Joaquin Phoenix in quella che, a suo dire, è la sua ultima prova da attore prima di dedicarsi esclusivamente alla musica.
L'attore americano, in Two lovers, mette la sua dirompente fisicità di nuovo (dopo il film dell'anno scorso I padroni della notte) al servizio di un regista poco conosciuto, il quarantenne newyorkese James Gray, che si sta ritagliando uno spazio di rispetto nel cinema americano indipendente.
Ambientato nel sobborgo newyorkese di Brighton Beach (con brevi incursioni a Manhattan), il film racconta la storia di Leonard, un ragazzo che, dopo essere stato lasciato dalla donna con la quale stava per sposarsi, è tornato a vivere con i suoi genitori psicologicamente distrutto.
Tra un malriuscito tentativo di suicidio e la grigia quotidianità del lavoro presso la lavanderia del padre, conosce due donne, la bruna Sandra (Vinessa Shaw), figlia di partner in affari di suo padre, e la bionda Michelle (Gwyneth Paltrow), sentimentalmente confusa da una storia con un uomo sposato.
E il tema del film è proprio questo, la confusione dei sentimenti e l'incapacità di farci i conti.
Leonard, benissimo interpretato da Phoenix, è un personaggio tragico e triste al contempo, stretto tra l'affetto un po' soffocante dei genitori, il ricordo di un dolore insanabile, il desiderio di amare ed essere amato e la necessità di sentirsi vivo.
Leonard è sinceramente amato da Sandra, che per lui rappresenta la via semplice che non richiede scelte radicali e di rottura, ma in realtà ama Michelle, instabile, problematica, dipendente, incapace di amarlo davvero.
Anche l'ambientazione del film, che si muove tra la squallida e un po' triste umanità di Brooklyn, e il trionfo di luci e vitalità di Manhattan, trasmette l'idea di uno sdoppiamento che non trova soluzione.
È quella giostra dei sentimenti in cui ci inseguiamo senza trovarci mai, in cui forse inseguiamo una inevitabile e autocompiaciuta solitudine.
Ci incontriamo e ci cerchiamo probabilmente per cercare solo noi stessi in una rincorsa infinita destinata a rimanere inappagata e a reiterare una frustrazione del desiderio, interrotta solo da brevi momenti di presunta felicità.
Scegliamo alla fine spesso la strada meno faticosa o più a portata di mano, ma che ci corrisponde di meno, perché non abbiamo forza a sufficienza per trovare quella terza via che sta in mezzo tra l'infinita ricerca e la triste rinuncia.
Sarà perché solo l'altro ieri avevo visto Ponyo, ma fatalmente ne ho riconosciuto una "assurda" forma di continuità. Esiste una possibilità di composizione tra il nostro io infantile e ingenuo e quello adulto e razionale, che ci permetta realmente di entrare in contatto con noi stessi? O siamo destinati come genere umano a una continua altalena di sentimenti, ad un'oscillazione schizofrenica tra dominanti opposte e inconciliabili?
Io dentro di me so esattamente quale vorrei fosse la risposta. Ma preferisco non esplicitarla per non toglierle forza.
Voto: 3,5/5
lunedì 30 marzo 2009
domenica 29 marzo 2009
Ponyo sulla scogliera
Ponyo sulla scogliera, il nuovo film di Hayao Miyazaki, il maestro giapponese già autore de La città incantata e de Il castello errante di Howl, è puro godimento visivo, sonoro, emotivo e intellettivo.
Come spesso accade per i film di Miyazaki, si tratta di un cartone tradizionale in cui i disegni sono ancora fatti a mano e del tutto bidimensionali. In questo caso c’è anche una insistita scelta dei colori pastello che dà all’insieme un tono ancora più fiabesco.
Rispetto ai due precedenti film, questo ha forse una struttura narrativa più chiara e meno alogica, anch’essa al servizio del tentativo di conferire alla storia un forte connotato favolistico.
E non c’è dubbio che un primo livello di lettura, quello che più si rivolge al pubblico dei bambini e all’auspicato spirito infantile che da qualche parte alberga in ciascuno di noi, è proprio il piano della fiaba classica che coniuga cultura occidentale e orientale (arricchita dalle invenzioni e dallo straordinario potere immaginifico di Miyazaki).
Oltre questo piano, che forse già basterebbe a farne un film di un livello superiore alla maggior parte di quelli in circolazione, tornano programmaticamente alcuni temi cari al regista: il rapporto difficile tra l’uomo e la natura, la forte sintonia e affinità tra bambini e anziani, l’amicizia come valore assoluto.
Mi pare che - in più rispetto ai precedenti – in questo film faccia capolino una riflessione molto umanistica sul rapporto tra il nostro essere ingenuo e primitivo e il nostro essere evoluto e tecnologico e sulle possibilità che questi due aspetti dell’umanità e di ciascuno di noi possano trovare composizione.
Mi ha inoltre colpito la scelta di Miyazaki, convinto ecologista e comunicatore - attraverso i suoi film - del grido di dolore della natura, di scegliere come protagonista una pesciolina che vuole diventare una bambina e che incontra la positività dell’essere umano in un bambino, Sosuke, con cui Ponyo fa amicizia. Forse la speranza del mondo è che l’umanità ricominci a guardarlo con gli occhi ingenui e al contempo evoluti dei bambini.
È come se Miyazaki volesse dirci: l’umanità non è perfetta e i disastri che ha prodotto sono sotto gli occhi di tutti; però, è comunque mille volte meglio che vivere in una bolla protetta e in un mondo apparentemente perfetto. Come Ponyo, bisogna buttarsi nella mischia e accettare di perdere qualcosa (in questo caso i poteri magici) per conquistare altro, ossia la bellezza e anche la durezza dei sentimenti e del coinvolgimento nelle cose.
Lasciatemi fare infine un’ultima annotazione: Ponyo è un personaggio di una simpatia e tenerezza con cui forse solo Wall-e può competere. Le scene di questa bimba sui generis che cade improvvisamente addormentata, che si avvolge nell’asciugamano come nell’abbraccio di una persona, che stringe forte e senza freni il suo amichetto Sosuke, che corre sulle onde per inseguire quella che vuole sia la sua vita, sono capaci di strappare sorrisi ed emozioni come nessun personaggio in carne e ossa.
Lasciatemi sognare per un momento di assomigliare un po’ a Ponyo in questa sua essenzialità e istintiva primitività che a volte mi riconosco sotto quell’armatura sociale e culturale che tutti noi giorno dopo giorno ci siamo costruiti addosso.
Voto: 4,5/5
Come spesso accade per i film di Miyazaki, si tratta di un cartone tradizionale in cui i disegni sono ancora fatti a mano e del tutto bidimensionali. In questo caso c’è anche una insistita scelta dei colori pastello che dà all’insieme un tono ancora più fiabesco.
Rispetto ai due precedenti film, questo ha forse una struttura narrativa più chiara e meno alogica, anch’essa al servizio del tentativo di conferire alla storia un forte connotato favolistico.
E non c’è dubbio che un primo livello di lettura, quello che più si rivolge al pubblico dei bambini e all’auspicato spirito infantile che da qualche parte alberga in ciascuno di noi, è proprio il piano della fiaba classica che coniuga cultura occidentale e orientale (arricchita dalle invenzioni e dallo straordinario potere immaginifico di Miyazaki).
Oltre questo piano, che forse già basterebbe a farne un film di un livello superiore alla maggior parte di quelli in circolazione, tornano programmaticamente alcuni temi cari al regista: il rapporto difficile tra l’uomo e la natura, la forte sintonia e affinità tra bambini e anziani, l’amicizia come valore assoluto.
Mi pare che - in più rispetto ai precedenti – in questo film faccia capolino una riflessione molto umanistica sul rapporto tra il nostro essere ingenuo e primitivo e il nostro essere evoluto e tecnologico e sulle possibilità che questi due aspetti dell’umanità e di ciascuno di noi possano trovare composizione.
