Il film di Ali Asgari e Alireza Khatami, presentato alla sezione Un certain regard del Festival di Cannes, è purtroppo andato incontro al destino che colpisce tutti coloro che "osano" mostrare un volto dell'Iran non corrispondente a quello che il regime impone, e dunque al regista sono stati tolti il passaporto e il telefono (come ci dice la direttrice del Med Film Festival che introduce la pellicola), e ovviamente il film non è distribuito in Iran.
Kafka a Teheran racconta la quotidianità folle degli iraniani attraverso nove ritratti di uomini, donne e anche una bambina, in situazioni ordinarie della vita: un padre allo sportello di registrazione del nome del figlio, una bambina in un negozio dove comprare il vestito per una cerimonia scolastica, una donna ad un colloquio di lavoro, un ragazzo all'ufficio per il rilascio della patente, una ragazza nello studio della preside della scuola, un'altra ragazza in un ufficio della polizia municipale, un regista all'ufficio che deve autorizzare il suo film, e così via. Situazioni che in un paese teocratico che controlla ossessivamente i comportamenti pubblici e privati dei suoi cittadini diventano appunto situazioni kafkiane, a tratti divertenti nella loro assurdità, ma terribili se solo solo ci si sofferma a pensare che si tratta di realtà quotidiana.
Cinematograficamente il regista sceglie di rappresentare questi dialoghi inquadrando frontalmente con una telecamera fissa l'elemento debole della conversazione, quello che sta dall'altra parte della scrivania, e che subisce le angherie e la follia del potere, di volta in volta rappresentato dalla voce di qualcuno che non vediamo, perché sta al di qua della telecamera. E del resto il vero "carnefice" della situazione non è tanto e solo la persona specifica che in quel momento esercita la sua funzione e/o il suo potere, in quanto questa persona costituisce la longa manus (più o meno consapevole e/o compiaciuta) di un sistema politico e pubblico che schiaccia le libertà dei cittadini e li mette continuamente in una condizione di inferiorità e di errore per il quale essere potenzialmente puniti.
Potenzialmente le stesse "vittime" che noi vediamo al di là della telecamera fissa, in situazioni diverse potrebbero trovarsi dall'altra parte della scrivania e diventare essere stesse strumenti di questo perverso sistema di potere, fatto di maschilismo, ortodossia religiosa imposta, atmosfera di sospetto, giudizio personale, condizionamento, e chi più ne ha più ne metta.
È chiaro che questo non assolve le persone - come la Arendt ci insegna -, perché il potere anche in un contesto così difficile può essere esercitato in maniera più comprensiva e meno abusante, ma è chiaro anche che in un clima di terrore com'è quello che vige in Iran e che ha visto represse nel sangue le proteste di migliaia di persone dopo la morte di Mahsa Amini il margine di movimento è davvero minimale. È solo di pochi giorni fa la notizia di una ragazza adolescente prima in coma e poi morta dopo essere stata probabilmente malmenata dalla polizia perché non indossava il velo in metropolitana.
Cosa possiamo fare di fronte a tutto questo? Dal palco ci dicono "Indignatevi", e posso anche essere d'accordo. Ma basta? Serve a far cambiare qualcosa? Il senso di impotenza che ultimamente mi attanaglia su molteplici fronti si fa sempre più profondo e scava solchi di pessimismo cosmico che non so davvero come gestire. Essere informati e consapevoli diventa sempre di più una condizione che non si sa in che direzione far evolvere.
Voto: 3,5/5
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