Sempre più spesso negli ultimi anni accade che il mondo del teatro e quello del cinema si intersechino, si sovrappongano e si scambino testi e contenuti. Ci sono testi nati per il teatro che diventano sceneggiature di film di successo (gli esempi potrebbero essere numerosissimi, mi viene in mente ad esempio Carnage) e ci sono sceneggiature scritte per il cinema che vengono riadattate come testi per la messa in scena teatrale (vedi ad esempio lo spettacolo teatrale basato sul film Qualcuno volò sul nido del cuculo). Spesso sia gli uni che gli altri arrivano ancora da più lontano, ossia hanno alle spalle romanzi e racconti di autori più o meno famosi (penso ad esempio allo spettacolo teatrale Misery, basato sulla sceneggiatura del film di Reiner, a sua volta frutto dell'adattamento del romanzo di Stephen King).
Le diverse scritture dialogano tra loro e si trasformano in base alle necessità di comunicazione che caratterizzano ciascun mezzo. Gli esiti possono essere vari e l'operazione può risultare più o meno riuscita a seconda della capacità di interpretare e adattare un contenuto a un linguaggio differente.
Nel caso delle regie teatrali di Alessandro Gassmann, in cui - anche per motivi personali - questo legame con l'immaginario cinematografico è molto forte, l'osmosi tra il linguaggio cinematografico e quello teatrale è particolarmente evidente non solo nella scelta delle storie da raccontare, spesso provenienti da pellicole cinematografiche ovvero destinate a diventare film, bensì anche nella messa in scena, nel meccanismo narrativo e nelle scenografie.
Gassmann ama molto immergere gli attori che recitano sul palco all'interno di ambientazioni realistiche proiettate sull'apposito telo calato davanti al palco, e queste immagini - fisse o in movimento - si vanno a integrare con la scenografia fisica. Questa firma registica è pienamente confermata anche nello spettacolo Fronte del porto, ispirato alla sceneggiatura scritta da Budd Schulberg e diventata poi il film omonimo di Elia Kazan, poi adattata per il teatro dall'inglese Steven Berkoff da cui è partito l'autore del testo italiano Enrico Ianniello.
Rispetto alla sceneggiatura e al famoso film con Marlon Brando (che io però non ho visto!) il regista qui sceglie di ambientare la vicenda nel porto di Napoli negli anni Ottanta, quando il porto era completamente gestito dalla malavita. Il protagonista è Francesco Gargiulo (interpretato da Daniele Russo, interprete anche di un'altra regia teatrale di Gassmann, ossia Qualcuno volò sul nido del cuculo), un ex pugile che ora fa lo scaricatore di porto e suo malgrado deve sottostare alle imposizioni del boss locale, Giggino Compare (Ernesto Lama), tanto più che il fratello di Francesco fa parte della banda di quest'ultimo.
Quando Francesco si trova coinvolto nella morte di Beppe, ucciso dalla malavita perché voleva testimoniare a un processo, inizia a poco a poco un percorso di consapevolezza e presa di coscienza, favorito anche dall'incontro con don Bartolomeo (Emanuele Maria Basso) e dall'innamoramento per Erica (Francesca De Nicolais), la sorella di Beppe. Un uomo semplice e ruvido, ma anche mite e di buon cuore come Francesco andrà incontro a una metamorfosi e troverà il coraggio di prendere posizione mettendo a rischio la propria stessa vita.
La storia ricreata in questa ambientazione è resa coinvolgente e realistica, pur nella sua semplicità, da una scenografia molto efficace che, oltre ai video e alle immagini proiettate che mostrano i vicoli di Napoli e le banchine del porto, utilizza delle pareti che si muovono su sé stesse e sulle quali si aprono delle porte, diventando - a seconda dei casi e delle diverse scene - le pareti dei container al porto, l'ingresso o gli interni di case, i muri delle strade della città e così via.