Mi ha inoltre colpito la scelta di Miyazaki, convinto ecologista e comunicatore - attraverso i suoi film - del grido di dolore della natura, di scegliere come protagonista una pesciolina che vuole diventare una bambina e che incontra la positività dell’essere umano in un bambino, Sosuke, con cui Ponyo fa amicizia. Forse la speranza del mondo è che l’umanità ricominci a guardarlo con gli occhi ingenui e al contempo evoluti dei bambini.
È come se Miyazaki volesse dirci: l’umanità non è perfetta e i disastri che ha prodotto sono sotto gli occhi di tutti; però, è comunque mille volte meglio che vivere in una bolla protetta e in un mondo apparentemente perfetto. Come Ponyo, bisogna buttarsi nella mischia e accettare di perdere qualcosa (in questo caso i poteri magici) per conquistare altro, ossia la bellezza e anche la durezza dei sentimenti e del coinvolgimento nelle cose.
Lasciatemi fare infine un’ultima annotazione: Ponyo è un personaggio di una simpatia e tenerezza con cui forse solo Wall-e può competere. Le scene di questa bimba sui generis che cade improvvisamente addormentata, che si avvolge nell’asciugamano come nell’abbraccio di una persona, che stringe forte e senza freni il suo amichetto Sosuke, che corre sulle onde per inseguire quella che vuole sia la sua vita, sono capaci di strappare sorrisi ed emozioni come nessun personaggio in carne e ossa.
Lasciatemi sognare per un momento di assomigliare un po’ a Ponyo in questa sua essenzialità e istintiva primitività che a volte mi riconosco sotto quell’armatura sociale e culturale che tutti noi giorno dopo giorno ci siamo costruiti addosso.
Voto: 4,5/5
giovedì 26 marzo 2009
Palemmo!!!
Ancora una volta torno da un breve viaggio con tante foto al seguito e tante altre negli occhi...
La meta questa volta è Palermo, città affascinante con le sue vestigia arabe, normanne, barocche e quant'altro. Città meridionale e siciliana fin nel midollo, luogo di contraddizioni, di disparità, di convergenza e di fusione.
Ci accoglie una casa irreale, bellissima quanto decontestualizzata in un centro storico che, nonostante i recuperi, a tratti sembra ancora una baraccopoli.
Si respira un'aria di indolenza; le parole spesso viaggiano su più livelli di significato e tutto questo mi fa cadere a volte in un buco nero già visto, già vissuto, metabolizzato e superato. Ma alla fine mi attira e mi piace, e quasi mi sento a casa, nonostante la pioggia battente e il freddo che fa...
Certo, la ricotta calda fa la sua parte, la pasta con le sarde aiuta, le panelle appena fritte mi mettono allegria.
È un fine settimana particolare per me, di passaggio, di transizione, di scoperta e di riscoperta, di distacco e di avvicinamento e questa città riflette i miei sentimenti confusi e contraddittori.
Per fortuna c'è sempre la splendida rete di salvataggio che i miei amici rappresentano per me; e così tra una risata, uno sguardo di intesa, una presa in giro e una chiacchiera apparentemente priva di senso tutto si compone in una felice serenità che illumina anche i momenti un po' più malinconici.
La meta questa volta è Palermo, città affascinante con le sue vestigia arabe, normanne, barocche e quant'altro. Città meridionale e siciliana fin nel midollo, luogo di contraddizioni, di disparità, di convergenza e di fusione.
Ci accoglie una casa irreale, bellissima quanto decontestualizzata in un centro storico che, nonostante i recuperi, a tratti sembra ancora una baraccopoli.
Si respira un'aria di indolenza; le parole spesso viaggiano su più livelli di significato e tutto questo mi fa cadere a volte in un buco nero già visto, già vissuto, metabolizzato e superato. Ma alla fine mi attira e mi piace, e quasi mi sento a casa, nonostante la pioggia battente e il freddo che fa...
Certo, la ricotta calda fa la sua parte, la pasta con le sarde aiuta, le panelle appena fritte mi mettono allegria.
È un fine settimana particolare per me, di passaggio, di transizione, di scoperta e di riscoperta, di distacco e di avvicinamento e questa città riflette i miei sentimenti confusi e contraddittori.
Per fortuna c'è sempre la splendida rete di salvataggio che i miei amici rappresentano per me; e così tra una risata, uno sguardo di intesa, una presa in giro e una chiacchiera apparentemente priva di senso tutto si compone in una felice serenità che illumina anche i momenti un po' più malinconici.
FUORI TEMA 2: Gatti e porte aperte, ovvero l’inquietudine della libertà
Non ho mai avuto un gatto, anzi ad essere proprio sincera non li ho mai molto amati… Mi sono sempre sembrati sfuggenti e opportunisti. E durante la mia infanzia mi è successo che un gatto cui avevo ceduto parte della mia agognata merenda mi ha graffiata sul volto quando la merenda è finita.
Ho avuto invece per un certo periodo un bel bastardino di cane, somigliante a un Labrador retriever, che mi ha sempre trasmesso un grande senso di fedeltà e affetto.
Negli ultimi anni però mi sono ritrovata a riflettere su una caratteristica dei gatti che a poco a poco ho riconosciuto sempre più come mia, e la mia prospettiva di interpretazione è cambiata.
I gatti sono animali che semplicemente concepiscono il rapporto con le persone cui sono legate e che amano in maniera meno dipendente e "servile" dei cani.
Non a caso un gatto ha bisogno di una porta o una finestra semiaperta che potenzialmente gli dia sempre la possibilità di uscire o allontanarsi, senza dipendere dal padrone.
Questa idea della porta socchiusa mi affascina, perché la sento molto mia: mi accorgo di quanto nella mia vita faccia la differenza la possibilità - anche solo teorica - di avere una via di fuga, un’alternativa, una possibilità ulteriore che non sia solo quella di stare a casa a fare le fusa.
La possibilità di andare dà valore alla scelta di stare.
Lo stare non è più un obbligo, un’imposizione, ma diventa una scelta che di volta in volta facciamo consapevolmente.
E anche uscire attraverso quella porta che rimane socchiusa non è doloroso perché contiene la possibilità di tornare, trovare una porta aperta e sentirsi ancora a casa.
Forse i gatti sono essere inquieti come me, desiderosi di fare esperienze del mondo, di incontrare, di conoscere ciò che li circonda, ma amano sapere che c’è sempre un angolo del sofà che gli appartiene e qualcuno per cui fare le fusa.
Comincio a capire quale possa essere il sogno di ogni gatto, e forse anche il mio: trovare nel proprio mondo abituale e nella propria quotidianità le risposte all'inquietudine, conoscere e fare esperienza dell’alterità in un viaggio tutto interiore il cui esito sia una conoscenza non superficiale di sé e del mondo.
Sentirsi liberi senza avere bisogno di muoversi, avere una porta aperta nel proprio cuore oltre che fuori di sé.
E così uscire non è più una fuga per necessità, ma un’opportunità che la vita ci offre a prescindere dalle situazioni materiali.
La libertà non dipende da chi ci sta intorno e dalle condizioni fisiche nelle quali viviamo, bensì è una condizione interiore che siamo in grado di imporre con la sua stessa forza al mondo circostante.
Essere liberi significa poter sempre scegliere e volerlo fare in sintonia con il proprio sentire.
Ho avuto invece per un certo periodo un bel bastardino di cane, somigliante a un Labrador retriever, che mi ha sempre trasmesso un grande senso di fedeltà e affetto.
Negli ultimi anni però mi sono ritrovata a riflettere su una caratteristica dei gatti che a poco a poco ho riconosciuto sempre più come mia, e la mia prospettiva di interpretazione è cambiata.
