Il film di Ali Asgari e Alireza Khatami, presentato alla sezione Un certain regard del Festival di Cannes, è purtroppo andato incontro al destino che colpisce tutti coloro che "osano" mostrare un volto dell'Iran non corrispondente a quello che il regime impone, e dunque al regista sono stati tolti il passaporto e il telefono (come ci dice la direttrice del Med Film Festival che introduce la pellicola), e ovviamente il film non è distribuito in Iran.
Kafka a Teheran racconta la quotidianità folle degli iraniani attraverso nove ritratti di uomini, donne e anche una bambina, in situazioni ordinarie della vita: un padre allo sportello di registrazione del nome del figlio, una bambina in un negozio dove comprare il vestito per una cerimonia scolastica, una donna ad un colloquio di lavoro, un ragazzo all'ufficio per il rilascio della patente, una ragazza nello studio della preside della scuola, un'altra ragazza in un ufficio della polizia municipale, un regista all'ufficio che deve autorizzare il suo film, e così via. Situazioni che in un paese teocratico che controlla ossessivamente i comportamenti pubblici e privati dei suoi cittadini diventano appunto situazioni kafkiane, a tratti divertenti nella loro assurdità, ma terribili se solo solo ci si sofferma a pensare che si tratta di realtà quotidiana.
Cinematograficamente il regista sceglie di rappresentare questi dialoghi inquadrando frontalmente con una telecamera fissa l'elemento debole della conversazione, quello che sta dall'altra parte della scrivania, e che subisce le angherie e la follia del potere, di volta in volta rappresentato dalla voce di qualcuno che non vediamo, perché sta al di qua della telecamera. E del resto il vero "carnefice" della situazione non è tanto e solo la persona specifica che in quel momento esercita la sua funzione e/o il suo potere, in quanto questa persona costituisce la longa manus (più o meno consapevole e/o compiaciuta) di un sistema politico e pubblico che schiaccia le libertà dei cittadini e li mette continuamente in una condizione di inferiorità e di errore per il quale essere potenzialmente puniti.
Potenzialmente le stesse "vittime" che noi vediamo al di là della telecamera fissa, in situazioni diverse potrebbero trovarsi dall'altra parte della scrivania e diventare essere stesse strumenti di questo perverso sistema di potere, fatto di maschilismo, ortodossia religiosa imposta, atmosfera di sospetto, giudizio personale, condizionamento, e chi più ne ha più ne metta.
È chiaro che questo non assolve le persone - come la Arendt ci insegna -, perché il potere anche in un contesto così difficile può essere esercitato in maniera più comprensiva e meno abusante, ma è chiaro anche che in un clima di terrore com'è quello che vige in Iran e che ha visto represse nel sangue le proteste di migliaia di persone dopo la morte di Mahsa Amini il margine di movimento è davvero minimale. È solo di pochi giorni fa la notizia di una ragazza adolescente prima in coma e poi morta dopo essere stata probabilmente malmenata dalla polizia perché non indossava il velo in metropolitana.
Cosa possiamo fare di fronte a tutto questo? Dal palco ci dicono "Indignatevi", e posso anche essere d'accordo. Ma basta? Serve a far cambiare qualcosa? Il senso di impotenza che ultimamente mi attanaglia su molteplici fronti si fa sempre più profondo e scava solchi di pessimismo cosmico che non so davvero come gestire. Essere informati e consapevoli diventa sempre di più una condizione che non si sa in che direzione far evolvere.
Voto: 3,5/5
lunedì 30 ottobre 2023
mercoledì 25 ottobre 2023
Un giorno come un altro / di Giacomo Ciarrapico. Teatro Sala Umberto, 4 ottobre 2023
La mia stagione teatrale 2023-2024 si apre con questo spettacolo di Giacomo Ciarrapico, Un giorno come un altro, messo in scena al teatro Sala Umberto con l'interpretazione dei bravissimi Carlo De Ruggieri (per me una conferma) e Luca Amorosino (una scoperta, invece).
Il testo scritto e diretto da Ciarrapico (uno degli autori, insieme a Luca Vendruscolo e al compianto e per me amatissimo Mattia Torre di Boris) racconta di un seggio elettorale dove si trovano fianco a fianco Ranuccio (Carlo De Ruggieri), un compassato ricercatore di storia, separato, con una figlia, e Marco Fioretti (Luca Amorosino), un romanaccio sgamato e un po' volgare, che vive grazie a un sito di scommesse.
Di fronte a un appuntamento come quello elettorale, che dovrebbe essere un momento importante per una democrazia in buona salute, i due uomini - diversissimi - si trovano completamente da soli. Le elezioni sono collocate vicine a una festività, e sia gli altri componenti del seggio che gli elettori hanno deciso di disertare la votazione e fare il "pontone".
La giornata infinita di Ranuccio e Marco diventa dunque l'occasione di un confronto tra due mondi, nonché della conoscenza reciproca che progressivamente e incredibilmente li avvicina. E così, mentre le vite di Ranuccio e Marco si srotolano davanti a noi, mostrando le loro crepe, di sottofondo ci rimane l'inquietudine e la tristezza di questo seggio vuoto; e se i destini individuali sono in qualche modo salvabili, quello della collettività è segnato dallo scollamento totale tra individuo e politica, e forse più in generale tra individuo e società.
Come ci si aspetta da uno spettacolo di Ciarrapico, nell'ora abbondante di Un giorno come un altro si ride molto (la scena clou è quella di De Ruggieri che si esibisce dal vivo in Ricominciamo di Adriano Pappalardo), ma di sottofondo non ci abbondona mai un senso di sconfitta, e il cinismo esibito da Marco ci fa paura per quanto ci appartiene.
Com'è proprio dei lavori di Ciarrapico (ma anche di Vendruscolo e Torre), si ride di gusto ma anche amaramente, e il sentimento riguarda i protagonisti ma anche noi stessi e tutto ciò che abbiamo intorno.
Uno spettacolo dunque gradevole e ben recitato, che però - devo ammettere - mi è sembrato non riuscire a mantenere la stessa intensità e ritmo per tutta la sua durata e soprattutto spegnersi in un finale oggettivamente un pochino sottotono.
Voto: 3/5
Il testo scritto e diretto da Ciarrapico (uno degli autori, insieme a Luca Vendruscolo e al compianto e per me amatissimo Mattia Torre di Boris) racconta di un seggio elettorale dove si trovano fianco a fianco Ranuccio (Carlo De Ruggieri), un compassato ricercatore di storia, separato, con una figlia, e Marco Fioretti (Luca Amorosino), un romanaccio sgamato e un po' volgare, che vive grazie a un sito di scommesse.
Di fronte a un appuntamento come quello elettorale, che dovrebbe essere un momento importante per una democrazia in buona salute, i due uomini - diversissimi - si trovano completamente da soli. Le elezioni sono collocate vicine a una festività, e sia gli altri componenti del seggio che gli elettori hanno deciso di disertare la votazione e fare il "pontone".
La giornata infinita di Ranuccio e Marco diventa dunque l'occasione di un confronto tra due mondi, nonché della conoscenza reciproca che progressivamente e incredibilmente li avvicina. E così, mentre le vite di Ranuccio e Marco si srotolano davanti a noi, mostrando le loro crepe, di sottofondo ci rimane l'inquietudine e la tristezza di questo seggio vuoto; e se i destini individuali sono in qualche modo salvabili, quello della collettività è segnato dallo scollamento totale tra individuo e politica, e forse più in generale tra individuo e società.
Come ci si aspetta da uno spettacolo di Ciarrapico, nell'ora abbondante di Un giorno come un altro si ride molto (la scena clou è quella di De Ruggieri che si esibisce dal vivo in Ricominciamo di Adriano Pappalardo), ma di sottofondo non ci abbondona mai un senso di sconfitta, e il cinismo esibito da Marco ci fa paura per quanto ci appartiene.
Com'è proprio dei lavori di Ciarrapico (ma anche di Vendruscolo e Torre), si ride di gusto ma anche amaramente, e il sentimento riguarda i protagonisti ma anche noi stessi e tutto ciò che abbiamo intorno.
Uno spettacolo dunque gradevole e ben recitato, che però - devo ammettere - mi è sembrato non riuscire a mantenere la stessa intensità e ritmo per tutta la sua durata e soprattutto spegnersi in un finale oggettivamente un pochino sottotono.
Voto: 3/5
lunedì 23 ottobre 2023
La Corsica, lentamente
La nostra vacanza estiva e di mare di quest'anno ha come destinazione la Corsica, un'isola che io non avevo mai visitato e che mi incuriosiva da tanto tempo. Prenotiamo parecchi mesi prima i biglietti del traghetto (di questo dirò qualcosa più avanti) e iniziamo da subito a leggere resoconti di viaggio di gente che in alcuni casi ha fatto il giro completo dell'isola in una settimana. Noi però decidiamo fin da subito che questa nostra vacanza sarà all'insegna della lentezza e del relax, e per questo dedichiamo le due settimane di permanenza a due sole aree dell'isola: Capo Corso la prima settimana, e, dopo una sosta di una notte a Corte, la zona dei calanchi e dei golfi occidentali la seconda settimana.
*********************
Capo Corso
Capo Corso è il dito dell'isola che punta verso nord, direzione Liguria. Noi alloggiamo sulla costa orientale, nell'interno di Sisco, in una casetta di pietra di un piccolo borgo tipico che ameremo moltissimo.
Appena arriviamo capiamo una prima cosa importante: i comuni di Capo Corso (e anche di altre parti dell'isola) sono in realtà la somma di tantissime frazioni (possono arrivare quasi a una ventina) e talvolta il nome del comune non coincide con quello di alcuna di queste frazioni. E già questo è strano e dice tanto di quel mondo piuttosto originale e incomprensibile che è la Corsica.
*******
Spiagge
Complice un certo fastidio che sto sviluppando negli ultimi tempi per blog di viaggi sempre più standardizzati che suggeriscono solo cose banali che stanno scritte in qualunque guida e che spacciano come scoperte incredibili cose che è impossibile mancare se si va in un certo posto, in questo mio resoconto (e in quelli futuri) mi limiterò a segnalare da un lato le cose che per me sono state notevoli e che valgono davvero la pena, e dall'altro quelle che invece sono perdibili, sorvolando o accennando rapidamente alle altre cose viste e fatte.
Per quanto riguarda le spiagge di Capo Corso, le più belle secondo me sono quelle che stanno tra Macinaggio e Barcaggio, e a cui si arriva a piedi facendo una tratta del sentiero dei doganieri. Noi lo abbiamo percorso da sud a nord, lasciando la macchina a Macinaggio e imboccando il sentiero al termine della spiaggia del paese. Il percorso è abbastanza agevole nella prima parte, sebbene sia quasi completamente privo di ombra e dunque d'estate risulta in ogni caso impegnativo, poi, nell'ultima parte, quella che sale sul promontorio da cui si vede la spiaggia di Barcaggio e l'isola della Giraglia, diventa anche abbastanza impegnativo per il fiato e per le gambe se non si è particolarmente abituati ai trekking.
Si tratta di un percorso che comunque merita un po' di fatica, e durante il quale si può godere di panorami mozzafiato, oltre che di soste in spiagge dall'acqua cristallina, la spiaggia di Tamarone, la plage des iles, cala genovese e cala dei francesi. Purtroppo noi da questo punto di vista siamo state particolarmente sfortunate, visto che nella giornata in cui ci siamo state l'acqua era straordinariamente trasparente ma anche piena di meduse, quindi ci siamo a malapena bagnate. Al paese di Barcaggio si arriva anche con la macchina da una strada interna della penisola di Capo Corso, ma direi che l'esperienza di arrivarci a piedi, e poi prendere il battellino San Paulu che riporta a Macinaggio è di quelle da non perdere.
Spiagge più facilmente raggiungibili, ma che abbiamo comunque apprezzato molto sono quella di Pietracorbara e la piccola spiaggetta di sassi sotto la scogliera dominata dalla Tour de l'osse (dove tra l'altro facciamo l'incontro più divertente del viaggio: tre ragazzotti forse belgi con il medesimo costume animalier e gli stessi capelli color platino). Bisogna fare un piccolissimo sentiero nella macchia mediterranea, però poi in spiaggia è un verso paradiso. C'è l'ombra naturale delle canne, un mare bello e due insenature molto affascinanti.