Nel complesso lo spettacolo ha un ritmo molto serrato, è ben recitato e piuttosto coinvolgente, dunque risulta infine molto godibile. Non posso dire che mi abbia totalmente conquistata, sebbene io faccia fatica a capire esattamente perché: forse un po' perché conoscendo le regie di Gassmann mi aspettavo già un certo tipo di messinscena, o perché il mio cinismo non mi ha permesso di riconoscere come realistici e davvero possibili il cambiamento e il riscatto del protagonista. O forse niente di tutto questo, e solo una mia contingente predisposizione poco felice.
Il giudizio resta comunque positivo e lo spettacolo certamente da consigliare.
Voto: 3,5/5
sabato 28 dicembre 2019
martedì 24 dicembre 2019
Marriage story = Storia di un matrimonio
Charlie (Adam Driver) e Nicole (Scarlett Johansson) lavorano insieme, lui regista, lei attrice in una compagnia teatrale che sta per fare il grande salto a Broadway, ma sono anche marito e moglie e hanno un figlio di sette anni, Henry (Azhy Robertson). Nei primi dieci minuti del film ci viene raccontata la storia del loro amore: la voce di Nicole racconta quello che ama di Charlie, mentre sullo schermo passano piccoli frammenti di vita che traducono in immagini le parole; poi è invece il turno di Charlie nel dire cosa ama in Nicole e perché e noi vediamo altrettanti spezzoni della loro vita insieme.
Scopriamo però che si tratta dei testi che il mediatore familiare che li sta seguendo durante la separazione ha chiesto a ciascuno di loro di scrivere e che vorrebbe che leggessero all'altro. Nicole però si rifiuta di leggere quanto noi abbiamo già ascoltato, segnando la prima delle numerose chiusure e incomprensioni che caratterizzeranno il percorso accidentato che li porterà al divorzio.
Se infatti inizialmente Charlie e Nicole propendono per una separazione morbida e consensuale, la scelta di Nicole di abbandonare la compagnia teatrale, di trasferirsi da New York a Los Angeles per iniziare un nuovo lavoro, la volontà di restare a vivere in questa città con il figlio mettono in crisi i buoni propositi iniziali.
Nicole, alla ricerca quasi di un riscatto rispetto a un passato in cui percepisce di aver subito le scelte del marito, decide di rivolgersi a un avvocato, la melliflua Nora (Laura Dern), costringendo anche Charlie ad adire le vie legali in un'escalation del tutto sproporzionata e che a più riprese appare completamente fuori registro rispetto alla verità del rapporto esistente tra Charlie e Nicole, che in fondo è fatto ancora di rispetto e confidenza, e affetto reciproco.
Come sempre accade nel cinema di Noah Baumbach, anche Marriage story è un film principalmente di dialoghi e di attori, ed è solo a queste componenti che il regista (che è anche sceneggiatore) si affida per liberare il potenziale emotivo della narrazione. Il suo stile, come sa chi ha visto altri suoi lavori (io ho amato sia Frances Ha che Mistress America e conto di recuperare i suoi titoli precedenti come ad esempio Il calamaro e la balena), non è lacrimevole e non punta sulla commozione a tutti i costi, bensì è un inestricabile mix di ironia e dramma dal sapore squisitamente "newyorkese" (non a caso in questo film non mancano i riferimenti un po' sarcastici alla competizione e alle differenze tra New York e Los Angeles, confronto nel quale si incarna l'impossibilità sopraggiunta per Charlie e Nicole di stare insieme).