I gatti sono animali che semplicemente concepiscono il rapporto con le persone cui sono legate e che amano in maniera meno dipendente e "servile" dei cani.
Non a caso un gatto ha bisogno di una porta o una finestra semiaperta che potenzialmente gli dia sempre la possibilità di uscire o allontanarsi, senza dipendere dal padrone.
Questa idea della porta socchiusa mi affascina, perché la sento molto mia: mi accorgo di quanto nella mia vita faccia la differenza la possibilità - anche solo teorica - di avere una via di fuga, un’alternativa, una possibilità ulteriore che non sia solo quella di stare a casa a fare le fusa.
La possibilità di andare dà valore alla scelta di stare.
Lo stare non è più un obbligo, un’imposizione, ma diventa una scelta che di volta in volta facciamo consapevolmente.
E anche uscire attraverso quella porta che rimane socchiusa non è doloroso perché contiene la possibilità di tornare, trovare una porta aperta e sentirsi ancora a casa.
Forse i gatti sono essere inquieti come me, desiderosi di fare esperienze del mondo, di incontrare, di conoscere ciò che li circonda, ma amano sapere che c’è sempre un angolo del sofà che gli appartiene e qualcuno per cui fare le fusa.
Comincio a capire quale possa essere il sogno di ogni gatto, e forse anche il mio: trovare nel proprio mondo abituale e nella propria quotidianità le risposte all'inquietudine, conoscere e fare esperienza dell’alterità in un viaggio tutto interiore il cui esito sia una conoscenza non superficiale di sé e del mondo.
Sentirsi liberi senza avere bisogno di muoversi, avere una porta aperta nel proprio cuore oltre che fuori di sé.
E così uscire non è più una fuga per necessità, ma un’opportunità che la vita ci offre a prescindere dalle situazioni materiali.
La libertà non dipende da chi ci sta intorno e dalle condizioni fisiche nelle quali viviamo, bensì è una condizione interiore che siamo in grado di imporre con la sua stessa forza al mondo circostante.
Essere liberi significa poter sempre scegliere e volerlo fare in sintonia con il proprio sentire.
lunedì 16 marzo 2009
Bernd & Hilla Becher: mostra fotografica
Al Museo Morandi di Bologna, in piazza Maggiore, è attualmente in corso una mostra fotografica dedicata alla coppia di fotografi tedeschi Bernd e Hilla Becher, collocata in un paio di sale del Museo a fianco della mostra antologica su Morandi.
La mostra è organizzata dal MAMbo, il Museo di Arte Moderna di Bologna.
I due artisti, a partire dalla fine degli anni '50, hanno cominciato prima in Germania, poi anche in altri paesi europei (Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Francia ecc.) nonché negli Stati Uniti, a fotografare architetture industriali: serbatoi, gasometri, torri di estrazione ecc.
La mostra organizza le foto per tipologia di manufatto fotografato, indipendentemente dal periodo e dal luogo in cui è stato fotografato, creando pareti seriali a tema di grande fascino.
L'impatto visivo è davvero rilevante, perché lo stile dei due fotografi è volutamente sistematico e ripetitivo:
- immagini in bianco e nero;
- fotografie frontali e architettura che campeggia nello spazio fotografico;
- assenza di figure umane;
- assenza di riferimenti spazio-temporali;
- grande attenzione alla composizione geometrica in cui prevalgono forme triangolari.
I curatori della mostra suggeriscono delle possibili analogie con la produzione di Morandi, di cui nelle sale attigue si propone un'antologia di opere pittoriche.
Per gusto personale, dirò che lì dove in Morandi e nella pittura trovo una ripetitività noiosa, la serialità fotografica dei due artisti tedeschi mi cattura e mi emoziona, perché la singola fotografia appare una parte di una composizione che nel suo complesso diviene quasi pittorica.
Insomma, mi è proprio venuta la voglia di andare a fotografare la zona del gazometro...
Voto: 4/5
La mostra è organizzata dal MAMbo, il Museo di Arte Moderna di Bologna.
I due artisti, a partire dalla fine degli anni '50, hanno cominciato prima in Germania, poi anche in altri paesi europei (Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Francia ecc.) nonché negli Stati Uniti, a fotografare architetture industriali: serbatoi, gasometri, torri di estrazione ecc.
La mostra organizza le foto per tipologia di manufatto fotografato, indipendentemente dal periodo e dal luogo in cui è stato fotografato, creando pareti seriali a tema di grande fascino.
L'impatto visivo è davvero rilevante, perché lo stile dei due fotografi è volutamente sistematico e ripetitivo:
- immagini in bianco e nero;
- fotografie frontali e architettura che campeggia nello spazio fotografico;
- assenza di figure umane;
- assenza di riferimenti spazio-temporali;
- grande attenzione alla composizione geometrica in cui prevalgono forme triangolari.
I curatori della mostra suggeriscono delle possibili analogie con la produzione di Morandi, di cui nelle sale attigue si propone un'antologia di opere pittoriche.
Per gusto personale, dirò che lì dove in Morandi e nella pittura trovo una ripetitività noiosa, la serialità fotografica dei due artisti tedeschi mi cattura e mi emoziona, perché la singola fotografia appare una parte di una composizione che nel suo complesso diviene quasi pittorica.
Insomma, mi è proprio venuta la voglia di andare a fotografare la zona del gazometro...
Voto: 4/5
mercoledì 11 marzo 2009
Biblioteche per la città (2009)
Ed eccomi qua per una volta a parlare di qualcosa di cui ho scritto io e non qualcun altro (e devo dire non c'è cosa più difficile al mondo! perché forse a questo punto riscriverei tutto in un altro modo!).
Esce in questi giorni per i tipi di Carocci editore (trovate sul sito, nella pagina delle novità, scheda e indici) il mio volume dal titolo:
Biblioteche per la città. Nuove prospettive di un servizio pubblico (2009).
Si tratta di una riflessione sulla biblioteca pubblica e sui suoi rapporti con i modi e gli stili di vita urbani. È mia convinzione che se un futuro esiste per le biblioteche esso è legato a una spietata analisi del mutato contesto sociale di riferimento e a un suo riallineamento con il mondo dell'edutainment e con i processi che la rete ha innescato sul fronte dei consumi culturali.
Le biblioteche non possono pensare di sopravvivere in un mondo che cambia profondamente solo grazie alla lunga tradizione che hanno alle spalle né perché sono considerate cosa buona e giusta.
Ne abbiamo già visti troppi di tramonti inaspettati e di conclusioni di ere che non avremmo mai pensato destinate alla fine.
In un mondo estremamente competitivo qual è quello nel quale viviamo, dobbiamo decidere se le biblioteche appartengono esclusivamente al tempo obbligato e/o vincolato (come andare a pagare una bolletta o andare a scuola) oppure al tempo libero.
Se decidiamo di collocare le biblioteche esclusivamente in uno spazio obbligato e/o vincolato, come è apparentemente più scontato nel caso di biblioteche strettamente connesse alle necessità scolastiche o a specifiche esigenze di lavoro, per esse si prospetta un futuro di nicchia, le cui dimensioni potrebbero assottigliarsi sempre di più nel corso del tempo.
Infatti, una biblioteca concepita come mera funzione dello studio e del lavoro potrà essere fisicamente eliminata non appena la rete ingloberà una quantità sufficientemente elevata di contenuti informativi di qualità da rendere non necessaria la visita alla biblioteca e forse anche al suo catalogo.
Una biblioteca che invada l'area del tempo libero deve invece sforzarsi di acquisire uno spazio di significato nella vita delle persone, sfruttare i processi di convergenza e di massificazione della cultura, e imparare a competere per la conquista del tempo e dell'interesse delle persone (ogni tanto penso al rapporto tra cinema e televisione quando devo spiegare come vedo il rapporto tra biblioteche e informazione sul Web!).