In generale, nel periodo in cui ci siamo state noi (il nostro viaggio si è svolto dal 21 agosto al 3 settembre) le spiagge non erano mai troppo affollate, non solo quelle dove ci siamo fermate ma anche le altre che abbiamo visto dalla strada.
Sulla costa ovest di Capo Corso abbiamo fatto un lungo giro in macchina, ma ci siamo fermate solo alla spiaggia del golfo di Aliso, dove abbiamo fatto un bellissimo bagno in una vera e proprio piscina naturale in uno scenario incantevole e con poca gente (sebbene ci fossero italiani insoddisfatti per la presenza delle pietre appena entrati in acqua). Anche la cittadina di Pino e le sue spiagge avrebbero meritato una sosta, ma per mancanza di tempo abbiamo dovuto proseguire per arrivare alla spiaggia nera di Nonza per l'ora del tramonto, che ci ha regalato un bel po' di bellissime foto dal belvedere sulla rocca (dove c'è il ristorante A sassa che tutte le guide consigliano, ma oltre a essere strapieno di gente, ci è sembrato sostanzialmente un posto da patiti di Instagram).
Non siamo propriamente a Capo Corso, ma poiché alle spiagge di Saleccia e Lotu ci si arriva da Saint Florent ne parlo qui. Noi abbiamo preso online i biglietti di Taxi beach che per fortuna scopriamo non essere Taxi plages, visto che quest'ultimo ha i gommoni in avaria e sta rimborsando i clienti. Da Saint Florent in 15 min si è a Lotu, una spiaggia paradisiaca, con la sabbia finissima e bianca e l'acqua di tutti gli azzurri, trasparentissima, oltre che un contesto bellissimo. La presenza di un molo abbastanza defilato fa sì che anche l'arrivo dei gommoni e dei barchini che portano i turisti non dia particolarmente fastidio. Da qui, dopo una sosta e un bagno, andiamo a piedi a Saleccia per il percorso interno che passa attraverso il deserto di Agriates. In 45 minuti siamo a Saleccia, più lunga ma meno profonda e con alle spalle dune coperte di pini marittimi. Acqua bellissima, ma per noi meno scenografica dell'altra. Ci fermiamo qui fino alle 19 quando arriva la navetta del ritorno. Il ragazzo che guida il gommone comincia a fare delle virate molto strette che fanno sollevare il gommone sui lati e in prossimità di Saint Florent ci intrattiene con manovre divertenti e che fanno un po' paura.
*******
Luoghi e altre cose notevoli
A Capo Corso ci sono molti posti carini da vedere, dove fare una passeggiata o dove fermarsi a prendere un aperitivo, e si tratta sia di paesini sul mare che di frazioni collocate nell'interno cui si arriva facendo stradine che si inerpicano su colline e montagne.
A noi sono piaciuti molto Erbalunga, con le sue case che si distribuiscono su un costone di roccia che si allunga nel mare, Porticello con la sua semplicità e il suo porticciolo invitante dove c'è sempre qualcuno che prende il sole sul muretto, alcuni paesini nell'interno di Sisco, in particolare Barrigioni (dove davanti a una casetta con la porta aperta che fa intravedere l'interno c'è un ragazzo che sembra scrivere un diario e una macchina giardinetta color carta da zucchero, tutto molto hipster) e, lungo la strada per Rogliano, Bettolacce e Olivo. L'interno tra l'altro è punteggiato di chiesette rurali (noi abbiamo visto quella di Santa Maria Maddalena in zona Barrigioni) e di conventi (alcuni dei quali abbandonati e semidistrutti, come quello di San Francesco, dalle parti di Olivo, da cui si vede anche il castello di San Colombano).
Proseguendo lungo la strada interna che porta dalla costa est a quella ovest, vale la pena una sosta al belvedere di Rogliano da cui si possono ammirare Barcaggio e l'isola della Giraglia, prima di arrivare in quel posto splendido che è Moulin Mattei, da cui si domina il panorama a 360 gradi vedendo il mare sia verso Porto Centuri sia verso la Giraglia e la costa est, come se fossimo davvero su un'isola.
Sulla costa ovest, lasciate perdere Porto Centuri che è decisamente più bella vista dall'alto, mentre ho già citato Pino e Nonza che sicuramente meritano una sosta, e devo dire che io avrei molto gradito fermarmi in zona Canari dove si incontra la grande fabbrica abbandonata di estrazione e lavorazione dell'amianto e un'altra spiaggia nera (grigia), quella di Albo.
La costa ovest di Capo Corso, che noi abbiamo visitato in un'unica giornata e dopo alcuni giri nell'interno, richiede sicuramente del tempo, anche perché la strada che la costeggia è tutta strada di corniche e dunque si deve prestare attenzione e non si può andare particolarmente veloci.
Merita una visita anche Saint Florent, cittadina vivace e parecchio turistica, ma la zona dei "carruggi" e della cittadella è suggestiva sia vista da lontano che passeggiandoci in mezzo. Da qui, se si ha tempo, può valere la pena anche fare il percorso in macchina attraverso il deserto delle Agriates, ma non vi aspettate dune di sabbia e scarsa vegetazione: anche nella zona disabitata si tratta di un deserto anomalo fatto di rocce e vegetazione bassa ma diffusa.
*********************
Corte
Nel nostro itinerario corso abbiamo deciso di inserire una breve tappa a Corte per poter apprezzare sia la cittadina sia l'interno dell'isola. La cittadina merita una passeggiata nei suoi vicoli un po' sgarrupati ma anche affascinanti, oltre a quella che porta al belvedere da cui ammirare la cittadella e il castello costruiti su uno sperone di roccia aggettante (che mi ha ricordato molto Roccascalegna in Abruzzo), che qui chiamano "nido d'aquila".
Quando mancano circa 5 km al parcheggio finale all'altezza di un ponte e di un ristorante decidiamo di fermarci e scendiamo al fiume per fare il bagno nell'acqua gelida, in cui non ci immergiamo davvero del tutto. Camminiamo un po' sui grandi massi, facciamo foto e quando il sole non riesce più a filtrare in basso ce ne andiamo sperando che non salga più nessuno in macchina (considerato anche che sono quasi le 19), perché in discesa stando dalla parte del burrone non deve essere una bella sensazione passare in due. Per fortuna per noi la strada è libera e torniamo indietro col nostro ritmo e senza eccessivi patemi.
*********************
La costa ovest e la zona dei Calanchi
Nella seconda settimana della nostra permanenza in Corsica siamo di stanza nella zona di Calcatoggio, a nord di Ajaccio e un po' più a sud della zona dei Calanchi. Abbiamo una casetta con uno spazio esterno enorme e un panorama sul golfo davvero da urlo (panorama che io ho fotografato in tutte le situazioni atmosferiche). Questa parte della Corsica è altrettanto bella di quella dalla quale veniamo, ma ricordatevi che qui non contano le distanze in km tra i posti, bensì le distanze in tempo di percorrenza, che dipende da quante curve ha la strada e da quanto è stretta. Detto ciò questa zona è davvero imperdibile.
*******
Spiagge
Anche da questa parte dell'isola ci sono spiagge bellissime e ce ne sono talmente tante che non farete fatica a trovare quella che più si adatta a voi. Non ho detto prima che in Corsica le spiagge sono praticamente tutte libere da lidi e aree attrezzate. Se ci sono delle parti attrezzate occupano parti piccole della spiaggia al punto che quasi non si notano. In molte spiagge ci sono invece noleggi di canoe, SUP e altro per fare dei giri in mare.
Va detto che sulla costa ovest - esattamente come accade in Sardegna - il mare è più "aperto" e dunque può capitare più frequentemente che sia agitato e, quando lo è, fa un po' paura (in alcuni casi, come dicono le guide, è anche pericoloso a causa delle correnti). Noi nello specifico abbiamo avuto tre giorni di maltempo in cui il mare era improponibile e abbiamo approfittato per fare dei giri nell'interno o anche semplicemente per riposarci.
La prima spiaggia che mi sento di segnalare è quella di Arone, che sta dopo Piana prendendo una stupenda strada che passa in mezzo alla penisola di Capo Rosso e da cui si gode di un meraviglioso panorama, da Scandola fino ad Arone. La spiaggia è molto bella sia come contesto che come mare: noi la vediamo in un giorno di cielo coperto e bianco che quasi si confonde con il mare ma la apprezziamo molto lo stesso.
Di spiagge belle lungo la strada che va da Ajaccio a Cargese ce ne sono numerose: noi nei giorni di bel tempo (invero pochi) ne scegliamo due, entrambe consigliate: la spiaggia di Chiuni, dove c'è vento e non c'è bisogno di montare la tenda, c'è un fiume che scende dalle montagne retrostanti (come spesso accade in Corsica) e l'acqua è molto pulita; e la spiaggia di Menasina, che sta sotto la scogliera prima di Cargese, cui si arriva dalla strada con una passeggiata di 15 minuti circa e che offre anche l'occasione di esplorare piccole calette che si susseguono all'interno del medesimo golfo.
Non posso non menzionare qui anche la spiaggia del Liamone, dove non abbiamo fatto il bagno, ma che abbiamo potuto ammirare e fotografare con il mare agitato, dove sembrava davvero di stare in una delle grandi spiagge atlantiche. Colpo d'occhio bellissimo.
*******
Luoghi e altre cose notevoli
Innanzitutto segnalo la strada di montagna percorsa per arrivare da Corte a Cargese, passando per Calacuccia e superando i passi di Verghjia e Evisa. Vera e propria strada di montagna che attraversa i boschi in cui sono tantissimi i sentieri per gli appassionati di trekking.
In questa zona è ovviamente imperdibile la strada dei calanchi, in particolare nel pezzo che unisce Porto a Piana, dove ci sono rocce rosse spettacolari e scorci stupendi. Noi abbiamo fatto anche la parte della strada che prosegue dopo Porto fino a Partinello: molto bella anche questa e sicuramente meno affollata, permette di vedere i calanchi dalla prospettiva opposta.
Tappa imperdibile in zona Ajaccio sono le Iles sanguinaires, che sono delle isolette, praticamente degli scogli, al largo della punta della Parata. Noi le vediamo una prima volta da lontano con il mare in tempesta e la pioggia, ma decidiamo di non incamminarci fino alla punta anche perché non siamo attrezzate (anche se sono sicura che sarebbe stato uno spettacolo notevole), e una seconda volta al tramonto, al termine di una giornata piuttosto limpida. Dopo il breve sentiero a piedi ci sediamo insieme a molte altre persone sulle rocce della punta della Parata e ci godiamo tutto il tramonto, fino a quando il sole sprofonda nell'acqua. Poi ci incamminiamo sul sentiero che aggira il promontorio dall'altro lato e possiamo ammirare il mare e il paesaggio (il punto dell'istmo che unisce punta della parata al resto della penisola è molto bello) al crepuscolo e alla cosiddetta ora blu. Tra l'altro quella stessa sera abbiamo la fortuna di vedere sorgere una luna piena enorme e rossastra sul golfo di Ajaccio, che è uno spettacolo altrettanto strepitoso.
Un altro tramonto molto bello che consiglio è quello che si può ammirare da Cargese (esattamente dal parcheggio poco fuori dal centro) verso il golfo di Pero.
Vale la pena anche la gita nell'interno che facciamo un giorno in cui il tempo ancora non invita alla spiaggia. Il nostro obiettivo è il paesino semiabbandonato di Muna, ma per arrivarci passiamo per Vico, poi per il convento di San Francesco, per Murzo, quindi imbocchiamo una lunghissima strada di montagna sempre più piccola e stretta, che in alcuni punti si affaccia su gole profondissime, come all'altezza della boucle du Liamone, dove il fiume ha scavato la montagna e fa un'ansa impressionante prima di riprendere il suo percorso verso il mare. La visita al paesino di Muna, con le sue case in parte ristrutturate e semiabitate, in parte diroccate, è molto bella, anche se mentre saliamo e poi scendiamo per la stradina di pietra che risale il paesino lungo il costone della montagna, ci chiediamo come si faccia a vivere in un posto così. Proseguendo dopo Muna passiamo per un certo numero di paesini più o meno sperduti (Salice, Azzana, Lopigna, Arro e Ambiegna) costeggiando spesso il corso del fiume Liamone e, dopo ennemila curve, siamo finalmente al mare proprio all'altezza della spiaggia del Liamone.