Baumbach rappresenta un ambiente che gli è molto familiare, quello giovane, intellettuale, artistico e borghese newyorkese, a cui lui stesso appartiene, e senza dubbio questa ambientazione caratterizza e rende specifica la storia di Charlie e Nicole, ma il regista riesce anche nel tentativo di universalizzare i sentimenti dei due protagonisti, cosicché nessuno - persino chi non è passato attraverso un divorzio - potrà sottrarsi all'identificazione con l'uno o l'altro dei protagonisti sia nei momenti emotivamente più intensi (penso al violentissimo litigio che si svolge nella casa che Charlie ha affittato a Los Angeles e che rappresenta il momento in cui si consuma definitivamente la rottura e da cui in qualche modo le vite dei due protagonisti ripartono), ma anche in alcuni passaggi apparentemente poco rilevanti ma che invece sono densi di significato (come ad esempio quando, di fronte all'indecisione di Charlie su cosa ordinare durante una riunione con i loro avvocati, Nicole ordina anche per lui).
Certamente il punto di vista di Charlie è quello che viene approfondito di più e a cui forse Baumbach guarda con occhio più compassionevole, fors'anche perché gli è più facile l'identificazione. Charlie e Nicole vengono però entrambi rappresentati in maniera articolata e complessa, senza demonizzare né colpevolizzare nessuno, ma provando a comprendere i punti di vista di due persone che - pur essendosi amate e forse amandosi ancora - devono fare i conti con le proprie ambizioni personali e il difficile bilanciamento tra le scelte familiari e il bisogno di essere fedeli a sé stessi.
Adam Driver (che dimostra di essere anche un eccellente cantante) e Scarlett Johansson sono maestosi nelle loro interpretazioni. Credibili, sinceri, struggenti nel trasmettere l'impossibilità di proseguire il loro percorso di coppia, perché l'amore da solo non basta a renderci felici e perché a volte la vita e i nostri desideri sono più complicati di quello che spereremmo. Marriage story (che è poi la storia di una separazione) è in fondo il racconto di una generazione che non accetta più le imposizioni sociali e i modelli di coppia del passato, e che nella ricerca di equilibri nuovi tra famiglia e individuo deve fare i conti con nuovi tipi di sofferenze.
Un grande film.
Voto: 4/5
Scopriamo però che si tratta dei testi che il mediatore familiare che li sta seguendo durante la separazione ha chiesto a ciascuno di loro di scrivere e che vorrebbe che leggessero all'altro. Nicole però si rifiuta di leggere quanto noi abbiamo già ascoltato, segnando la prima delle numerose chiusure e incomprensioni che caratterizzeranno il percorso accidentato che li porterà al divorzio.
Se infatti inizialmente Charlie e Nicole propendono per una separazione morbida e consensuale, la scelta di Nicole di abbandonare la compagnia teatrale, di trasferirsi da New York a Los Angeles per iniziare un nuovo lavoro, la volontà di restare a vivere in questa città con il figlio mettono in crisi i buoni propositi iniziali.
Nicole, alla ricerca quasi di un riscatto rispetto a un passato in cui percepisce di aver subito le scelte del marito, decide di rivolgersi a un avvocato, la melliflua Nora (Laura Dern), costringendo anche Charlie ad adire le vie legali in un'escalation del tutto sproporzionata e che a più riprese appare completamente fuori registro rispetto alla verità del rapporto esistente tra Charlie e Nicole, che in fondo è fatto ancora di rispetto e confidenza, e affetto reciproco.
Come sempre accade nel cinema di Noah Baumbach, anche Marriage story è un film principalmente di dialoghi e di attori, ed è solo a queste componenti che il regista (che è anche sceneggiatore) si affida per liberare il potenziale emotivo della narrazione. Il suo stile, come sa chi ha visto altri suoi lavori (io ho amato sia Frances Ha che Mistress America e conto di recuperare i suoi titoli precedenti come ad esempio Il calamaro e la balena), non è lacrimevole e non punta sulla commozione a tutti i costi, bensì è un inestricabile mix di ironia e dramma dal sapore squisitamente "newyorkese" (non a caso in questo film non mancano i riferimenti un po' sarcastici alla competizione e alle differenze tra New York e Los Angeles, confronto nel quale si incarna l'impossibilità sopraggiunta per Charlie e Nicole di stare insieme).