Questa riflessione sui modelli socio-urbanistici si incrocia con l'analisi di un certo numero di nuove biblioteche del mondo occidentale, da me visitate personalmente: la Seattle Public Library; la Vancouver Public Library; la Bibliothèque de l'Université Paris 8; la Stadt- und Landesbibliothek di Dortmund; la Bibliothèque Municipale di Marsiglia; il Whitechapel Idea Store di Londra, e la Biblioteca Jaume Fuster di Barcellona.
Qualche riflessione si propone anche sulla Bibliothèque Publique d’Information di Parigi e su alcune biblioteche italiane di recente realizzazione, tra cui la Biblioteca Salaborsa di Bologna, la Biblioteca San Giorgio di Pistoia, la Biblioteca San Giovanni di Pesaro.
L'incrocio dei casi di studio e delle analisi sociologiche mi ha consentito e stimolato ad enucleare cinque modelli di biblioteca:
- la biblioteca esperienziale;
- la biblioteca spazio urbano e sociale;
- la biblioteca-libreria;
- la biblioteca di nicchia;
- la reference library.
L'ultimo capitolo del volume suggerisce, infine, una riflessione di sintesi di questi cinque modelli, il cui superamento è rappresentato da una biblioteca che chiamerò multipurpose.
Buona lettura a tutti!
Esce in questi giorni per i tipi di Carocci editore (trovate sul sito, nella pagina delle novità, scheda e indici) il mio volume dal titolo:
Biblioteche per la città. Nuove prospettive di un servizio pubblico (2009).
Si tratta di una riflessione sulla biblioteca pubblica e sui suoi rapporti con i modi e gli stili di vita urbani. È mia convinzione che se un futuro esiste per le biblioteche esso è legato a una spietata analisi del mutato contesto sociale di riferimento e a un suo riallineamento con il mondo dell'edutainment e con i processi che la rete ha innescato sul fronte dei consumi culturali.
Le biblioteche non possono pensare di sopravvivere in un mondo che cambia profondamente solo grazie alla lunga tradizione che hanno alle spalle né perché sono considerate cosa buona e giusta.
Ne abbiamo già visti troppi di tramonti inaspettati e di conclusioni di ere che non avremmo mai pensato destinate alla fine.
In un mondo estremamente competitivo qual è quello nel quale viviamo, dobbiamo decidere se le biblioteche appartengono esclusivamente al tempo obbligato e/o vincolato (come andare a pagare una bolletta o andare a scuola) oppure al tempo libero.
Se decidiamo di collocare le biblioteche esclusivamente in uno spazio obbligato e/o vincolato, come è apparentemente più scontato nel caso di biblioteche strettamente connesse alle necessità scolastiche o a specifiche esigenze di lavoro, per esse si prospetta un futuro di nicchia, le cui dimensioni potrebbero assottigliarsi sempre di più nel corso del tempo.
Infatti, una biblioteca concepita come mera funzione dello studio e del lavoro potrà essere fisicamente eliminata non appena la rete ingloberà una quantità sufficientemente elevata di contenuti informativi di qualità da rendere non necessaria la visita alla biblioteca e forse anche al suo catalogo.
Una biblioteca che invada l'area del tempo libero deve invece sforzarsi di acquisire uno spazio di significato nella vita delle persone, sfruttare i processi di convergenza e di massificazione della cultura, e imparare a competere per la conquista del tempo e dell'interesse delle persone (ogni tanto penso al rapporto tra cinema e televisione quando devo spiegare come vedo il rapporto tra biblioteche e informazione sul Web!).
Questa riflessione sui modelli socio-urbanistici si incrocia con l'analisi di un certo numero di nuove biblioteche del mondo occidentale, da me visitate personalmente: la Seattle Public Library; la Vancouver Public Library; la Bibliothèque de l'Université Paris 8; la Stadt- und Landesbibliothek di Dortmund; la Bibliothèque Municipale di Marsiglia; il Whitechapel Idea Store di Londra, e la Biblioteca Jaume Fuster di Barcellona.
Qualche riflessione si propone anche sulla Bibliothèque Publique d’Information di Parigi e su alcune biblioteche italiane di recente realizzazione, tra cui la Biblioteca Salaborsa di Bologna, la Biblioteca San Giorgio di Pistoia, la Biblioteca San Giovanni di Pesaro.
L'incrocio dei casi di studio e delle analisi sociologiche mi ha consentito e stimolato ad enucleare cinque modelli di biblioteca:
- la biblioteca esperienziale;
- la biblioteca spazio urbano e sociale;
- la biblioteca-libreria;
- la biblioteca di nicchia;
- la reference library.
L'ultimo capitolo del volume suggerisce, infine, una riflessione di sintesi di questi cinque modelli, il cui superamento è rappresentato da una biblioteca che chiamerò multipurpose.
Buona lettura a tutti!
lunedì 9 marzo 2009
Due partite
L'avevo visto un paio di anni fa a teatro, interpretato quasi dalle stesse attrici.
Non molto è cambiato in questa trasposizione cinematografica se non la maggiore accuratezza dei particolari (vestiti, arredamento, accessori, musiche).
Non so dire se il cinema renda più o meno giustizia del teatro a questo testo che comunque non ha il tono aulico che spesso caratterizza le opere teatrali, bensì piuttosto uno stile televisivo e quasi divulgativo.
Resta la sensazione che le donne della generazione anni '50 primeggino nel confronto con le loro figlie degli anni '90, perché pur nella tragicità ed infelicità delle loro storie e delle loro condizioni personali conservano un'ironia che manca quasi completamente alle loro figlie.
È un film perfettamente in stile 8 marzo, perché intende proporre una riflessione sulla figura femminile e sul cambiamento nel tempo del ruolo della donna. Certo, lo fa in modo un po' didascalico e schematico, cosicché ne emerge una donna perennemente insoddisfatta le cui nevrosi e infelicità ruotano intorno alla presenza/assenza di un uomo, dei figli, del lavoro.
Forse è un po' vero, forse però è un po' poco.
Usciamo dal cinema pensando a quanto sia difficile individuare il giusto equilibrio tra le varie componenti della nostra vita e questo era vero per la generazione che ci ha preceduto e anche per la nostra. Ma forse non serviva Cristina Comencini per saperlo né per spingerci a una riflessione.
Insomma, il tutto mi è sembrato gradevole e non stupido, ma nemmeno tanto profondo.
Brave le nostre attrici con una menzione particolare per Paola Cortellesi, sempre troppo poco sfruttata dal nostro cinema. Ricordiamo anche le altre interpreti: Margherita Buy, Isabella Ferrari, Marina Massironi, Valeria Milillo, Claudia Pandolfi, Alba Rohrwacher, Carolina Crescentini.
Voto: 2,5/5
Non molto è cambiato in questa trasposizione cinematografica se non la maggiore accuratezza dei particolari (vestiti, arredamento, accessori, musiche).
Non so dire se il cinema renda più o meno giustizia del teatro a questo testo che comunque non ha il tono aulico che spesso caratterizza le opere teatrali, bensì piuttosto uno stile televisivo e quasi divulgativo.
Resta la sensazione che le donne della generazione anni '50 primeggino nel confronto con le loro figlie degli anni '90, perché pur nella tragicità ed infelicità delle loro storie e delle loro condizioni personali conservano un'ironia che manca quasi completamente alle loro figlie.
È un film perfettamente in stile 8 marzo, perché intende proporre una riflessione sulla figura femminile e sul cambiamento nel tempo del ruolo della donna. Certo, lo fa in modo un po' didascalico e schematico, cosicché ne emerge una donna perennemente insoddisfatta le cui nevrosi e infelicità ruotano intorno alla presenza/assenza di un uomo, dei figli, del lavoro.
Forse è un po' vero, forse però è un po' poco.
Usciamo dal cinema pensando a quanto sia difficile individuare il giusto equilibrio tra le varie componenti della nostra vita e questo era vero per la generazione che ci ha preceduto e anche per la nostra. Ma forse non serviva Cristina Comencini per saperlo né per spingerci a una riflessione.