Della città di Ajaccio, la capitale meridionale della Corsica, non serbiamo un ricordo particolarmente entusiasmante. Va detto che l'abbiamo visitata in una giornata di pioggia, e dunque non abbiamo potuto goderci la passeggiata nelle sue stradine sul porto. Ci ha dato l'impressione di una cittadina di mare non particolarmente elegante, ma con tutti i servizi. Noi, considerata la pioggia, abbiamo approfittato per una visita in libreria (dove ho comprato l'ultimo giallo della Vargas non ancora uscito in Italia) e al Museo Fesch, che prende il nome dal cardinale collezionista di arte, nonché zio di Napoleone Bonaparte. Sono quattro piani di arte - dipinti e qualche scultura - dal rinascimento all'ottocento. Pochi pezzi davvero rilevanti, ma nel complesso molto gradevole. C'è anche una mostra su Plon Plon ossia Napoleone Giuseppe Carlo Paolo Bonaparte, nipote del più famoso Napoleone I. E del resto ad Ajaccio - e un po' in generale in Corsica - tutto ruota attorno a Napoleone.
Bastia - dove ci fermiamo una notte prima di riprendere il traghetto - ci appare molto più elegante, quasi radical chic, cosa che in questo caso ci colpisce favorevolmente. Bella la cittadella, nelle cui strade ci perdiamo molto volentieri e da cui si ammirano stupendi panorami, bella la zona del porto e tutte le stradine che vi arrivano, belle anche le strade dello shopping e le grandi piazze. Per noi Bastia vince su Ajaccio. Non lontano da Bastia verso l'interno suggeriamo una visita alla chiesa in stile pisano di San Michele a Murato, una esperienza quasi destabilizzante, ma anche affascinante.
*********************
Il cibo
Ce lo avevano detto diversi amici, ma personalmente non ci volevo credere: in Corsica non si mangia particolarmente bene. Dopo qualche esperienza non felicissima passa la voglia di mangiare fuori e anche di comprare i loro prodotti tipici (i salumi e i formaggi). La loro è una cucina che vuole prendere le distanze sia da quella francese che da quella italiana, ma alla fine risulta una cattiva imitazione di entrambe e non particolarmente raffinata (cosa che si potrebbe dire anche della lingua corsa, una specie di mix di dialetti del centro Italia).
Ciò detto, per fortuna ci sono le boulangerie, soprattutto quelle di verace ispirazione francese. Nel nostro viaggio ne abbiamo sperimentate numerose (io ho una specie di ossessione per la viennoiserie francese e S. una ossessione per le baguette). Da questa nostra ricerca vi segnaliamo tre ottimi posti: la boulangerie Straboni a Marina di Sisco (croissant e similari eccellenti), L'artisan dessert nella periferia di Ajaccio (vincitrice di numerosi premi) e boulangerie Galeani nel pieno centro di Ajaccio.
Cene e aperitivi fuori ne abbiamo fatti pochissimi, visto che rapidamente ci siamo rese conto che non ne valeva particolarmente la pena. Abbiamo preso un discreto aperitivo a U scalu, nella piazzetta di Erbalunga, volevamo fermarci un paio di volte da Apperitivu, un camioncino che allestisce dei tavolini in uno slargo sulla strada con vista sugli stagni di Biguglia, ma entrambe le volte era chiuso. Abbiamo cenato una volta da Le Farniente alla Marine de negru (baia bellissima, cibo buono ma non memorabile), una volta al bistrot A piazzetta a Erbalunga, un'ultima volta a L'ardoise nella bellissima piazza del mercato di Bastia (location fantastica, cibo anche qui non memorabile).
Insomma la migliore cena fuori è stata la pizza napoletana della pizzeria Napul'è di Ajaccio. Io sono una che all'estero non va mai a mangiare la pizza o nei finti ristoranti italiani, ma qui lo abbiamo davvero voluto e non ce ne siamo pentite.
*********************
Qualche considerazione finale
La Corsica è un'isola bellissima e che vale la pena gustarsi con lentezza. Sono dunque contentissima di aver scelto di non fare il tour completo in due settimane, perché non avrei probabilmente apprezzato abbastanza questi paesaggi. Per quanto mi riguarda conto di tornarci e di esplorare zone cui in questo primo giro abbiamo deciso di rinunciare.
Poi ci sono un po' di note diciamo di colore, che mi limito a richiamare dichiarando fin d'ora che ovviamente non pretendo di aver capito alcunché di questa terra e di questo popolo, e anzi con l'intento di far passare l'idea che la realtà corsa è molto più complessa di quello che appare (e in questo è stata molto interessante la lettura di Le temps est assassin di Michel Bussi che mi ha accompagnata nella seconda settimana della vacanza).
Già ho detto del cibo e della lingua. Dalla Corsica ci siamo portate in Italia solo alcuni prodotti francesi, e anche trovare qualche souvenirs da regalare agli amici è stato difficile se non impossibile.
Aggiungo che i corsi guidano abbastanza come dei pazzi e che in particolare con le macchine dei turisti sono totalmente impazienti, cosa che capisco ma fino a un certo punto viste le strade che si ritrovano. In generale non mi sono sembrati del tutto accoglienti, in primis nei confronti dei francesi, ma in generale verso i turisti. Ovunque ci sono scritte nazionaliste e indipendentiste, frutto di una storia di rapporti complessi con la Francia; dall'esterno appare tutto piuttosto insensato, e probabilmente queste frange rappresentano solo una piccola parte dei corsi, però non c'è dubbio che la questione esista visto che i morti nel tempo e anche recenti non sono pochi.
Infine, Corsica Ferries - che però è gestita da italiani - è abbastanza un incubo. I traghetti vengono spostati di orario (e sembra in alcuni casi anche di giorno) all'ultimo minuto costringendo a cambiare programmi in maniera repentina. A noi gli orari sono cambiati anche più volte sia per il viaggio di andata che di ritorno, per fortuna senza grandi conseguenze organizzative, ma la cosa è abbastanza assurda. All'interno, i traghetti sono discreti, ma - come spesso accade nei viaggi in traghetto, soprattutto quando si cerca di riempirli fino all'orlo - le fasi di imbarco e di sbarco sono abbastanza un delirio. D'altra parte da Livorno a Bastia in traghetto sono solo quattro ore e questo li rende il mezzo migliore per raggiungere la Corsica.
Insomma, nonostante tutto, prima o poi voglio ritornare in questa bizzarra isola.
********************************
Per una selezione più ampia di foto del viaggio in Corsica si veda qui sul mio profilo Behance.
Erbalunga |
Capo Corso
Capo Corso è il dito dell'isola che punta verso nord, direzione Liguria. Noi alloggiamo sulla costa orientale, nell'interno di Sisco, in una casetta di pietra di un piccolo borgo tipico che ameremo moltissimo.
Appena arriviamo capiamo una prima cosa importante: i comuni di Capo Corso (e anche di altre parti dell'isola) sono in realtà la somma di tantissime frazioni (possono arrivare quasi a una ventina) e talvolta il nome del comune non coincide con quello di alcuna di queste frazioni. E già questo è strano e dice tanto di quel mondo piuttosto originale e incomprensibile che è la Corsica.
Sul sentiero verso Barcaggio |
*******
Spiagge
Complice un certo fastidio che sto sviluppando negli ultimi tempi per blog di viaggi sempre più standardizzati che suggeriscono solo cose banali che stanno scritte in qualunque guida e che spacciano come scoperte incredibili cose che è impossibile mancare se si va in un certo posto, in questo mio resoconto (e in quelli futuri) mi limiterò a segnalare da un lato le cose che per me sono state notevoli e che valgono davvero la pena, e dall'altro quelle che invece sono perdibili, sorvolando o accennando rapidamente alle altre cose viste e fatte.
Sulla spiaggia di Macinaggio |
Sul battellino San Paulu |
Alla spiaggia sotto la Tour de l'osse |
In generale, nel periodo in cui ci siamo state noi (il nostro viaggio si è svolto dal 21 agosto al 3 settembre) le spiagge non erano mai troppo affollate, non solo quelle dove ci siamo fermate ma anche le altre che abbiamo visto dalla strada.
Il panorama da Nonza al tramonto |
Spiaggia di Saleccia |
Erbalunga |
Luoghi e altre cose notevoli
A Capo Corso ci sono molti posti carini da vedere, dove fare una passeggiata o dove fermarsi a prendere un aperitivo, e si tratta sia di paesini sul mare che di frazioni collocate nell'interno cui si arriva facendo stradine che si inerpicano su colline e montagne.
A noi sono piaciuti molto Erbalunga, con le sue case che si distribuiscono su un costone di roccia che si allunga nel mare, Porticello con la sua semplicità e il suo porticciolo invitante dove c'è sempre qualcuno che prende il sole sul muretto, alcuni paesini nell'interno di Sisco, in particolare Barrigioni (dove davanti a una casetta con la porta aperta che fa intravedere l'interno c'è un ragazzo che sembra scrivere un diario e una macchina giardinetta color carta da zucchero, tutto molto hipster) e, lungo la strada per Rogliano, Bettolacce e Olivo. L'interno tra l'altro è punteggiato di chiesette rurali (noi abbiamo visto quella di Santa Maria Maddalena in zona Barrigioni) e di conventi (alcuni dei quali abbandonati e semidistrutti, come quello di San Francesco, dalle parti di Olivo, da cui si vede anche il castello di San Colombano).
Il panorama da Moulin Mattei |
Sulla costa ovest, lasciate perdere Porto Centuri che è decisamente più bella vista dall'alto, mentre ho già citato Pino e Nonza che sicuramente meritano una sosta, e devo dire che io avrei molto gradito fermarmi in zona Canari dove si incontra la grande fabbrica abbandonata di estrazione e lavorazione dell'amianto e un'altra spiaggia nera (grigia), quella di Albo.
Saint Florent |
Merita una visita anche Saint Florent, cittadina vivace e parecchio turistica, ma la zona dei "carruggi" e della cittadella è suggestiva sia vista da lontano che passeggiandoci in mezzo. Da qui, se si ha tempo, può valere la pena anche fare il percorso in macchina attraverso il deserto delle Agriates, ma non vi aspettate dune di sabbia e scarsa vegetazione: anche nella zona disabitata si tratta di un deserto anomalo fatto di rocce e vegetazione bassa ma diffusa.
Il castello di Corte |
Corte
Nel nostro itinerario corso abbiamo deciso di inserire una breve tappa a Corte per poter apprezzare sia la cittadina sia l'interno dell'isola. La cittadina merita una passeggiata nei suoi vicoli un po' sgarrupati ma anche affascinanti, oltre a quella che porta al belvedere da cui ammirare la cittadella e il castello costruiti su uno sperone di roccia aggettante (che mi ha ricordato molto Roccascalegna in Abruzzo), che qui chiamano "nido d'aquila".
Non ci siamo fatte mancare un bagno alle Gole della Restonica. Quando si imbocca la strada che costeggia la gola, fin dai primi chilometri ci sono persone che fanno il bagno nel fiume, ma noi andiamo avanti e ci inerpichiamo in macchina su per la stradina che in alcuni periodi è a numero chiuso, stradina che si fa sempre più stretta e che non ha guardrail, infilata tra la parete di roccia e lo strapiombo dove passa il fiume. Fa parecchio paura ma noi per fortuna siamo nella parte interna.
Alle gole della Restonica |
*********************
La costa ovest e la zona dei Calanchi
Nella seconda settimana della nostra permanenza in Corsica siamo di stanza nella zona di Calcatoggio, a nord di Ajaccio e un po' più a sud della zona dei Calanchi. Abbiamo una casetta con uno spazio esterno enorme e un panorama sul golfo davvero da urlo (panorama che io ho fotografato in tutte le situazioni atmosferiche). Questa parte della Corsica è altrettanto bella di quella dalla quale veniamo, ma ricordatevi che qui non contano le distanze in km tra i posti, bensì le distanze in tempo di percorrenza, che dipende da quante curve ha la strada e da quanto è stretta. Detto ciò questa zona è davvero imperdibile.
