Al Museo Morandi di Bologna, in piazza Maggiore, è attualmente in corso una mostra fotografica dedicata alla coppia di fotografi tedeschi Bernd e Hilla Becher, collocata in un paio di sale del Museo a fianco della mostra antologica su Morandi.
La mostra è organizzata dal MAMbo, il Museo di Arte Moderna di Bologna.
I due artisti, a partire dalla fine degli anni '50, hanno cominciato prima in Germania, poi anche in altri paesi europei (Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Francia ecc.) nonché negli Stati Uniti, a fotografare architetture industriali: serbatoi, gasometri, torri di estrazione ecc.
La mostra organizza le foto per tipologia di manufatto fotografato, indipendentemente dal periodo e dal luogo in cui è stato fotografato, creando pareti seriali a tema di grande fascino.
L'impatto visivo è davvero rilevante, perché lo stile dei due fotografi è volutamente sistematico e ripetitivo:
- immagini in bianco e nero;
- fotografie frontali e architettura che campeggia nello spazio fotografico;
- assenza di figure umane;
- assenza di riferimenti spazio-temporali;
- grande attenzione alla composizione geometrica in cui prevalgono forme triangolari.
I curatori della mostra suggeriscono delle possibili analogie con la produzione di Morandi, di cui nelle sale attigue si propone un'antologia di opere pittoriche.
Per gusto personale, dirò che lì dove in Morandi e nella pittura trovo una ripetitività noiosa, la serialità fotografica dei due artisti tedeschi mi cattura e mi emoziona, perché la singola fotografia appare una parte di una composizione che nel suo complesso diviene quasi pittorica.
Insomma, mi è proprio venuta la voglia di andare a fotografare la zona del gazometro...
Voto: 4/5
la mostra dei Becher è una mostra bellissima, non solo per la qualità delle immagini ma anche per l'allestimento: semplice, essenziale, del tutto focalizzato sull'impatto visivo, evita allo spettatotore l'ingerenza di chiavi di lettura e di apparati didascalici invasivi che non sempre sono necessari. Chi si trova davanti a queste pareti riempite di torri estrattive, gasometri ecc. si trova davanti a soggetti che ci vengono resi con il nitore e la pulizia della descrizione semplce e accurata. sono immagini in cui il soggetto è colto in pieno, occupa tutta la superficie della foto, per cui non ci sono elementi che ne distraggano la visione. e al tempo stesso la visione non è distratta nemmeno da elementi estetici che marchino l'immagine con l'impronta del fotografo: nessuna forzatura nella grana, nel contrasto e nel chiaroscuro, nella messa a fuoco. eppure sono rappresentazioni di soggetti che magari riconosciamo ma che non riusciamo a vedere in questo modo. La frontalità, la centralità, l'assenza di elementi contestualizzanti (che echeggia come una sorta di silenzio) e la pulizia (o limpidezza) dell'immagine, assieme alla ripetizione (che però non stanca e nemmeno risulta ripetitiva) fanno di questi esempi di archeologia industriale delle icone, delle forme totemiche di fronte alle quali restiamo ammirati e stupiti.
RispondiEliminaè la descrizione che diventa narrazione. le cose che ci stanno davanti sono osservate senza mai darle per scontate e propio in questa osservazione capillare, che cerca di essere oggettiva (cioè che cerca di togliere di mezzo l'osservatore come individuo giudicante o, per lo meno, di non farlo sentire), la forma viene restituita con una sua vita che è fatta di relazioni con la luce, la polvere, l'aria, le stagioni e l'ora del giorno e che quindi è fatta del suo essere lì, a rappresentare se stessa e forse un immaginario che si alimenta di icone.
in questo passaggio della descrizione a narrazione, che sospende ogni forma di giudizio (di cui siamo imbevuti e che sentiamo quasi come necessità per poter comprendere il mondo) io vedo l'analogia con l'immenso Morandi.
arianna
Grazie delle tue riflessioni. Aggiungono spessore a quanto avevo provato a dire io...
RispondiEliminagrazie te!
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