Insomma, il tutto mi è sembrato gradevole e non stupido, ma nemmeno tanto profondo.
Brave le nostre attrici con una menzione particolare per Paola Cortellesi, sempre troppo poco sfruttata dal nostro cinema. Ricordiamo anche le altre interpreti: Margherita Buy, Isabella Ferrari, Marina Massironi, Valeria Milillo, Claudia Pandolfi, Alba Rohrwacher, Carolina Crescentini.
Voto: 2,5/5
domenica 8 marzo 2009
Giulia non esce la sera
Nel nuovo film di Giuseppe Piccioni tornano alcune delle soluzioni cinematografiche care al regista e già presenti – in forme diverse – nei suoi film precedenti, in particolare Luce dei miei occhi e La vita che vorrei: gli inserti onirici, la storia nella storia, le vite parallele.
Anche la sensazione che si prova all’uscita dalla sala è molto simile: un gelo interiore, un non risolto, una compressione dei sentimenti.
Guido (Valerio Mastandrea) è uno scrittore che non sa perché scrive, un uomo senza qualità, un cuore in inverno come molti dei personaggi maschili di Piccioni.
Giulia (Valeria Golino) è una donna fragile, infantile, incapace di gestire i sentimenti.
I due si incontrano, ma… quest’incontro non cambia le loro vite, forse semplicemente ne accelera l’inevitabile percorso.
Intorno un mondo di adulti e di bambini e adolescenti spettatori e protagonisti di vite e di storie finite in una via senza uscita.
Bello il dialogo tra Guido e sua figlia, durante il quale Sonia chiede al padre se quello che le ha detto il suo fidanzatino Filippo in merito al suo libro è vero: cioè che diventare adulti significa perdere l’energia propulsiva, rovinare tutto, praticamente andare a male.
Ma nell'universo di Piccioni ci sono bambini e adolescenti i cui orizzonti sono già chiusi, che sono più adulti degli adulti, e ci sono adulti che non hanno mai superato la loro adolescenza e che proprio per questo sono dei disadattati e degli sconfitti in un mondo in cui la maggioranza degli adulti ha accettato la strada della privazione di senso, della perdita di entusiasmo, del soffocamento dei sentimenti, della viltà e dell’incapacità di cambiare.
Ci sono molti temi nel nuovo film di Piccioni, forse troppi…
Non mi ha convinto la struttura narrativa, con i racconti che Guido sta scrivendo a fare da fil rouge insistito e didascalico alla storia; non mi ha convinto la cornice che disegna criticamente l’ambiente della scrittura e dei premi letterari ma senza approfondirlo.
Bello invece l’accompagnamento musicale: perfetti i Baustelle a sottolineare quel sentimento gelido-nostalgico che tutto il film trasmette; azzeccate le citazioni esplicite di Endrigo e Aznavour, testimoni di un mondo di sentimenti più definiti, ma non per questo meno dolorosi.
Bravi Mastandrea – capace come sempre di strappare un sorriso senza rendere meno grigio e tragico il suo eroe – e la Golino, dolente bambina sopraffatta dai sentimenti.
I film di Piccioni spesso non piacciono ai critici perché non sono risolti, ma come potrebbero esserlo se irrisolto è il mondo che rappresentano?
Voto: 3/5
Anche la sensazione che si prova all’uscita dalla sala è molto simile: un gelo interiore, un non risolto, una compressione dei sentimenti.
Guido (Valerio Mastandrea) è uno scrittore che non sa perché scrive, un uomo senza qualità, un cuore in inverno come molti dei personaggi maschili di Piccioni.
Giulia (Valeria Golino) è una donna fragile, infantile, incapace di gestire i sentimenti.
I due si incontrano, ma… quest’incontro non cambia le loro vite, forse semplicemente ne accelera l’inevitabile percorso.
Intorno un mondo di adulti e di bambini e adolescenti spettatori e protagonisti di vite e di storie finite in una via senza uscita.
Bello il dialogo tra Guido e sua figlia, durante il quale Sonia chiede al padre se quello che le ha detto il suo fidanzatino Filippo in merito al suo libro è vero: cioè che diventare adulti significa perdere l’energia propulsiva, rovinare tutto, praticamente andare a male.
Ma nell'universo di Piccioni ci sono bambini e adolescenti i cui orizzonti sono già chiusi, che sono più adulti degli adulti, e ci sono adulti che non hanno mai superato la loro adolescenza e che proprio per questo sono dei disadattati e degli sconfitti in un mondo in cui la maggioranza degli adulti ha accettato la strada della privazione di senso, della perdita di entusiasmo, del soffocamento dei sentimenti, della viltà e dell’incapacità di cambiare.
Ci sono molti temi nel nuovo film di Piccioni, forse troppi…
Non mi ha convinto la struttura narrativa, con i racconti che Guido sta scrivendo a fare da fil rouge insistito e didascalico alla storia; non mi ha convinto la cornice che disegna criticamente l’ambiente della scrittura e dei premi letterari ma senza approfondirlo.
Bello invece l’accompagnamento musicale: perfetti i Baustelle a sottolineare quel sentimento gelido-nostalgico che tutto il film trasmette; azzeccate le citazioni esplicite di Endrigo e Aznavour, testimoni di un mondo di sentimenti più definiti, ma non per questo meno dolorosi.
Bravi Mastandrea – capace come sempre di strappare un sorriso senza rendere meno grigio e tragico il suo eroe – e la Golino, dolente bambina sopraffatta dai sentimenti.
I film di Piccioni spesso non piacciono ai critici perché non sono risolti, ma come potrebbero esserlo se irrisolto è il mondo che rappresentano?
Voto: 3/5
giovedì 5 marzo 2009
FUORI TEMA: Il barista Gigi
È lui che mille volte di più dei libri di management e di biblioteconomia mi ha spiegato e dimostrato in pratica cosa vuol dire "prendersi cura del cliente" e fare della più semplice e ripetitiva delle operazioni quotidiane un momento speciale, un' "esperienza".
Gigi, infatti, conosce gli avventori più o meno abituali del bar ad uno ad uno, sa cosa prendono e come, ti sorride anche quando è l'ora di punta. Ogni caffè o cappuccino è speciale, perché, avendoti visto entrare, te lo prepara quando ancora sei alla cassa a pagare, ti ci mette il cacao se sa che ti piace, ti appoggia una bustina di zucchero vicino alla tazzina, non ti fa mai mancare un bicchiere d'acqua, anche se il collega se ne dimentica.
E quando non ti vede per un po', ti chiede se è tutto a posto, ti sorride e ti dice bentornato.
A Gigi perdoneresti qualunque cosa e se una volta per sbaglio il cappuccino te lo fa tiepido anziché bollente - come in realtà lo vorresti - non hai il coraggio di dirglielo e quel cappuccino tiepido finirà per piacerti più di qualunque cappuccino bollente della tua vita.
E questo perché, grazie a lui, ti senti a casa, coccolato e sempre importante, indipendentemente dal fatto che nel bar ci sia folla oppure nessuno.
Mi guardo intorno spesso quando vado da Gigi e penso che i clienti del bar lo considerino un amico, anche se ne conoscono a malapena il nome... Credo che le persone come lui siano speciali, in grado di rendere unico e straordinariamente importante anche il lavoro più umile, semplice e ripetitivo.
Nessuna tecnologia potrà sostituire Gigi. Tanto che quando è in ferie, il caffé resta ottimo e i cornetti sono sempre buonissimi, ma il bar si svuota perché non c'è più alcun motivo per andare lì piuttosto che da un'altra parte.