Spiaggia di Arone |
Spiagge
Anche da questa parte dell'isola ci sono spiagge bellissime e ce ne sono talmente tante che non farete fatica a trovare quella che più si adatta a voi. Non ho detto prima che in Corsica le spiagge sono praticamente tutte libere da lidi e aree attrezzate. Se ci sono delle parti attrezzate occupano parti piccole della spiaggia al punto che quasi non si notano. In molte spiagge ci sono invece noleggi di canoe, SUP e altro per fare dei giri in mare.
Va detto che sulla costa ovest - esattamente come accade in Sardegna - il mare è più "aperto" e dunque può capitare più frequentemente che sia agitato e, quando lo è, fa un po' paura (in alcuni casi, come dicono le guide, è anche pericoloso a causa delle correnti). Noi nello specifico abbiamo avuto tre giorni di maltempo in cui il mare era improponibile e abbiamo approfittato per fare dei giri nell'interno o anche semplicemente per riposarci.
Spiaggia del Liamone |
Di spiagge belle lungo la strada che va da Ajaccio a Cargese ce ne sono numerose: noi nei giorni di bel tempo (invero pochi) ne scegliamo due, entrambe consigliate: la spiaggia di Chiuni, dove c'è vento e non c'è bisogno di montare la tenda, c'è un fiume che scende dalle montagne retrostanti (come spesso accade in Corsica) e l'acqua è molto pulita; e la spiaggia di Menasina, che sta sotto la scogliera prima di Cargese, cui si arriva dalla strada con una passeggiata di 15 minuti circa e che offre anche l'occasione di esplorare piccole calette che si susseguono all'interno del medesimo golfo.
I calanchi di Piana |
*******
Luoghi e altre cose notevoli
Innanzitutto segnalo la strada di montagna percorsa per arrivare da Corte a Cargese, passando per Calacuccia e superando i passi di Verghjia e Evisa. Vera e propria strada di montagna che attraversa i boschi in cui sono tantissimi i sentieri per gli appassionati di trekking.
In questa zona è ovviamente imperdibile la strada dei calanchi, in particolare nel pezzo che unisce Porto a Piana, dove ci sono rocce rosse spettacolari e scorci stupendi. Noi abbiamo fatto anche la parte della strada che prosegue dopo Porto fino a Partinello: molto bella anche questa e sicuramente meno affollata, permette di vedere i calanchi dalla prospettiva opposta.
Tramonto alle Iles sanguinaires |
Tramonto da Cargese |
Vale la pena anche la gita nell'interno che facciamo un giorno in cui il tempo ancora non invita alla spiaggia. Il nostro obiettivo è il paesino semiabbandonato di Muna, ma per arrivarci passiamo per Vico, poi per il convento di San Francesco, per Murzo, quindi imbocchiamo una lunghissima strada di montagna sempre più piccola e stretta, che in alcuni punti si affaccia su gole profondissime, come all'altezza della boucle du Liamone, dove il fiume ha scavato la montagna e fa un'ansa impressionante prima di riprendere il suo percorso verso il mare. La visita al paesino di Muna, con le sue case in parte ristrutturate e semiabitate, in parte diroccate, è molto bella, anche se mentre saliamo e poi scendiamo per la stradina di pietra che risale il paesino lungo il costone della montagna, ci chiediamo come si faccia a vivere in un posto così. Proseguendo dopo Muna passiamo per un certo numero di paesini più o meno sperduti (Salice, Azzana, Lopigna, Arro e Ambiegna) costeggiando spesso il corso del fiume Liamone e, dopo ennemila curve, siamo finalmente al mare proprio all'altezza della spiaggia del Liamone.
Museo Fesch ad Ajaccio |
Al porto di Bastia |
*********************
Il cibo
Nell'interno di Capo Corso |
Ciò detto, per fortuna ci sono le boulangerie, soprattutto quelle di verace ispirazione francese. Nel nostro viaggio ne abbiamo sperimentate numerose (io ho una specie di ossessione per la viennoiserie francese e S. una ossessione per le baguette). Da questa nostra ricerca vi segnaliamo tre ottimi posti: la boulangerie Straboni a Marina di Sisco (croissant e similari eccellenti), L'artisan dessert nella periferia di Ajaccio (vincitrice di numerosi premi) e boulangerie Galeani nel pieno centro di Ajaccio.
Nelle stradine del centro storico di Bastia |
Insomma la migliore cena fuori è stata la pizza napoletana della pizzeria Napul'è di Ajaccio. Io sono una che all'estero non va mai a mangiare la pizza o nei finti ristoranti italiani, ma qui lo abbiamo davvero voluto e non ce ne siamo pentite.
Tramonto sulla costa ovest |
Qualche considerazione finale
La Corsica è un'isola bellissima e che vale la pena gustarsi con lentezza. Sono dunque contentissima di aver scelto di non fare il tour completo in due settimane, perché non avrei probabilmente apprezzato abbastanza questi paesaggi. Per quanto mi riguarda conto di tornarci e di esplorare zone cui in questo primo giro abbiamo deciso di rinunciare.
Poi ci sono un po' di note diciamo di colore, che mi limito a richiamare dichiarando fin d'ora che ovviamente non pretendo di aver capito alcunché di questa terra e di questo popolo, e anzi con l'intento di far passare l'idea che la realtà corsa è molto più complessa di quello che appare (e in questo è stata molto interessante la lettura di Le temps est assassin di Michel Bussi che mi ha accompagnata nella seconda settimana della vacanza).
San Michele a Murato |
Aggiungo che i corsi guidano abbastanza come dei pazzi e che in particolare con le macchine dei turisti sono totalmente impazienti, cosa che capisco ma fino a un certo punto viste le strade che si ritrovano. In generale non mi sono sembrati del tutto accoglienti, in primis nei confronti dei francesi, ma in generale verso i turisti. Ovunque ci sono scritte nazionaliste e indipendentiste, frutto di una storia di rapporti complessi con la Francia; dall'esterno appare tutto piuttosto insensato, e probabilmente queste frange rappresentano solo una piccola parte dei corsi, però non c'è dubbio che la questione esista visto che i morti nel tempo e anche recenti non sono pochi.
Sul traghetto |
Insomma, nonostante tutto, prima o poi voglio ritornare in questa bizzarra isola.
********************************
Per una selezione più ampia di foto del viaggio in Corsica si veda qui sul mio profilo Behance.
venerdì 20 ottobre 2023
Frammenti di un percorso amoroso
Quello di Chloè Barreau è un film documentario sorprendente da molteplici punti di vista e che merita di restare in sala e di essere visto da tante persone (cosa che sta già avvenendo, anche grazie al passaparola).
La regista parigina, ma ormai romana d'adozione, ci propone il risultato di un'operazione ardita: raccontare l'amore in forma di documentario attraverso la propria esperienza personale, ricostruita mediante fotografie e filmati privati da lei stessa realizzati nel corso del tempo e delle interviste a dodici persone con cui ha avuto una relazione amorosa e che hanno risposto al suo invito.
I filmati e le fotografie sono il frutto dell'ossessione personale che la Barreau ci dice di avere fin dall'adolescenza, ossia quella di documentare la propria vita e di fissarne i momenti, non tanto e non solo quelli oggettivamente importanti (tutti quella della mia e anche sua generazione hanno dei filmati di occasioni particolari), ma anche e soprattutto momenti ordinari della vita di tutti i giorni.
Le interviste sono invece state affidate a una terza persona affinché gli intervistati e le intervistate si sentissero più liberi di parlare, e la loro "testimonianza" diventasse un racconto in terza persona, e non un dialogo, in una sorta di storicizzazione degli eventi.
Questi due elementi costitutivi del film si fondono attraverso un montaggio pregevole, che utilizza anche riprese - invero quasi fermi immagine - di interni ed esterni che contestualizzano il racconto degli eventi, e che personalmente ho trovato compositivamente ed esteticamente di grandissima efficacia e valore.
Alla pregevolezza tecnica si affianca poi l'ardire dell'idea e della sua trattazione. Quello della Barreau è un vero e proprio romanzo di formazione sentimentale, ma non strettamente autobiografico. La propria vita sentimentale diventa oggetto di narrazione da parte di altri, e la protagonista - che è il fil rouge di tutti questi racconti - non compare mai in video, se non fugacemente in qualche filmato del passato.
C'è evidentemente una componente narcisistica e un'ambizione più o meno consciamente seduttiva in questa operazione, forse già intuibile nell'ossessione della regista di filmare sé stessa, il proprio mondo e la propria quotidianità, in un'epoca in cui i social ancora non esistevano e il filmare o fotografare la propria vita erano limitati a specifici momenti e restavano un fatto puramente privato. In un certo senso la Barreau reinterpreta il suo lavoro di documentazione in chiave contemporanea, facendone uno strumento narrativo che va ben al di là della sua cerchia privata. Come dice qualcuno degli intervistati, Chloè probabilmente ha sempre voluto fare della sua stessa vita la propria "opera d'arte", cosa che - fatte le dovute differenze - è ormai un trend diffuso e una strada resa possibile dai social.
Questa premessa per dire che in realtà l'operazione della Barreau è molto più raffinata e ambiziosa di così; come ha detto qualcuno del pubblico, è una scelta anche coraggiosa quella di offrirsi come oggetto del racconto per parlare e riflettere di amore e percorsi sentimentali, che vanno ben al di là dell'esperienza specifica della regista. E così man mano che il documentario procede ci sentiamo sempre più chiamati in causa - ognuno probabilmente per aspetti diversi -; le storie di Chloè finiscono per rispecchiare alcune delle storie che abbiamo vissuto, e alcuni dei pensieri che vengono espressi dagli intervistati li sentiamo come nostri.
Perché dentro il film della Barreau c'è innanzitutto l'evoluzione naturale di un percorso amoroso: dalla leggerezza, la confusione, la libertà, la superficialità degli amori adolescenziali e di gioventù - quelli in cui si sperimenta, si gode appieno della novità, ci si butta a capofitto, si insegue un'idea forse solo teorica di amore - alla crescente consapevolezza che la maturità porta con sé in merito all'amore - ossia l'idea che non se può fare a meno, ma che esso nel tempo reitera alcuni andamenti e porta con sé inevitabili rischi che ciascuno deve trovare il proprio modo di affrontare. Non secondaria è poi la rappresentazione a 360° che il documentario propone delle relazioni amorose, portando all'attenzione dello spettatore - con delicatezza e profondità - l'idea che - sebbene la relazione amorosa spesso ripeta dei percorsi e degli schemi - non esiste invece un'unica traccia, un oggetto predeterminato, una durata prevedibile e prestabilita, né tappe obbligate da seguire. Le nostre storie d'amore sono parte determinante del nostro bagaglio emozionale e della nostra crescita individuale, e non saremmo gli stessi senza i più o meno numerosi percorsi amorosi intrapresi, con tutto quello che ciascuno di essi ha comportato.
A conferma del fatto che la grande storia d'amore, quella scritta nel nostro destino, non esiste ed è una costruzione sociale che ha fatto un sacco di danni; ci sono però le storie d'amore in cui tutti ci muoviamo con fatica e difficoltà, tra entusiasmi ed errori, ma che ci trasformano a poco a poco in quello che siamo e che diventiamo.
In questo senso, il documentario della Barreau è anche un film sulla memoria e sul tempo che passa: la memoria è lo strumento che tiene vivo il passato, ma che in fondo lo ricostruisce e lo rinnova, diventando dunque anche un'arma potente per combatterne il suo procedere inesorabile. Di solito il desiderio di ricostruire il proprio passato appartiene a una fase più avanzata della propria vita; la Barreau lo fa se vogliamo precocemente, anzi forse lo fa - più o meno consapevolmente - da tutta la vita.
Voto: 4/5
La regista parigina, ma ormai romana d'adozione, ci propone il risultato di un'operazione ardita: raccontare l'amore in forma di documentario attraverso la propria esperienza personale, ricostruita mediante fotografie e filmati privati da lei stessa realizzati nel corso del tempo e delle interviste a dodici persone con cui ha avuto una relazione amorosa e che hanno risposto al suo invito.
I filmati e le fotografie sono il frutto dell'ossessione personale che la Barreau ci dice di avere fin dall'adolescenza, ossia quella di documentare la propria vita e di fissarne i momenti, non tanto e non solo quelli oggettivamente importanti (tutti quella della mia e anche sua generazione hanno dei filmati di occasioni particolari), ma anche e soprattutto momenti ordinari della vita di tutti i giorni.
