Quello di Chloè Barreau è un film documentario sorprendente da molteplici punti di vista e che merita di restare in sala e di essere visto da tante persone (cosa che sta già avvenendo, anche grazie al passaparola).
La regista parigina, ma ormai romana d'adozione, ci propone il risultato di un'operazione ardita: raccontare l'amore in forma di documentario attraverso la propria esperienza personale, ricostruita mediante fotografie e filmati privati da lei stessa realizzati nel corso del tempo e delle interviste a dodici persone con cui ha avuto una relazione amorosa e che hanno risposto al suo invito.
I filmati e le fotografie sono il frutto dell'ossessione personale che la Barreau ci dice di avere fin dall'adolescenza, ossia quella di documentare la propria vita e di fissarne i momenti, non tanto e non solo quelli oggettivamente importanti (tutti quella della mia e anche sua generazione hanno dei filmati di occasioni particolari), ma anche e soprattutto momenti ordinari della vita di tutti i giorni.
Le interviste sono invece state affidate a una terza persona affinché gli intervistati e le intervistate si sentissero più liberi di parlare, e la loro "testimonianza" diventasse un racconto in terza persona, e non un dialogo, in una sorta di storicizzazione degli eventi.
Questi due elementi costitutivi del film si fondono attraverso un montaggio pregevole, che utilizza anche riprese - invero quasi fermi immagine - di interni ed esterni che contestualizzano il racconto degli eventi, e che personalmente ho trovato compositivamente ed esteticamente di grandissima efficacia e valore.
Alla pregevolezza tecnica si affianca poi l'ardire dell'idea e della sua trattazione. Quello della Barreau è un vero e proprio romanzo di formazione sentimentale, ma non strettamente autobiografico. La propria vita sentimentale diventa oggetto di narrazione da parte di altri, e la protagonista - che è il fil rouge di tutti questi racconti - non compare mai in video, se non fugacemente in qualche filmato del passato.
C'è evidentemente una componente narcisistica e un'ambizione più o meno consciamente seduttiva in questa operazione, forse già intuibile nell'ossessione della regista di filmare sé stessa, il proprio mondo e la propria quotidianità, in un'epoca in cui i social ancora non esistevano e il filmare o fotografare la propria vita erano limitati a specifici momenti e restavano un fatto puramente privato. In un certo senso la Barreau reinterpreta il suo lavoro di documentazione in chiave contemporanea, facendone uno strumento narrativo che va ben al di là della sua cerchia privata. Come dice qualcuno degli intervistati, Chloè probabilmente ha sempre voluto fare della sua stessa vita la propria "opera d'arte", cosa che - fatte le dovute differenze - è ormai un trend diffuso e una strada resa possibile dai social.
Questa premessa per dire che in realtà l'operazione della Barreau è molto più raffinata e ambiziosa di così; come ha detto qualcuno del pubblico, è una scelta anche coraggiosa quella di offrirsi come oggetto del racconto per parlare e riflettere di amore e percorsi sentimentali, che vanno ben al di là dell'esperienza specifica della regista. E così man mano che il documentario procede ci sentiamo sempre più chiamati in causa - ognuno probabilmente per aspetti diversi -; le storie di Chloè finiscono per rispecchiare alcune delle storie che abbiamo vissuto, e alcuni dei pensieri che vengono espressi dagli intervistati li sentiamo come nostri.
Perché dentro il film della Barreau c'è innanzitutto l'evoluzione naturale di un percorso amoroso: dalla leggerezza, la confusione, la libertà, la superficialità degli amori adolescenziali e di gioventù - quelli in cui si sperimenta, si gode appieno della novità, ci si butta a capofitto, si insegue un'idea forse solo teorica di amore - alla crescente consapevolezza che la maturità porta con sé in merito all'amore - ossia l'idea che non se può fare a meno, ma che esso nel tempo reitera alcuni andamenti e porta con sé inevitabili rischi che ciascuno deve trovare il proprio modo di affrontare. Non secondaria è poi la rappresentazione a 360° che il documentario propone delle relazioni amorose, portando all'attenzione dello spettatore - con delicatezza e profondità - l'idea che - sebbene la relazione amorosa spesso ripeta dei percorsi e degli schemi - non esiste invece un'unica traccia, un oggetto predeterminato, una durata prevedibile e prestabilita, né tappe obbligate da seguire. Le nostre storie d'amore sono parte determinante del nostro bagaglio emozionale e della nostra crescita individuale, e non saremmo gli stessi senza i più o meno numerosi percorsi amorosi intrapresi, con tutto quello che ciascuno di essi ha comportato.
A conferma del fatto che la grande storia d'amore, quella scritta nel nostro destino, non esiste ed è una costruzione sociale che ha fatto un sacco di danni; ci sono però le storie d'amore in cui tutti ci muoviamo con fatica e difficoltà, tra entusiasmi ed errori, ma che ci trasformano a poco a poco in quello che siamo e che diventiamo.
In questo senso, il documentario della Barreau è anche un film sulla memoria e sul tempo che passa: la memoria è lo strumento che tiene vivo il passato, ma che in fondo lo ricostruisce e lo rinnova, diventando dunque anche un'arma potente per combatterne il suo procedere inesorabile. Di solito il desiderio di ricostruire il proprio passato appartiene a una fase più avanzata della propria vita; la Barreau lo fa se vogliamo precocemente, anzi forse lo fa - più o meno consapevolmente - da tutta la vita.
Voto: 4/5
Nessun commento:
Posta un commento
Lascia qui un tuo commento... Se non hai un account Google o non sei iscritto al blog, lascialo come Anonimo (e se vuoi metti il tuo nome)!