Sarà anche che il bar dove lavora Gigi ha il cornetto gianduja che mi piace tanto, ma visto che mi comporta una sosta sulla via del lavoro, che proprietari e commessi in generale non sono particolarmente simpatici e che il bar non è esteticamente gradevolissimo, devo ammettere che la presenza di questo barista, che esprime una speciale filosofia di vita e di lavoro, è il motivo per cui non rinuncerei a questa sosta mattutina per nessun motivo al mondo.
Gigi, infatti, conosce gli avventori più o meno abituali del bar ad uno ad uno, sa cosa prendono e come, ti sorride anche quando è l'ora di punta. Ogni caffè o cappuccino è speciale, perché, avendoti visto entrare, te lo prepara quando ancora sei alla cassa a pagare, ti ci mette il cacao se sa che ti piace, ti appoggia una bustina di zucchero vicino alla tazzina, non ti fa mai mancare un bicchiere d'acqua, anche se il collega se ne dimentica.
E quando non ti vede per un po', ti chiede se è tutto a posto, ti sorride e ti dice bentornato.
A Gigi perdoneresti qualunque cosa e se una volta per sbaglio il cappuccino te lo fa tiepido anziché bollente - come in realtà lo vorresti - non hai il coraggio di dirglielo e quel cappuccino tiepido finirà per piacerti più di qualunque cappuccino bollente della tua vita.
E questo perché, grazie a lui, ti senti a casa, coccolato e sempre importante, indipendentemente dal fatto che nel bar ci sia folla oppure nessuno.
Mi guardo intorno spesso quando vado da Gigi e penso che i clienti del bar lo considerino un amico, anche se ne conoscono a malapena il nome... Credo che le persone come lui siano speciali, in grado di rendere unico e straordinariamente importante anche il lavoro più umile, semplice e ripetitivo.
Nessuna tecnologia potrà sostituire Gigi. Tanto che quando è in ferie, il caffé resta ottimo e i cornetti sono sempre buonissimi, ma il bar si svuota perché non c'è più alcun motivo per andare lì piuttosto che da un'altra parte.
Sarà anche che il bar dove lavora Gigi ha il cornetto gianduja che mi piace tanto, ma visto che mi comporta una sosta sulla via del lavoro, che proprietari e commessi in generale non sono particolarmente simpatici e che il bar non è esteticamente gradevolissimo, devo ammettere che la presenza di questo barista, che esprime una speciale filosofia di vita e di lavoro, è il motivo per cui non rinuncerei a questa sosta mattutina per nessun motivo al mondo.
mercoledì 4 marzo 2009
Chiude Nannucci, storico negozio di musica di Bologna
Durante i miei anni bolognesi e tutte le volte che torno a Bologna per piacere o per lavoro la tappa da Nannucci è praticamente obbligata!
Si tratta di un negozio di musica dove si possono trovare cose che ormai nessuno importa e dove si possono soddisfare gran parte delle curiosità musicali grazie ad una selezione eccellente del catalogo proposto e ad un'altrettanto eccellente preparazione musicale dei commessi.
Sapere che questo negozio a metà aprile chiude, con grande disappunto del mondo dei blogger e mobilitazione dei gruppi di Facebook, mi mette tristezza ma mi suscita anche una serie di riflessioni.
Quasi inevitabilmente finisco per tirare in ballo il tema del mercato e della sua evoluzione nell'era di Internet, in particolare in alcuni settori come quello musicale.
Senza necessariamente addossare la colpa alla pirateria o a cose similari, credo sia sufficiente sottolineare che nel mercato della musica oggi si individuano due principali esigenze:
- quella che riguarda la musica a maggiore diffusione commerciale, la cosiddetta musica "popolare" o "di massa" (senza alcuna connotazione negativa);
- quella delle decine di migliaia di nicchie musicali che, come dice Chris Anderson, producono una coda di domanda e di offerta pressoché infinita.
Ora, alla prima esigenza rispondono egregiamente i negozi generalisti (ipermercati e grandi magazzini) e i megastore di libri e musica (genere Feltrinelli e Fnac). Chi cerca questo tipo di musica non ha bisogno di grande assistenza e magari cerca e compra musica mentre fa la spesa.
La seconda esigenza è praticamente impossibile da soddisfare appieno da parte di un negozio fisico e forse nemmeno da parte di una catena di negozi, perché il mercato è sterminato e le nicchie infinite.
Solo la rete è in grado di dare una risposta a questa straordinaria diversificazione della domanda, o grazie alle grandi librerie online (come Amazon) capaci di offrire tutti insieme i cataloghi di migliaia di rivenditori pubblici e privati, ovvero attraverso la distribuzione della musica direttamente online in formato digitale (come su iTunes).
Non che le nicchie prima non esistessero (non le ha certo inventate Internet), ma grazie alla rete esse hanno trovato una eccezionale possibilità di espressione e soddisfacimento. Tanto più che la rete ha consentito di mettere in contatto gli appartenenti alle nicchie anche più piccole localizzati in qualunque parte del mondo e ha reso economicamente sostenibile e addirittura proficuo rivolgersi anche a nicchie piccolissime.
Questo perché, come dice Anderson, "migliaia di nicchie piccolissime formano un mercato grande almeno quanto il mercato di massa".
Insomma, Nannucci è vittima dei limiti della fisicità, in un settore in cui la convergenza al digitale è al massimo grado, e dell'impossibilità di essere realmente competitiva rispetto all'offerta della rete.
Né spostarsi nel mainstream musicale le avrebbe giovato in quanto non avrebbe retto la concorrenza dei megastore.
Che dire? Il mondo cambia, a volte anche creando cesure brutali, e anche quello che pensavamo o speravamo immutabile può essere messo in discussione e non sopravvivere.
Bene? Male? Positivo? Negativo? Non saprei...
Non ne farei una questione morale; ne prendo semplicemente atto e - come dice Baricco nella saga su "I barbari" - tengo gli occhi ben aperti per cercare di salvare quello che vorrei portare con me nella società del futuro, ma non difendendola "dalla" mutazione, bensì accettandone la mutazione della forma e magari provando a preservarne i valori di fondo.
Si tratta di un negozio di musica dove si possono trovare cose che ormai nessuno importa e dove si possono soddisfare gran parte delle curiosità musicali grazie ad una selezione eccellente del catalogo proposto e ad un'altrettanto eccellente preparazione musicale dei commessi.
Sapere che questo negozio a metà aprile chiude, con grande disappunto del mondo dei blogger e mobilitazione dei gruppi di Facebook, mi mette tristezza ma mi suscita anche una serie di riflessioni.
Quasi inevitabilmente finisco per tirare in ballo il tema del mercato e della sua evoluzione nell'era di Internet, in particolare in alcuni settori come quello musicale.
Senza necessariamente addossare la colpa alla pirateria o a cose similari, credo sia sufficiente sottolineare che nel mercato della musica oggi si individuano due principali esigenze:
- quella che riguarda la musica a maggiore diffusione commerciale, la cosiddetta musica "popolare" o "di massa" (senza alcuna connotazione negativa);
- quella delle decine di migliaia di nicchie musicali che, come dice Chris Anderson, producono una coda di domanda e di offerta pressoché infinita.
Ora, alla prima esigenza rispondono egregiamente i negozi generalisti (ipermercati e grandi magazzini) e i megastore di libri e musica (genere Feltrinelli e Fnac). Chi cerca questo tipo di musica non ha bisogno di grande assistenza e magari cerca e compra musica mentre fa la spesa.
La seconda esigenza è praticamente impossibile da soddisfare appieno da parte di un negozio fisico e forse nemmeno da parte di una catena di negozi, perché il mercato è sterminato e le nicchie infinite.
Solo la rete è in grado di dare una risposta a questa straordinaria diversificazione della domanda, o grazie alle grandi librerie online (come Amazon) capaci di offrire tutti insieme i cataloghi di migliaia di rivenditori pubblici e privati, ovvero attraverso la distribuzione della musica direttamente online in formato digitale (come su iTunes).