Le interviste sono invece state affidate a una terza persona affinché gli intervistati e le intervistate si sentissero più liberi di parlare, e la loro "testimonianza" diventasse un racconto in terza persona, e non un dialogo, in una sorta di storicizzazione degli eventi.
Questi due elementi costitutivi del film si fondono attraverso un montaggio pregevole, che utilizza anche riprese - invero quasi fermi immagine - di interni ed esterni che contestualizzano il racconto degli eventi, e che personalmente ho trovato compositivamente ed esteticamente di grandissima efficacia e valore.
Alla pregevolezza tecnica si affianca poi l'ardire dell'idea e della sua trattazione. Quello della Barreau è un vero e proprio romanzo di formazione sentimentale, ma non strettamente autobiografico. La propria vita sentimentale diventa oggetto di narrazione da parte di altri, e la protagonista - che è il fil rouge di tutti questi racconti - non compare mai in video, se non fugacemente in qualche filmato del passato.
C'è evidentemente una componente narcisistica e un'ambizione più o meno consciamente seduttiva in questa operazione, forse già intuibile nell'ossessione della regista di filmare sé stessa, il proprio mondo e la propria quotidianità, in un'epoca in cui i social ancora non esistevano e il filmare o fotografare la propria vita erano limitati a specifici momenti e restavano un fatto puramente privato. In un certo senso la Barreau reinterpreta il suo lavoro di documentazione in chiave contemporanea, facendone uno strumento narrativo che va ben al di là della sua cerchia privata. Come dice qualcuno degli intervistati, Chloè probabilmente ha sempre voluto fare della sua stessa vita la propria "opera d'arte", cosa che - fatte le dovute differenze - è ormai un trend diffuso e una strada resa possibile dai social.
Questa premessa per dire che in realtà l'operazione della Barreau è molto più raffinata e ambiziosa di così; come ha detto qualcuno del pubblico, è una scelta anche coraggiosa quella di offrirsi come oggetto del racconto per parlare e riflettere di amore e percorsi sentimentali, che vanno ben al di là dell'esperienza specifica della regista. E così man mano che il documentario procede ci sentiamo sempre più chiamati in causa - ognuno probabilmente per aspetti diversi -; le storie di Chloè finiscono per rispecchiare alcune delle storie che abbiamo vissuto, e alcuni dei pensieri che vengono espressi dagli intervistati li sentiamo come nostri.
Perché dentro il film della Barreau c'è innanzitutto l'evoluzione naturale di un percorso amoroso: dalla leggerezza, la confusione, la libertà, la superficialità degli amori adolescenziali e di gioventù - quelli in cui si sperimenta, si gode appieno della novità, ci si butta a capofitto, si insegue un'idea forse solo teorica di amore - alla crescente consapevolezza che la maturità porta con sé in merito all'amore - ossia l'idea che non se può fare a meno, ma che esso nel tempo reitera alcuni andamenti e porta con sé inevitabili rischi che ciascuno deve trovare il proprio modo di affrontare. Non secondaria è poi la rappresentazione a 360° che il documentario propone delle relazioni amorose, portando all'attenzione dello spettatore - con delicatezza e profondità - l'idea che - sebbene la relazione amorosa spesso ripeta dei percorsi e degli schemi - non esiste invece un'unica traccia, un oggetto predeterminato, una durata prevedibile e prestabilita, né tappe obbligate da seguire. Le nostre storie d'amore sono parte determinante del nostro bagaglio emozionale e della nostra crescita individuale, e non saremmo gli stessi senza i più o meno numerosi percorsi amorosi intrapresi, con tutto quello che ciascuno di essi ha comportato.
A conferma del fatto che la grande storia d'amore, quella scritta nel nostro destino, non esiste ed è una costruzione sociale che ha fatto un sacco di danni; ci sono però le storie d'amore in cui tutti ci muoviamo con fatica e difficoltà, tra entusiasmi ed errori, ma che ci trasformano a poco a poco in quello che siamo e che diventiamo.
In questo senso, il documentario della Barreau è anche un film sulla memoria e sul tempo che passa: la memoria è lo strumento che tiene vivo il passato, ma che in fondo lo ricostruisce e lo rinnova, diventando dunque anche un'arma potente per combatterne il suo procedere inesorabile. Di solito il desiderio di ricostruire il proprio passato appartiene a una fase più avanzata della propria vita; la Barreau lo fa se vogliamo precocemente, anzi forse lo fa - più o meno consapevolmente - da tutta la vita.
Voto: 4/5
mercoledì 18 ottobre 2023
Hit Man
Richard Linklater è un regista imprevedibile, capace di passare con nonchalance da film che indagano con finezza e senza retorica sui sentimenti (che poi sono i miei preferiti della sua filmografia) a film divertiti e divertenti, che non vogliono veicolare chissà quali messaggi.
In questo caso, con il film Hit Man, co-sceneggiato insieme all'attore principale Glen Powell (pratica abbastanza tipica del modo di lavorare di Linklater), siamo nell'ambito del puro divertissement, come si capisce anche dalla visione di quello che viene presentato come trailer ufficiale del film e che inserisco in calce. Ebbene, il trailer è una pura invenzione, e non ha niente a che vedere con i contenuti effettivi del film, ed è dunque l'ennesimo gioco che il regista innesca con lo spettatore, creando un'aspettativa fasulla, come fasullo è il sicario protagonista del film.
L'ultimo film di Linklater presentato alla Mostra del cinema di Venezia è parzialmente ispirato a una storia vera, quella di un professore universitario di filosofia del Texas che per anni ha collaborato con la polizia, impersonando - anche attraverso dei travestimenti - il ruolo di un sicario, al fine di agganciare potenziali omicidi e poterli far arrestare e processare prima che venga commesso il crimine.
Su questa storia - invero abbastanza incredibile - Linklater e il suo attore protagonista Glen Powell costruiscono una narrazione avvincente, che si fa di volta in volta film d'azione, storia d'amore, noir, gangster movie, romanzo di formazione e commedia, dentro un ritmo che non ha un minimo di cedimento.
Buona parte della riuscita del film sta nella prova di Glen Powell nel personaggio di Gary Johnson, sicario per hobby, camaleontico nelle sue trasformazioni temporanee e anche nella sua evoluzione personale da timido e anonimo professore a fascinoso uomo d'azione, ma altrettanto contano le spalle di Powell, rappresentate da Adria Arjona nel personaggio di Maddy (dolce e indifesa giovane sposa capace di infondere nel suo personaggio una adeguata dose di ambiguità) e Austin Amelio nel personaggio di Jasper, collega rimpiazzato da Gary che si dimostrerà ben più intelligente di quanto non appaia.
Alcune sequenze del film e alcuni passaggi della sceneggiatura sono davvero notevoli, da far scattare l'applauso in sala, cosa cui raramente si assiste al cinema. Una per tutte: la visita di Gary con microfono addosso a casa di Maddy, in cui - senza dire ad alta voce le cose come stanno - deve convincere e aiutare quest'ultima a recitare una parte che scagionerà entrambi. Forse poco credibile, ma altamente godibile.
Insomma, se volete vedere una storia parzialmente vera che ha dell'incredibile, e volete trascorrere un paio d'ore di puro e divertito godimento cinematografico non perdete l'ultimo film di Linklater. Per me lui rimane quello della trilogia del Before e di Boyhood, ma non dimentichiamoci che nella sua filmografia ha anche titoli come School of rock.
E poi da un regista che ha ormai 63 anni e che ha fatto cose pregevoli mi aspetto che sia ormai nella fase in cui voglia principalmente divertirsi con il suo lavoro, e del resto se lo fa così bene e facendo divertire e appassionare anche il pubblico ben venga.
Voto: 3,5/5
In questo caso, con il film Hit Man, co-sceneggiato insieme all'attore principale Glen Powell (pratica abbastanza tipica del modo di lavorare di Linklater), siamo nell'ambito del puro divertissement, come si capisce anche dalla visione di quello che viene presentato come trailer ufficiale del film e che inserisco in calce. Ebbene, il trailer è una pura invenzione, e non ha niente a che vedere con i contenuti effettivi del film, ed è dunque l'ennesimo gioco che il regista innesca con lo spettatore, creando un'aspettativa fasulla, come fasullo è il sicario protagonista del film.
L'ultimo film di Linklater presentato alla Mostra del cinema di Venezia è parzialmente ispirato a una storia vera, quella di un professore universitario di filosofia del Texas che per anni ha collaborato con la polizia, impersonando - anche attraverso dei travestimenti - il ruolo di un sicario, al fine di agganciare potenziali omicidi e poterli far arrestare e processare prima che venga commesso il crimine.
Su questa storia - invero abbastanza incredibile - Linklater e il suo attore protagonista Glen Powell costruiscono una narrazione avvincente, che si fa di volta in volta film d'azione, storia d'amore, noir, gangster movie, romanzo di formazione e commedia, dentro un ritmo che non ha un minimo di cedimento.
Buona parte della riuscita del film sta nella prova di Glen Powell nel personaggio di Gary Johnson, sicario per hobby, camaleontico nelle sue trasformazioni temporanee e anche nella sua evoluzione personale da timido e anonimo professore a fascinoso uomo d'azione, ma altrettanto contano le spalle di Powell, rappresentate da Adria Arjona nel personaggio di Maddy (dolce e indifesa giovane sposa capace di infondere nel suo personaggio una adeguata dose di ambiguità) e Austin Amelio nel personaggio di Jasper, collega rimpiazzato da Gary che si dimostrerà ben più intelligente di quanto non appaia.
Alcune sequenze del film e alcuni passaggi della sceneggiatura sono davvero notevoli, da far scattare l'applauso in sala, cosa cui raramente si assiste al cinema. Una per tutte: la visita di Gary con microfono addosso a casa di Maddy, in cui - senza dire ad alta voce le cose come stanno - deve convincere e aiutare quest'ultima a recitare una parte che scagionerà entrambi. Forse poco credibile, ma altamente godibile.
Insomma, se volete vedere una storia parzialmente vera che ha dell'incredibile, e volete trascorrere un paio d'ore di puro e divertito godimento cinematografico non perdete l'ultimo film di Linklater. Per me lui rimane quello della trilogia del Before e di Boyhood, ma non dimentichiamoci che nella sua filmografia ha anche titoli come School of rock.
E poi da un regista che ha ormai 63 anni e che ha fatto cose pregevoli mi aspetto che sia ormai nella fase in cui voglia principalmente divertirsi con il suo lavoro, e del resto se lo fa così bene e facendo divertire e appassionare anche il pubblico ben venga.
Voto: 3,5/5
lunedì 16 ottobre 2023
Memory
Presentato al Festival del cinema di Venezia, il film di Michel Franco, regista messicano che ha un curioso nome francese, si è portato a casa un premio per la migliore interpretazione maschile di Peter Sarsgaard nel ruolo di Saul, un uomo che è affetto da una forma di demenza precoce.
Insieme a lui è protagonista di questo film Sylvia (Jessica Chastain), una madre single dell'adolescente Anne, che esce da un passato di abusi e alcolismo e lavora in un centro diurno per persone con disabilità.
A una festa di ex studenti del liceo frequentato da Sylvia e da sua sorella Olivia, Saul si avvicina a Sylvia, la quale spaventata va via dalla festa, seguita a distanza da Saul che poi attende tutta la notte sotto la sua finestra. È così che Sylvia si rende conto della malattia di Saul ed entra nella sua vita, con tutto quello che ne conseguirà.
Il film di Franco si apre con la scena in cui due personaggi collaterali iniziano a parlare in una riunione degli alcolisti anonimi dicendo "I remember", a mettere un suggello sul fatto che il tema del film è la memoria: quella sempre più evanescente e sconnessa di Saul e quella dolorosa e persistente di Sylvia. Intorno alle memorie dei due personaggi principali del film si aggrumano i complicati rapporti di tutti gli altri personaggi con il passato (negato, rimosso, rivendicato, manipolato), rapporti che proiettano la loro lunga ombra sul presente.
