cerciello e interpretato dai bravissimi Fausto Russo Alesi e Imma Villa.
Sul palco un enorme letto; da un lato un Pinocchio, dall'altro la Fata Turchina, sotto decine e decine di bicchieri da una parte e una torta con cinque candeline dall'altra.
Sul lettone due personaggi, una madre anziana e un figlio che è arrivato per fermarsi da lei per un po' su suggerimento del dottore. Tra i due inizia una schermaglia che prende rapidamente toni quasi comici: la madre, il cui nome è appunto Regina, non è capace della minima empatia con il figlio (e la figlia evocata solo nei discorsi) cui viene rinfacciato tutto, dalle scelte personali alla scarsa attenzione verso la madre, dai fallimenti lavorativi ai comportamenti quotidiani, mentre si staglia su tutto la figura perfetta del padre morto molti anni prima. In questa prima parte dello spettacolo si ride, seppure amaramente, complice anche la recitazione in napoletano di Imma Villa nei panni della madre.
A un certo punto, però, arriva un momento di confessione dolorosa tra madre e figlio, e da questo momento nello spettacolo si innesca un cambio di registro, mentre sul lettone su cui i due sono seduti vengono montate - dagli stessi protagonisti - due spalliera (dalla parte della testa e dei piedi).
Inizia da qui un viaggio allucinato nella mente, in cui il figlio diventa la madre e interloquisce con la figlia, la stessa Imma Villa che prima interpretava la madre. Da qui in poi i ruoli si scambiano più volte e la madre rivive nei corpi e nella testa dei due figli. Un cappello a tesa larga costituisce lo strumento scenico che - come un testimone - passando da un attore all'altro, segna anche la consegna dello "spirito" della madre, fino a quando persino questo scambio di ruoli si fa ambiguo. Il registro intanto oscilla pericolosamente tra il drammatico e il grottesco, in una escalation emotiva che si fa sempre più disturbante anche per lo spettatore e che si tramuta in una vera e propria regressione all'infanzia, che potrà dirsi compiuta quando il lettone sul palco viene completato con una sponda che lo trasforma in lettino per bambini.
Attraverso gli occhi allucinati di Fausto Russo Alesi passa il personaggio di un figlio adulto che non si è mai affrancato completamente dalla madre e che in fondo ha bisogno di quest'ultima come capro espiatorio delle proprie mostruosità e dei propri fallimenti, della propria dipendenza dai farmaci e della propria depressione, così come - dall'altro lato - la figlia emerge con la sua debolezza composta, fatta di vuoti interiori e di non meno inquietanti squilibri. Il tutto fino allo svelamento della grande menzogna che la madre ha portato avanti dopo la morte del padre, ossia quella di un matrimonio perfetto con un uomo eccezionale.
Ma il testo di Santanelli, che - come scrivono critici certo più titolati di me - attinge alla lezione del teatro dell'assurdo e ricorda a tratti Ionesco (che non a caso al debutto lo definì éxtraordinaire), non sceglie la strada più semplice e lineare, bensì quella più ambigua, scomoda e complessa. In questo spettacolo non ci sono carnefici e vittime, non ci sono buoni e cattivi, e viene smontata dalla base la facile lettura di una madre anaffettiva responsabile dei traumi e dei problemi dei figli, per lasciare spazio invece a una lettura in cui ognuno è chiamato alle proprie responsabilità individuali rispetto alla propria vita e alle proprie scelte e, al contempo, tutti sono oggetto di compassione di fronte alle sfide della vita.
Voto: 3,5/5
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