Non che le nicchie prima non esistessero (non le ha certo inventate Internet), ma grazie alla rete esse hanno trovato una eccezionale possibilità di espressione e soddisfacimento. Tanto più che la rete ha consentito di mettere in contatto gli appartenenti alle nicchie anche più piccole localizzati in qualunque parte del mondo e ha reso economicamente sostenibile e addirittura proficuo rivolgersi anche a nicchie piccolissime.
Questo perché, come dice Anderson, "migliaia di nicchie piccolissime formano un mercato grande almeno quanto il mercato di massa".
Insomma, Nannucci è vittima dei limiti della fisicità, in un settore in cui la convergenza al digitale è al massimo grado, e dell'impossibilità di essere realmente competitiva rispetto all'offerta della rete.
Né spostarsi nel mainstream musicale le avrebbe giovato in quanto non avrebbe retto la concorrenza dei megastore.
Che dire? Il mondo cambia, a volte anche creando cesure brutali, e anche quello che pensavamo o speravamo immutabile può essere messo in discussione e non sopravvivere.
Bene? Male? Positivo? Negativo? Non saprei...
Non ne farei una questione morale; ne prendo semplicemente atto e - come dice Baricco nella saga su "I barbari" - tengo gli occhi ben aperti per cercare di salvare quello che vorrei portare con me nella società del futuro, ma non difendendola "dalla" mutazione, bensì accettandone la mutazione della forma e magari provando a preservarne i valori di fondo.
domenica 1 marzo 2009
The reader
Iniziamo da una critica che a qualcuno potrà anche sembrare pedante, ma che io considero determinante per la lettura del film. Un film quasi integralmente ambientato in Germania e incentrato su lettura e scrittura non può permettersi di mostrare solo libri in inglese e di far scrivere la protagonista in inglese!!!
Io la trovo una mancanza di attenzione al contesto e di rispetto per il dato contenutistico che solo un approccio anglocentrico può concepire.
Altra piccola annotazione, ma questa dovuta al mio essere profondamente bibliotecaria dentro: mi fa sempre un certo effetto vedere nei film lettori che sottolineano i libri che prendono in prestito nelle biblioteche… ;-))
Detto questo, il film è difficile da definire; non saprei se suscita più rabbia, fastidio o compassione. La sua struttura narrativa si articola chiaramente in due parti: la prima che racconta l’amore tra l’adolescente Michael (David Kross) e la matura Hannah (una straordinaria Kate Winslet, triste e priva di qualunque raffinatezza, “popolana” in tutte le sue espressioni) e la seconda che racconta il processo ad Hannah e la sua incarcerazione.
Un filo rosso lo attraversa tutto: una vena di tristezza e un’atmosfera di tragedia che nemmeno nei momenti felici dell’amore riesce a stemperarsi.
Se dovessi leggere il film su un piano puramente narrativo, direi che la storia complessivamente è un po’ debole e che difficilmente risulta del tutto verosimile.
Mi piace invece interpretarla come una lettura di un pezzo della storia tedesca e del confronto tra due generazioni: quella rappresentata da Michael, che durante gli anni del nazismo era bambina o adolescente, e quella rappresentata da Hannah, che ha vissuto interamente la brutalità del nazismo quasi senza accorgersene per ignoranza, per ingenuità, per superficialità, per paura o – nei casi peggiori – per connivenza.
L’analfabetismo di Hannah forse rappresenta l’ignoranza della coscienza morale di quella generazione, che proprio per questo appare così terribile e controversa agli occhi delle generazioni successive. Bellissimo lo scatto d’ira del compagno di università di Michael, che si chiede come un’intera nazione abbia potuto rimanere immobile di fronte a quello che stava accadendo.
Michael rappresenta un’intera generazione ferita perché ha sfiorato una tragedia senza toccarla con mano, perché è la prima generazione pienamente consapevole dell’orrore e perché - proprio per questo - non si libererà mai da un atavico senso di colpa. Non si guarisce dal senso di colpa individuando qualche capro espiatorio che ci permetta di toglierci un peso dalla coscienza.
Ed è forse per tutti questi motivi che non è chiaro il sentimento che proviamo nel film, forse condividiamo lo stesso senso di gelo che attanaglia il personaggio adulto di Michael (Ralph Fiennes), incapace o forse non più capace di amare, compatire, perdonare o condannare davvero.
Stephen Daldry (dopo il leggiadro Billy Elliott e il letterario The hours) fa solo in parte centro con il greve The reader e forse la parte meglio riuscita è quella che più direttamente gli arriva dal libro A voce alta di Bernhard Schlink.
Voto: 3,5/5
Io la trovo una mancanza di attenzione al contesto e di rispetto per il dato contenutistico che solo un approccio anglocentrico può concepire.
Altra piccola annotazione, ma questa dovuta al mio essere profondamente bibliotecaria dentro: mi fa sempre un certo effetto vedere nei film lettori che sottolineano i libri che prendono in prestito nelle biblioteche… ;-))
Detto questo, il film è difficile da definire; non saprei se suscita più rabbia, fastidio o compassione. La sua struttura narrativa si articola chiaramente in due parti: la prima che racconta l’amore tra l’adolescente Michael (David Kross) e la matura Hannah (una straordinaria Kate Winslet, triste e priva di qualunque raffinatezza, “popolana” in tutte le sue espressioni) e la seconda che racconta il processo ad Hannah e la sua incarcerazione.
Un filo rosso lo attraversa tutto: una vena di tristezza e un’atmosfera di tragedia che nemmeno nei momenti felici dell’amore riesce a stemperarsi.
Se dovessi leggere il film su un piano puramente narrativo, direi che la storia complessivamente è un po’ debole e che difficilmente risulta del tutto verosimile.
Mi piace invece interpretarla come una lettura di un pezzo della storia tedesca e del confronto tra due generazioni: quella rappresentata da Michael, che durante gli anni del nazismo era bambina o adolescente, e quella rappresentata da Hannah, che ha vissuto interamente la brutalità del nazismo quasi senza accorgersene per ignoranza, per ingenuità, per superficialità, per paura o – nei casi peggiori – per connivenza.
L’analfabetismo di Hannah forse rappresenta l’ignoranza della coscienza morale di quella generazione, che proprio per questo appare così terribile e controversa agli occhi delle generazioni successive. Bellissimo lo scatto d’ira del compagno di università di Michael, che si chiede come un’intera nazione abbia potuto rimanere immobile di fronte a quello che stava accadendo.
Michael rappresenta un’intera generazione ferita perché ha sfiorato una tragedia senza toccarla con mano, perché è la prima generazione pienamente consapevole dell’orrore e perché - proprio per questo - non si libererà mai da un atavico senso di colpa. Non si guarisce dal senso di colpa individuando qualche capro espiatorio che ci permetta di toglierci un peso dalla coscienza.
Ed è forse per tutti questi motivi che non è chiaro il sentimento che proviamo nel film, forse condividiamo lo stesso senso di gelo che attanaglia il personaggio adulto di Michael (Ralph Fiennes), incapace o forse non più capace di amare, compatire, perdonare o condannare davvero.
Stephen Daldry (dopo il leggiadro Billy Elliott e il letterario The hours) fa solo in parte centro con il greve The reader e forse la parte meglio riuscita è quella che più direttamente gli arriva dal libro A voce alta di Bernhard Schlink.
Voto: 3,5/5
Religiolus
Le tre scimmie sul manifesto e il riferimento al film Borat con cui questo condivide il regista, Larry Charles, lì per lì mi avevano convinto a non andarlo a vedere. Personalmente non amo la comicità demenziale, anche quando tale stile viene utilizzato per dire cose intelligenti, perché le mi barriere formali sono tali da impedirmi di ridere.
E invece poi, spinta da un amico, mi sono fatta convincere ad andarlo a vedere, non prima di aver fatto un giro in rete e aver verificato che il film, a detta di critici e pubblico, è molto meno stupido di quanto non appaia a prima vista. Ed effettivamente così è.