Memory però è soprattutto una storia d'amore che nasce dall'incontro di due fragilità in fondo diverse e complementari: Sylvia ha faticosamente superato il suo passato, ma porta con sé il terrore di quello che può accadere a sé e a sua figlia Anne e dunque non si fida di nessuno, Saul ha una fragilità oggettiva che lo costringe a fidarsi degli altri e ne amplifica un'emotività tenera e dolorosa. Saul è dunque l'unico che Sylvia non percepisce come una minaccia, e Sylvia è per Saul la donna da cui ricevere attenzioni e affetto come persona e non come malato.
Ma è evidente che l'incontro tra Sylvia e Saul risulti incomprensibile al mondo circostante, in primis alle famiglie da cui provengono, tutte concentrate a difendere i propri equilibri, per quanto egoistici, disfunzionali o patologici.
Ne viene fuori un film che riesce a essere durissimo e tenerissimo al contempo, che non calca la mano sul melodramma, bensì si nutre della forza interpretativa dei suoi protagonisti, in particolare lo splendido Sarsgaard.
Voto: 3,5/5
Insieme a lui è protagonista di questo film Sylvia (Jessica Chastain), una madre single dell'adolescente Anne, che esce da un passato di abusi e alcolismo e lavora in un centro diurno per persone con disabilità.
A una festa di ex studenti del liceo frequentato da Sylvia e da sua sorella Olivia, Saul si avvicina a Sylvia, la quale spaventata va via dalla festa, seguita a distanza da Saul che poi attende tutta la notte sotto la sua finestra. È così che Sylvia si rende conto della malattia di Saul ed entra nella sua vita, con tutto quello che ne conseguirà.
Il film di Franco si apre con la scena in cui due personaggi collaterali iniziano a parlare in una riunione degli alcolisti anonimi dicendo "I remember", a mettere un suggello sul fatto che il tema del film è la memoria: quella sempre più evanescente e sconnessa di Saul e quella dolorosa e persistente di Sylvia. Intorno alle memorie dei due personaggi principali del film si aggrumano i complicati rapporti di tutti gli altri personaggi con il passato (negato, rimosso, rivendicato, manipolato), rapporti che proiettano la loro lunga ombra sul presente.
Memory però è soprattutto una storia d'amore che nasce dall'incontro di due fragilità in fondo diverse e complementari: Sylvia ha faticosamente superato il suo passato, ma porta con sé il terrore di quello che può accadere a sé e a sua figlia Anne e dunque non si fida di nessuno, Saul ha una fragilità oggettiva che lo costringe a fidarsi degli altri e ne amplifica un'emotività tenera e dolorosa. Saul è dunque l'unico che Sylvia non percepisce come una minaccia, e Sylvia è per Saul la donna da cui ricevere attenzioni e affetto come persona e non come malato.
Ma è evidente che l'incontro tra Sylvia e Saul risulti incomprensibile al mondo circostante, in primis alle famiglie da cui provengono, tutte concentrate a difendere i propri equilibri, per quanto egoistici, disfunzionali o patologici.
Ne viene fuori un film che riesce a essere durissimo e tenerissimo al contempo, che non calca la mano sul melodramma, bensì si nutre della forza interpretativa dei suoi protagonisti, in particolare lo splendido Sarsgaard.
Voto: 3,5/5
venerdì 13 ottobre 2023
An explanation for everything = Una spiegazione per tutto
Altra anteprima di Venezia a Roma. Questa volta si tratta del film del regista ungherese Gábor Reisz che racconta il suo paese a partire da una vicenda tutto sommato piccola, ma capace - come un sasso nello stagno - di produrre cerchi concentrici via via più ampi.
Siamo a Budapest ai giorni nostri. Al centro Abel (il bravissimo Adonyi-Walsh Gáspár), un giovane che si sta preparando per l'esame di maturità, ma che vive un momento di crisi perché innamorato della compagna di classe e amica Janka (Lilla Kizlinger), la quale però gli confessa di essere innamorata del professore di storia, Jakab (András Rusznák). Quest'ultimo, di fronte alla confessione della ragazza, ha preso le distanze ricordandole di essere il suo professore e di avere moglie e figli. Il professore è noto per le sue idee liberali ed è fortemente frustrato per l'attuale condizione politica dell'Ungheria, tanto che in passato ha avuto un battibecco con il padre di Abel, György (István Znamenák), che è invece un elettore di Fidesz, il partito di Viktor Orbàn.
Siamo a Budapest ai giorni nostri. Al centro Abel (il bravissimo Adonyi-Walsh Gáspár), un giovane che si sta preparando per l'esame di maturità, ma che vive un momento di crisi perché innamorato della compagna di classe e amica Janka (Lilla Kizlinger), la quale però gli confessa di essere innamorata del professore di storia, Jakab (András Rusznák). Quest'ultimo, di fronte alla confessione della ragazza, ha preso le distanze ricordandole di essere il suo professore e di avere moglie e figli. Il professore è noto per le sue idee liberali ed è fortemente frustrato per l'attuale condizione politica dell'Ungheria, tanto che in passato ha avuto un battibecco con il padre di Abel, György (István Znamenák), che è invece un elettore di Fidesz, il partito di Viktor Orbàn.
La reazione a catena si innesca quando Abel si presenta all'esame di maturità facendo scena muta e - più o meno inconsapevolmente - con la coccarda tricolore (che gli ungheresi indossano il 15 marzo, giorno della festa nazionale, ma che negli ultimi anni al di fuori di quella data è diventata un segno distintivo dei nazionalisti). Il fatto che Jakab chieda il perché della coccarda e la successiva bocciatura di Abel (fatti di per sé non correlati) innescano - anche a causa del comportamento ambiguo di Abel - una serie di conseguenze che fanno dell'evento un caso nazionale, contrapponendo non solo le persone coinvolte, ma le parti opposte di un'intera società.
Il film di Gábor Reisz segue gli sviluppi della vicenda nell'arco temporale di una settimana circa, dal giorno prima dell'esame fino al momento in cui l'esame viene ripetuto. Nella prima parte vengono mostrati gli eventi della giornata di lunedì dai diversi punti di vista, quello di Abel, di György, di Janka e di Jakab, così rivediamo alcuni dei momenti topici della giornata assumendo il punto di vista di diversi personaggi. Questa modalità narrativa ci consente di entrare empaticamente nel mondo di ciascun di loro e di costruirci un quadro tridimensionale degli eventi e delle loro motivazioni, evitando il rischio - che è lo stesso che vivono i protagonisti del film - di dare una lettura aprioristica e puramente ideologica della situazione, e anche di prendere le parti di uno dei personaggi per vicinanza di idee.
Lo spettatore è in una posizione di vantaggio rispetto a ciascuno dei protagonisti e ciò gli impedisce di partecipare al gioco della polarizzazione, che ormai è una tendenza pervasiva della nostra società - amplificata dai media e dai social - e che ha fortemente informato di sé la politica, terreno di scontro continuo senza alcuna possibilità di confronto.
In realtà - sembra dirci Reisz - c'è una spiegazione per tutto se indaghiamo nelle motivazioni e nei sentimenti profondi delle persone e se non trasformiamo tutto in contrapposizione di matrice ideologica, soprattutto in un caso come questo in cui al centro c'è un ragazzo insicuro che proprio questa vicenda farà maturare e aprire alla vita adulta.
Nonostante le due ore e mezza di film non si vive un momento di stanchezza e il regista riesce persino a far crescere la tensione man mano che la narrazione va avanti. Ma - per quanto mi riguarda - ho trovato soprattutto mirabile il fatto che, in un film che "contrappone" un sostenitore di Orbàn e un professore progressista, Reisz sia riuscito a non farmi odiare nessuno e in qualche modo a farmi comprendere limiti e qualità di ognuno, pur essendo io idealmente più vicina a Jakab.
Fantastico esperimento sociale. E per me riuscito.
Voto: 4/5
Il film di Gábor Reisz segue gli sviluppi della vicenda nell'arco temporale di una settimana circa, dal giorno prima dell'esame fino al momento in cui l'esame viene ripetuto. Nella prima parte vengono mostrati gli eventi della giornata di lunedì dai diversi punti di vista, quello di Abel, di György, di Janka e di Jakab, così rivediamo alcuni dei momenti topici della giornata assumendo il punto di vista di diversi personaggi. Questa modalità narrativa ci consente di entrare empaticamente nel mondo di ciascun di loro e di costruirci un quadro tridimensionale degli eventi e delle loro motivazioni, evitando il rischio - che è lo stesso che vivono i protagonisti del film - di dare una lettura aprioristica e puramente ideologica della situazione, e anche di prendere le parti di uno dei personaggi per vicinanza di idee.
Lo spettatore è in una posizione di vantaggio rispetto a ciascuno dei protagonisti e ciò gli impedisce di partecipare al gioco della polarizzazione, che ormai è una tendenza pervasiva della nostra società - amplificata dai media e dai social - e che ha fortemente informato di sé la politica, terreno di scontro continuo senza alcuna possibilità di confronto.
In realtà - sembra dirci Reisz - c'è una spiegazione per tutto se indaghiamo nelle motivazioni e nei sentimenti profondi delle persone e se non trasformiamo tutto in contrapposizione di matrice ideologica, soprattutto in un caso come questo in cui al centro c'è un ragazzo insicuro che proprio questa vicenda farà maturare e aprire alla vita adulta.
Nonostante le due ore e mezza di film non si vive un momento di stanchezza e il regista riesce persino a far crescere la tensione man mano che la narrazione va avanti. Ma - per quanto mi riguarda - ho trovato soprattutto mirabile il fatto che, in un film che "contrappone" un sostenitore di Orbàn e un professore progressista, Reisz sia riuscito a non farmi odiare nessuno e in qualche modo a farmi comprendere limiti e qualità di ognuno, pur essendo io idealmente più vicina a Jakab.
Fantastico esperimento sociale. E per me riuscito.
Voto: 4/5
mercoledì 11 ottobre 2023
Photophobia
La mia personale maratonina della rassegna “I grandi festival a Roma”, che a fine settembre ha portato nelle sale romane i film presentati a Venezia, inizia con questo quasi documentario dei due registi slovacchi Ivan Ostrochovský e Pavol Pekarcik, che è da poco il film slovacco in lizza per la shortlist dei candidati all’Oscar per il miglior film straniero. I due registi sono stati alcuni mesi in Ucraina, nella zona di Kharkiv, uno dei fronti più caldi della guerra, tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023.
Qui hanno documentato le condizioni del paese e hanno vissuto per un po’ nei sotterranei della metropolitana della città - in una stazione collocata a 700 metri dalla linea di guerra - che è stata trasformata in rifugio per migliaia di persone che hanno abbandonato le loro case per paura dei bombardamenti.
Le telecamere dei due registi seguono in particolare i movimenti di Nikita, un ragazzino di 12 anni, che insieme alla sua famiglia vive da qualche tempo nei sotterranei della metropolitana. Questa vita vissuta tutta sotto la luce artificiale e in un contesto oggettivamente anomalo rendono Nikita apatico e insofferente, almeno fino a quando non incontra Vika, una ragazzina con un buffo vestito da coniglio con le orecchie che producono dei suoni. Dopo questo incontro le carrozze della metropolitana, i binari, i corridoi sotterranei e tutto questo piccolo mondo nel quale vivono si trasforma in un luogo di giochi, scoperta e avventura, che – pur nella difficoltà della situazione – rimette Nikita in contatto con il suo essere ragazzino. La riconquista della vitalità seguita all’incontro con Vika è rafforzata anche dall’amicizia con il “cowboy”, un vecchio signore che con la sua chitarra intona canzoni tradizionali e offre consigli d’amore al ragazzino.
Tra i giochi che Nikita fa insieme a Vika e a sua sorella c’è anche quello di guardare vecchie diapositive attraverso un visore: queste diapositive si trasformano per lo spettatore in immagini in movimento, che sono poi le immagini girate in Super8 dai due registi e che mostrano il mondo fuori dalla metropolitana, persone che posano o si muovono tra le macerie, o davanti a edifici distrutti, o mentre si intravedono colonne di fumo in lontananza.
Si mostra così sullo schermo questa duplice dimensione, che rappresenta in realtà due facce della medesima guerra: gente costretta a rifugiarsi sotto terra e a vivere in condizioni di fortuna insieme ad altre migliaia di persone per sfuggire ai bombardamenti, e gente che in superficie rischia continuamente la vita e assiste alla distruzione del mondo nel quale vive.
Il documentario dei due registi slovacchi è sicuramente meritevole perché racconta in presa diretta e da un punto di vista diverso una realtà che noi viviamo solo attraverso le notizie e le immagini del telegiornale o provenienti da Internet. Cinematograficamente l’ho trovato un pochino fiacco, ma magari ero un po’ stanca io, e certamente capisco che non è facile fare un film in un contesto in cui le giornate si ripetono uguali, e la guerra – in realtà vicinissima – resta comunque lontana.
Voto: 3/5
Qui hanno documentato le condizioni del paese e hanno vissuto per un po’ nei sotterranei della metropolitana della città - in una stazione collocata a 700 metri dalla linea di guerra - che è stata trasformata in rifugio per migliaia di persone che hanno abbandonato le loro case per paura dei bombardamenti.
Le telecamere dei due registi seguono in particolare i movimenti di Nikita, un ragazzino di 12 anni, che insieme alla sua famiglia vive da qualche tempo nei sotterranei della metropolitana. Questa vita vissuta tutta sotto la luce artificiale e in un contesto oggettivamente anomalo rendono Nikita apatico e insofferente, almeno fino a quando non incontra Vika, una ragazzina con un buffo vestito da coniglio con le orecchie che producono dei suoni. Dopo questo incontro le carrozze della metropolitana, i binari, i corridoi sotterranei e tutto questo piccolo mondo nel quale vivono si trasforma in un luogo di giochi, scoperta e avventura, che – pur nella difficoltà della situazione – rimette Nikita in contatto con il suo essere ragazzino. La riconquista della vitalità seguita all’incontro con Vika è rafforzata anche dall’amicizia con il “cowboy”, un vecchio signore che con la sua chitarra intona canzoni tradizionali e offre consigli d’amore al ragazzino.
Tra i giochi che Nikita fa insieme a Vika e a sua sorella c’è anche quello di guardare vecchie diapositive attraverso un visore: queste diapositive si trasformano per lo spettatore in immagini in movimento, che sono poi le immagini girate in Super8 dai due registi e che mostrano il mondo fuori dalla metropolitana, persone che posano o si muovono tra le macerie, o davanti a edifici distrutti, o mentre si intravedono colonne di fumo in lontananza.
Si mostra così sullo schermo questa duplice dimensione, che rappresenta in realtà due facce della medesima guerra: gente costretta a rifugiarsi sotto terra e a vivere in condizioni di fortuna insieme ad altre migliaia di persone per sfuggire ai bombardamenti, e gente che in superficie rischia continuamente la vita e assiste alla distruzione del mondo nel quale vive.
Il documentario dei due registi slovacchi è sicuramente meritevole perché racconta in presa diretta e da un punto di vista diverso una realtà che noi viviamo solo attraverso le notizie e le immagini del telegiornale o provenienti da Internet. Cinematograficamente l’ho trovato un pochino fiacco, ma magari ero un po’ stanca io, e certamente capisco che non è facile fare un film in un contesto in cui le giornate si ripetono uguali, e la guerra – in realtà vicinissima – resta comunque lontana.
Voto: 3/5
lunedì 9 ottobre 2023
Evil does not exist = Il male non esiste
Ed eccomi di nuovo a fare i conti con il cinema di Ryusuke Hamaguchi, di cui avevo già visto e apprezzato - seppure con intensità diverse - i due precedenti film, Il gioco del destino e della fantasia e Drive my car (quello con cui il regista si è fatto definitivamente conoscere a livello internazionale).
Evil does not exist (Il male non esiste, titolo omonimo di un bel film iraniano di qualche tempo fa) arriva nelle sale italiane forte del Gran Premio della Giuria alla mostra internazionale del cinema di Venezia.
A quanto pare questo film è nato quasi per caso, come ampliamento di quella che doveva essere una collaborazione con la musicista Eiko Ishibashi (già autrice delle musiche di Drive my car), finalizzata esclusivamente a corredare di immagini filmate una sua performance live. Quando Hamaguchi ha iniziato a girare nei luoghi di origine della musicista, ossia nella zona di Mizubiki (un paesino a due ore da Tokyo), è stato affascinato da questi luoghi ed è stato ispirato a raccontare una storia - invero piuttosto minimale - qui ambientata.
Al centro di questa storia ci sono Takumi (Ryûji Kosaka) e sua figlia Hana (Ryô Nishikawa), membri attivi della comunità che abita il villaggio di Mizubiki. Takumi è un vero tuttofare, conosce perfettamente il territorio, si muove con grande agio nel bosco ai margini del quale abita, conosce alla perfezione la flora che lo compone e la fauna che lo popola, e ha trasmesso a sua figlia la stessa curiosità e amore per la natura. L'uomo vive da solo con la figlia (la moglie, che vediamo in una fotografia, non sapremo mai se è morta o cos'altro). Nella prima parte del film fondamentalmente il regista segue da vicino, con attenzione e quasi meraviglia, la routine quotidiana di Takumi: spaccare la legna e accatastarla, andare al fiume a riempire le taniche dell'acqua, andare a prendere sua figlia a scuola, dove arriva spesso tardi quando Hana si è già avviata sul sentiero che passa in mezzo al bosco.
La rottura narrativa arriva con la riunione cittadina a cui la comunità viene chiamata a partecipare per esprimere il proprio parere rispetto al progetto che una società sta per avviare nella zona, ossia la costruzione di un glamping (un campeggio di lusso per i ricchi villeggianti provenienti dalla città). In questa riunione risulta chiaro che i dipendenti della società inviata a spiegare il progetto non sanno nulla del territorio e di fronte alle numerose obiezioni degli abitanti non sanno bene cosa rispondere. In particolare la preoccupazione di Takumi e degli altri riguarda la fossa settica, dimensionata e collocata in un modo che rischia di inquinare l'acqua del ruscello cui gli abitanti attingono per berla e per gli usi domestici.
Dopo un confronto con il consulente e il capo della società, i due funzionari tornano a Mizubiki con l'idea di convincere Takumi a diventare il custode del glamping. Nel tentativo di convincerlo trascorreranno con lui un'intera giornata, partecipando alle sue numerose attività e rendendosi conto del rapporto intimo che ha con la natura circostante, fino all'enigmatico e tragico epilogo che ci lascia con mille domande e pochissime risposte.
Di che parla Evil does not exist? Parla certamente di rapporto tra l'uomo e la natura, e tra città e campagna, e parla anche di responsabilità che gli esseri umani hanno verso la natura e di conseguenza verso la collettività presente e futura. E del fatto che questa responsabilità è tanto maggiore quanto più si risale nella scala dei rapporti di causalità.
Però, bisogna anche essere chiari sul fatto che il film di Hamaguchi - pur assecondando il desiderio del regista di costruire una narrazione - non vuole spiegare tutto e fornire risposte a tutte le domande. L'andamento del film è in parte documentaristico e segue i suoi personaggi in una quotidianità che non rivela ogni dettaglio e che, man mano che si va avanti, si fa sempre più misteriosa e in qualche misura inquietante. Da questo punto di vista, personalmente sono stata fortemente colpita dalle originalissime e spiazzanti inquadrature, che assumono punti di vista imprevisti e inattesi, a partire dalla prima scena (che si ripeterà poi alla fine del film) che mostra le chiome degli alberi dal basso, per arrivare alle riprese fatte dal retro dell'automobile sulla strada che ci si lascia alle spalle, alla soggettiva di oggetti inanimati (vediamo il volto di Takumi che ha trovato del wasabi come fossimo dal punto di vista del wasabi), alle soggettive dello sguardo dei personaggi (spesso fatte con telecamera a mano), alle inquadrature in schermi e specchi (soprattutto dei personaggi che arrivano dalla città), alla scena in cui la telecamera segue Takumi nel bosco e a un certo punto perde la visuale su di lui perché coperta da un dislivello del terreno fino a quanto l'uomo ricompare con Hana sulle spalle, alla telecamera che inquadra una scena in cui stanno per succedere cose importanti e nel momento clou si sposta su qualcun altro o su qualcos'altro. Questo uso molto variegato della ripresa dà movimento a un racconto di per sé piuttosto scevro di avvenimenti e lo carica di qualcosa di incomprensibile; lo stesso risultato lo ottengono le musiche di cui si fa un uso che risulta alquanto destabilizzante, perché nel passaggio da una scena all'altra più volte la musica si interrompe bruscamente.
Come nei suoi film precedenti, c'è sicuramente tanto della cultura e della spiritualità giapponesi, cose che possiamo studiare e approfondire, ma che alla fine ci aiuteranno al massimo a intuire senza coglierne realmente l'essenza. Leggevo recentemente che il fatto che lo shintoismo sia una religione anomala (animista e politeista, con un rapporto davvero particolare con la natura) e che la sua diffusione sia praticamente limitata al solo Giappone fa sì che la spiritualità giapponese resti a noi in gran parte estranea, e, trattandosi di una spiritualità molto legata alla natura (in cui tra l'altro l'acqua ha un ruolo centrale), facciamo fatica anche a capire il rapporto che i giapponesi hanno con la natura . Non si tratta dunque tanto di un film che fa proprio il rinnovato punto di vista ecologista dell'Occidente preoccupato degli effetti del cambiamento climatico e dell'azione devastante del capitalismo, bensì di una riproposizione delle basi della cultura e della spiritualità giapponesi. Tra l'altro nello shintoismo "il male non esiste", nel senso che può essere superato con atti di purificazione, che quasi sempre utilizzano l'acqua come elemento purificante.
Cosicché inutile sforzarsi di comprendere il senso e di dare una spiegazione pienamente razionale al film di Hamaguchi - che sarebbe la negazione della sua natura più profonda -, meglio lasciarsi trasportare dal fluire delle immagini e compiere questo viaggio surreale nel cuore di una cultura che sempre e comunque sfuggirà a qualunque tentativo di applicazione della logica occidentale.
Voto: 3,5/5
Evil does not exist (Il male non esiste, titolo omonimo di un bel film iraniano di qualche tempo fa) arriva nelle sale italiane forte del Gran Premio della Giuria alla mostra internazionale del cinema di Venezia.
A quanto pare questo film è nato quasi per caso, come ampliamento di quella che doveva essere una collaborazione con la musicista Eiko Ishibashi (già autrice delle musiche di Drive my car), finalizzata esclusivamente a corredare di immagini filmate una sua performance live. Quando Hamaguchi ha iniziato a girare nei luoghi di origine della musicista, ossia nella zona di Mizubiki (un paesino a due ore da Tokyo), è stato affascinato da questi luoghi ed è stato ispirato a raccontare una storia - invero piuttosto minimale - qui ambientata.
Al centro di questa storia ci sono Takumi (Ryûji Kosaka) e sua figlia Hana (Ryô Nishikawa), membri attivi della comunità che abita il villaggio di Mizubiki. Takumi è un vero tuttofare, conosce perfettamente il territorio, si muove con grande agio nel bosco ai margini del quale abita, conosce alla perfezione la flora che lo compone e la fauna che lo popola, e ha trasmesso a sua figlia la stessa curiosità e amore per la natura. L'uomo vive da solo con la figlia (la moglie, che vediamo in una fotografia, non sapremo mai se è morta o cos'altro). Nella prima parte del film fondamentalmente il regista segue da vicino, con attenzione e quasi meraviglia, la routine quotidiana di Takumi: spaccare la legna e accatastarla, andare al fiume a riempire le taniche dell'acqua, andare a prendere sua figlia a scuola, dove arriva spesso tardi quando Hana si è già avviata sul sentiero che passa in mezzo al bosco.
La rottura narrativa arriva con la riunione cittadina a cui la comunità viene chiamata a partecipare per esprimere il proprio parere rispetto al progetto che una società sta per avviare nella zona, ossia la costruzione di un glamping (un campeggio di lusso per i ricchi villeggianti provenienti dalla città). In questa riunione risulta chiaro che i dipendenti della società inviata a spiegare il progetto non sanno nulla del territorio e di fronte alle numerose obiezioni degli abitanti non sanno bene cosa rispondere. In particolare la preoccupazione di Takumi e degli altri riguarda la fossa settica, dimensionata e collocata in un modo che rischia di inquinare l'acqua del ruscello cui gli abitanti attingono per berla e per gli usi domestici.