Intanto il titolo del film. Avevo visto già da settimane i manifesti in giro per Roma e avevo sempre letto Religious, mentre mi sono accorta solo qualche giorno fa che il titolo è Religiolus, frutto della fusione di Religious e Ridicolous. Il titolo già svela l’approccio e definisce senza ipocrisia il punto di vista del film.
Si tratta di un’inchiesta semiseria, un po' alla maniera di Michael Moore, con base negli Stati Uniti, sulle religioni, sui loro dogmi, sui loro precetti e sull’impatto che hanno sui comportamenti della gente. Le religioni passate in rassegna sono tante, dalle grandi religioni monoteiste, il cristianesimo, l’ebraismo, l’islamismo, alle religioni minori, come scientology, i mormoni, nonché alcune sette americane.
Dopo averlo visto, comprendo perché in Italia è passato quasi sotto silenzio, perché ha sofferto di un’assenza o di una distorsione della campagna pubblicitaria, perché a Roma solo poche sale l’hanno messo in programmazione, perché rapidamente sta uscendo dal circuito, perché si sia sviluppata una campagna contro, rimbalzata criticamente su molti blog e giornali.
Con un tono tra il serio e il faceto, il conduttore dell’inchiesta, Bill Maher, intervista rappresentanti e credenti delle varie religioni allo scopo di svelarne la fragilità della basi razionali e scientifiche e di instillare negli intervistati il dubbio.
Qualcuno degli intervistati ne esce malissimo, autodenunciando la propria ignoranza, o la propria avidità, ovvero i secondi fini che ne muovono l’operato, altri manifestano un approccio più adulto e problematico alla religiosità.
In generale, ne viene fuori un’immagine fortemente critica delle religioni da cui nessuna esce indenne. Probabilmente emerge anche qualcosa di più, ossia la pericolosità di qualunque fede acritica (non solo di tipo religioso, ma anche politico, ideologico, sociale ecc.), che può condurre l’individuo a comportamenti del tutto irrazionali e a giustificare comportamenti socialmente pericolosi in nome delle proprie convinzioni.
La superficialità delle risposte degli intervistati, l’emozione del pubblico dei visitatori del parco a tema dedicato alla Terra Santa in Florida, le parole del direttore del Museo della creazione ispirato alla Genesi, le invenzioni tecnologiche dell’ebreo ortodosso finalizzate al rispetto dei dettami della religione, la chiusura musulmana alla molteplicità dei punti di vista fanno davvero paura.
Peccato che la stessa superficialità si riconosca a volte nell’intervistatore, che in alcuni casi risolve in una battuta – talvolta di dubbio gusto – il conflitto verbale e non cura sufficientemente il contraddittorio.
Insomma, mi dico, chi ha già un approccio critico nei confronti delle religioni o chi è già ateo non ha bisogno del film, chi crede più o meno ciecamente nei dogmi di una religione si sentirà offeso dal film e lo rifiuterà anche nei suoi contenuti migliori, chi viaggia nell’incertezza potrebbe non accettare l’approccio non del tutto approfondito del film. Insomma, qual è esattamente lo scopo del film? E a chi si rivolge? Così risponde Bill Maher in un'intervista a Repubblica.
Detto questo, una voce fuori da un coro che ormai ci siamo stancati di ascoltare, un punto di vista irriverente sulla religione, uno svelamento di alcune forme di piccineria della fede ci fanno certamente bene. Dunque, ben vengano – e magari con maggiore diffusione – film su questo tema, in un’epoca in cui si fa tanto parlare di etica religiosa, di precetti divini, di morale, in un processo di ottundimento collettivo che ci toglie la forza e la libertà di ragionare con la nostra testa.
E le campagne di censura contro il film ne sono una dimostrazione più che eloquente.
Voto: 3/5
E invece poi, spinta da un amico, mi sono fatta convincere ad andarlo a vedere, non prima di aver fatto un giro in rete e aver verificato che il film, a detta di critici e pubblico, è molto meno stupido di quanto non appaia a prima vista. Ed effettivamente così è.
Intanto il titolo del film. Avevo visto già da settimane i manifesti in giro per Roma e avevo sempre letto Religious, mentre mi sono accorta solo qualche giorno fa che il titolo è Religiolus, frutto della fusione di Religious e Ridicolous. Il titolo già svela l’approccio e definisce senza ipocrisia il punto di vista del film.
Si tratta di un’inchiesta semiseria, un po' alla maniera di Michael Moore, con base negli Stati Uniti, sulle religioni, sui loro dogmi, sui loro precetti e sull’impatto che hanno sui comportamenti della gente. Le religioni passate in rassegna sono tante, dalle grandi religioni monoteiste, il cristianesimo, l’ebraismo, l’islamismo, alle religioni minori, come scientology, i mormoni, nonché alcune sette americane.
Dopo averlo visto, comprendo perché in Italia è passato quasi sotto silenzio, perché ha sofferto di un’assenza o di una distorsione della campagna pubblicitaria, perché a Roma solo poche sale l’hanno messo in programmazione, perché rapidamente sta uscendo dal circuito, perché si sia sviluppata una campagna contro, rimbalzata criticamente su molti blog e giornali.
Con un tono tra il serio e il faceto, il conduttore dell’inchiesta, Bill Maher, intervista rappresentanti e credenti delle varie religioni allo scopo di svelarne la fragilità della basi razionali e scientifiche e di instillare negli intervistati il dubbio.
Qualcuno degli intervistati ne esce malissimo, autodenunciando la propria ignoranza, o la propria avidità, ovvero i secondi fini che ne muovono l’operato, altri manifestano un approccio più adulto e problematico alla religiosità.
In generale, ne viene fuori un’immagine fortemente critica delle religioni da cui nessuna esce indenne. Probabilmente emerge anche qualcosa di più, ossia la pericolosità di qualunque fede acritica (non solo di tipo religioso, ma anche politico, ideologico, sociale ecc.), che può condurre l’individuo a comportamenti del tutto irrazionali e a giustificare comportamenti socialmente pericolosi in nome delle proprie convinzioni.
La superficialità delle risposte degli intervistati, l’emozione del pubblico dei visitatori del parco a tema dedicato alla Terra Santa in Florida, le parole del direttore del Museo della creazione ispirato alla Genesi, le invenzioni tecnologiche dell’ebreo ortodosso finalizzate al rispetto dei dettami della religione, la chiusura musulmana alla molteplicità dei punti di vista fanno davvero paura.
Peccato che la stessa superficialità si riconosca a volte nell’intervistatore, che in alcuni casi risolve in una battuta – talvolta di dubbio gusto – il conflitto verbale e non cura sufficientemente il contraddittorio.
Insomma, mi dico, chi ha già un approccio critico nei confronti delle religioni o chi è già ateo non ha bisogno del film, chi crede più o meno ciecamente nei dogmi di una religione si sentirà offeso dal film e lo rifiuterà anche nei suoi contenuti migliori, chi viaggia nell’incertezza potrebbe non accettare l’approccio non del tutto approfondito del film. Insomma, qual è esattamente lo scopo del film? E a chi si rivolge? Così risponde Bill Maher in un'intervista a Repubblica.
Detto questo, una voce fuori da un coro che ormai ci siamo stancati di ascoltare, un punto di vista irriverente sulla religione, uno svelamento di alcune forme di piccineria della fede ci fanno certamente bene. Dunque, ben vengano – e magari con maggiore diffusione – film su questo tema, in un’epoca in cui si fa tanto parlare di etica religiosa, di precetti divini, di morale, in un processo di ottundimento collettivo che ci toglie la forza e la libertà di ragionare con la nostra testa.
E le campagne di censura contro il film ne sono una dimostrazione più che eloquente.
Voto: 3/5