Dopo un confronto con il consulente e il capo della società, i due funzionari tornano a Mizubiki con l'idea di convincere Takumi a diventare il custode del glamping. Nel tentativo di convincerlo trascorreranno con lui un'intera giornata, partecipando alle sue numerose attività e rendendosi conto del rapporto intimo che ha con la natura circostante, fino all'enigmatico e tragico epilogo che ci lascia con mille domande e pochissime risposte.
Di che parla Evil does not exist? Parla certamente di rapporto tra l'uomo e la natura, e tra città e campagna, e parla anche di responsabilità che gli esseri umani hanno verso la natura e di conseguenza verso la collettività presente e futura. E del fatto che questa responsabilità è tanto maggiore quanto più si risale nella scala dei rapporti di causalità.
Però, bisogna anche essere chiari sul fatto che il film di Hamaguchi - pur assecondando il desiderio del regista di costruire una narrazione - non vuole spiegare tutto e fornire risposte a tutte le domande. L'andamento del film è in parte documentaristico e segue i suoi personaggi in una quotidianità che non rivela ogni dettaglio e che, man mano che si va avanti, si fa sempre più misteriosa e in qualche misura inquietante. Da questo punto di vista, personalmente sono stata fortemente colpita dalle originalissime e spiazzanti inquadrature, che assumono punti di vista imprevisti e inattesi, a partire dalla prima scena (che si ripeterà poi alla fine del film) che mostra le chiome degli alberi dal basso, per arrivare alle riprese fatte dal retro dell'automobile sulla strada che ci si lascia alle spalle, alla soggettiva di oggetti inanimati (vediamo il volto di Takumi che ha trovato del wasabi come fossimo dal punto di vista del wasabi), alle soggettive dello sguardo dei personaggi (spesso fatte con telecamera a mano), alle inquadrature in schermi e specchi (soprattutto dei personaggi che arrivano dalla città), alla scena in cui la telecamera segue Takumi nel bosco e a un certo punto perde la visuale su di lui perché coperta da un dislivello del terreno fino a quanto l'uomo ricompare con Hana sulle spalle, alla telecamera che inquadra una scena in cui stanno per succedere cose importanti e nel momento clou si sposta su qualcun altro o su qualcos'altro. Questo uso molto variegato della ripresa dà movimento a un racconto di per sé piuttosto scevro di avvenimenti e lo carica di qualcosa di incomprensibile; lo stesso risultato lo ottengono le musiche di cui si fa un uso che risulta alquanto destabilizzante, perché nel passaggio da una scena all'altra più volte la musica si interrompe bruscamente.
Come nei suoi film precedenti, c'è sicuramente tanto della cultura e della spiritualità giapponesi, cose che possiamo studiare e approfondire, ma che alla fine ci aiuteranno al massimo a intuire senza coglierne realmente l'essenza. Leggevo recentemente che il fatto che lo shintoismo sia una religione anomala (animista e politeista, con un rapporto davvero particolare con la natura) e che la sua diffusione sia praticamente limitata al solo Giappone fa sì che la spiritualità giapponese resti a noi in gran parte estranea, e, trattandosi di una spiritualità molto legata alla natura (in cui tra l'altro l'acqua ha un ruolo centrale), facciamo fatica anche a capire il rapporto che i giapponesi hanno con la natura . Non si tratta dunque tanto di un film che fa proprio il rinnovato punto di vista ecologista dell'Occidente preoccupato degli effetti del cambiamento climatico e dell'azione devastante del capitalismo, bensì di una riproposizione delle basi della cultura e della spiritualità giapponesi. Tra l'altro nello shintoismo "il male non esiste", nel senso che può essere superato con atti di purificazione, che quasi sempre utilizzano l'acqua come elemento purificante.
Cosicché inutile sforzarsi di comprendere il senso e di dare una spiegazione pienamente razionale al film di Hamaguchi - che sarebbe la negazione della sua natura più profonda -, meglio lasciarsi trasportare dal fluire delle immagini e compiere questo viaggio surreale nel cuore di una cultura che sempre e comunque sfuggirà a qualunque tentativo di applicazione della logica occidentale.
Voto: 3,5/5
venerdì 6 ottobre 2023
Lo zoo di vetro / di Tennessee Williams; regia di Ivo van Hove. Romaeuropa Festival, Teatro Argentina, 23 settembre 2023
Nell’ambito del Romaeuropa Festival il Teatro Argentina ospita l’adattamento francese de Lo zoo di vetro di Tennessee Williams per la regia del belga Ivo van Hove, interpretato da Isabelle Huppert nel ruolo di Amanda, Justine Bachelet in quello di Laura, Antoine Reinartz in quello di Tom e Cyril Gueï in quello di Jim.
Siamo a Saint Louis, alla fine degli anni Trenta, nel seminterrato dove vive la famiglia Wingfried, formata dalla madre Amanda e dai due figli Laura e Tom. La storia in realtà è una ricostruzione a posteriori filtrata dalla memoria di Tom, che infatti – oltre a essere uno dei personaggi – è anche il narratore, il quale più volte durante il racconto si rivolge direttamente allo spettatore. È lui in apertura che ci mette in guardia rispetto al fatto che la narrazione va vissuta non come strettamente realistica, ma tanto quanto la distorsione del ricordo consente.
È sempre lui che ci spiega l’assenza del padre, andato via di casa molti anni prima senza lasciare tracce - si è limitato a inviare un’unica cartolina senza nemmeno un indirizzo -, sebbene la sua presenza emotiva resti ingombrante, come la scenografia esplicita, mostrando il suo volto sulle pareti della casa.
I Wingfried vivono dello stipendio di Tom, che lavora come magazziniere in un negozio di scarpe, e del poco che racimola Amanda promuovendo abbonamenti a riviste. Amanda è una donna esuberante, dalla parlantina inarrestabile, preoccupata del futuro dei suoi figli che vorrebbe vedere sistemati. Entrambi però manifestano una condizione di profondo disagio: Laura, che ha un piccolo handicap fisico, è fortemente introversa e la sua principale occupazione è la cura di una serie di statuine di vetro che rappresentano degli animali e che la madre chiama “lo zoo di vetro”, non studia, non lavora e non ha alcuno spasimante; Tom fa un lavora che odia, si rifugia ogni sera e in ogni suo momento libero al cinema, vorrebbe diventare scrittore e sogna l’avventura, ma si sente ingabbiato nel seminterrato in cui vive, pressato com’è dalle aspettative della madre, dall’affetto verso la sorella e dalla pesante ombra del padre.
L’invito a cena di Jim, collega di lavoro di Tom, nonché suo ex compagno di liceo, che Amanda spera possa interessarsi a Laura, costituirà il momento della verità per tutti i membri della famiglia Wingfield e spingerà Tom a prendere infine la decisione di abbandonare la sua famiglia, anche se il senso di colpa per aver abbandonato sua sorella non lo lascerà mai.
L’opera di Tennessee Williams, a quanto pare la più autobiografica di tutte quelle da lui scritte, trova nella regia di Ivo van Hove una interpretazione fedele all’originale e al contempo moderna. Personalmente, ho apprezzato particolarmente l’adattamento in francese, una lingua secondo me perfetta per il tono di questo dramma, che vede una fortissima frattura tra il malessere che i personaggi si portano dentro e il ritmo vivace, a tratti addirittura leggero, dei dialoghi. La quintessenza di questa contraddizione è il personaggio di Amanda, madre sovrabbondante, invadente, eccessiva in tutte le sue manifestazioni, che la straordinaria interpretazione di Isabelle Huppert riesce a rendere al contempo insopportabile e tenera, inscalfibile e fragile. Se la fragilità di Laura è evidente, e tutti – ognuno a suo modo – cercano di proteggerla, e quella di Tom si manifesta attraversa il suo malessere, i litigi con la madre e le fughe dal seminterrato, la fragilità di Amanda si nasconde dietro la sua esuberanza, dietro i racconti della sua giovinezza e dietro lo spasmodico controllo sulle vite dei propri figli, tutto frutto della paura del futuro.
Oltre alla splendida Isabelle Huppert, tutti gli interpreti si rivelano perfettamente in parte, contribuendo a rendere questo testo così personale per Williams e così lontano nel tempo e nello spazio non solo comprensibile al pubblico, ma anche emotivamente coinvolgente ed empaticamente intellegibile.
Un lavoro quello di van Hove su Lo zoo di vetro semplice e sorprendente al contempo.
Voto: 4/5
Siamo a Saint Louis, alla fine degli anni Trenta, nel seminterrato dove vive la famiglia Wingfried, formata dalla madre Amanda e dai due figli Laura e Tom. La storia in realtà è una ricostruzione a posteriori filtrata dalla memoria di Tom, che infatti – oltre a essere uno dei personaggi – è anche il narratore, il quale più volte durante il racconto si rivolge direttamente allo spettatore. È lui in apertura che ci mette in guardia rispetto al fatto che la narrazione va vissuta non come strettamente realistica, ma tanto quanto la distorsione del ricordo consente.
È sempre lui che ci spiega l’assenza del padre, andato via di casa molti anni prima senza lasciare tracce - si è limitato a inviare un’unica cartolina senza nemmeno un indirizzo -, sebbene la sua presenza emotiva resti ingombrante, come la scenografia esplicita, mostrando il suo volto sulle pareti della casa.
I Wingfried vivono dello stipendio di Tom, che lavora come magazziniere in un negozio di scarpe, e del poco che racimola Amanda promuovendo abbonamenti a riviste. Amanda è una donna esuberante, dalla parlantina inarrestabile, preoccupata del futuro dei suoi figli che vorrebbe vedere sistemati. Entrambi però manifestano una condizione di profondo disagio: Laura, che ha un piccolo handicap fisico, è fortemente introversa e la sua principale occupazione è la cura di una serie di statuine di vetro che rappresentano degli animali e che la madre chiama “lo zoo di vetro”, non studia, non lavora e non ha alcuno spasimante; Tom fa un lavora che odia, si rifugia ogni sera e in ogni suo momento libero al cinema, vorrebbe diventare scrittore e sogna l’avventura, ma si sente ingabbiato nel seminterrato in cui vive, pressato com’è dalle aspettative della madre, dall’affetto verso la sorella e dalla pesante ombra del padre.
L’invito a cena di Jim, collega di lavoro di Tom, nonché suo ex compagno di liceo, che Amanda spera possa interessarsi a Laura, costituirà il momento della verità per tutti i membri della famiglia Wingfield e spingerà Tom a prendere infine la decisione di abbandonare la sua famiglia, anche se il senso di colpa per aver abbandonato sua sorella non lo lascerà mai.
L’opera di Tennessee Williams, a quanto pare la più autobiografica di tutte quelle da lui scritte, trova nella regia di Ivo van Hove una interpretazione fedele all’originale e al contempo moderna. Personalmente, ho apprezzato particolarmente l’adattamento in francese, una lingua secondo me perfetta per il tono di questo dramma, che vede una fortissima frattura tra il malessere che i personaggi si portano dentro e il ritmo vivace, a tratti addirittura leggero, dei dialoghi. La quintessenza di questa contraddizione è il personaggio di Amanda, madre sovrabbondante, invadente, eccessiva in tutte le sue manifestazioni, che la straordinaria interpretazione di Isabelle Huppert riesce a rendere al contempo insopportabile e tenera, inscalfibile e fragile. Se la fragilità di Laura è evidente, e tutti – ognuno a suo modo – cercano di proteggerla, e quella di Tom si manifesta attraversa il suo malessere, i litigi con la madre e le fughe dal seminterrato, la fragilità di Amanda si nasconde dietro la sua esuberanza, dietro i racconti della sua giovinezza e dietro lo spasmodico controllo sulle vite dei propri figli, tutto frutto della paura del futuro.
Oltre alla splendida Isabelle Huppert, tutti gli interpreti si rivelano perfettamente in parte, contribuendo a rendere questo testo così personale per Williams e così lontano nel tempo e nello spazio non solo comprensibile al pubblico, ma anche emotivamente coinvolgente ed empaticamente intellegibile.
Un lavoro quello di van Hove su Lo zoo di vetro semplice e sorprendente al contempo.
Voto: 4/5