Baumbach rappresenta un ambiente che gli è molto familiare, quello giovane, intellettuale, artistico e borghese newyorkese, a cui lui stesso appartiene, e senza dubbio questa ambientazione caratterizza e rende specifica la storia di Charlie e Nicole, ma il regista riesce anche nel tentativo di universalizzare i sentimenti dei due protagonisti, cosicché nessuno - persino chi non è passato attraverso un divorzio - potrà sottrarsi all'identificazione con l'uno o l'altro dei protagonisti sia nei momenti emotivamente più intensi (penso al violentissimo litigio che si svolge nella casa che Charlie ha affittato a Los Angeles e che rappresenta il momento in cui si consuma definitivamente la rottura e da cui in qualche modo le vite dei due protagonisti ripartono), ma anche in alcuni passaggi apparentemente poco rilevanti ma che invece sono densi di significato (come ad esempio quando, di fronte all'indecisione di Charlie su cosa ordinare durante una riunione con i loro avvocati, Nicole ordina anche per lui).
Certamente il punto di vista di Charlie è quello che viene approfondito di più e a cui forse Baumbach guarda con occhio più compassionevole, fors'anche perché gli è più facile l'identificazione. Charlie e Nicole vengono però entrambi rappresentati in maniera articolata e complessa, senza demonizzare né colpevolizzare nessuno, ma provando a comprendere i punti di vista di due persone che - pur essendosi amate e forse amandosi ancora - devono fare i conti con le proprie ambizioni personali e il difficile bilanciamento tra le scelte familiari e il bisogno di essere fedeli a sé stessi.
Adam Driver (che dimostra di essere anche un eccellente cantante) e Scarlett Johansson sono maestosi nelle loro interpretazioni. Credibili, sinceri, struggenti nel trasmettere l'impossibilità di proseguire il loro percorso di coppia, perché l'amore da solo non basta a renderci felici e perché a volte la vita e i nostri desideri sono più complicati di quello che spereremmo. Marriage story (che è poi la storia di una separazione) è in fondo il racconto di una generazione che non accetta più le imposizioni sociali e i modelli di coppia del passato, e che nella ricerca di equilibri nuovi tra famiglia e individuo deve fare i conti con nuovi tipi di sofferenze.
Un grande film.
Voto: 4/5
domenica 22 dicembre 2019
Un weekend nell'agro pontino: Sperlonga e dintorni
Sperlonga: Spiaggia di Ponente dal centro storico |
Partiamo da Roma con la nostra macchinina a noleggio (questa volta sperimentiamo con successo un nuovo noleggiatore di Termini, Green Motion) e arriviamo a Sperlonga con la pioggia, quando è già ampiamente ora di cena. Il corso della cittadina moderna (Sperlonga di giù) è praticamente deserto, ma noi abbiamo già verificato su Internet che qui troveremo uno dei pochi ristoranti aperti in paese fuori stagione, ossia il ristorante Tropical. Qui siamo le uniche clienti, ma alla fine la nostra cena di pesce sarà più che soddisfacente. Dopo cena andiamo a parcheggiare in uno dei parcheggi coperti alle porte del centro storico (che in inverno sono gratuiti) e ci incamminiamo per le stradine che risultano al contempo spettrali e affascinanti nel loro essere completamente deserte. Alla fine arriviamo nel nostro monolocale, piccolo, ma abbastanza accogliente che ci ospiterà in questo fine settimana.
Sperlonga: Spiaggia di Levante |
Risaliamo per le scale e le stradine di pietra, facciamo un po' di spesa in un negozietto del centro storico, e poi andiamo a prendere la macchina. La nostra prima destinazione - da buongustaie e buone forchette quali siamo - è il Caseificio Casabianca, dove compriamo un chilo di mozzarella di bufala nonché scamorza di bufala, salsiccia di monte san Biagio, formaggio misto ecc. Parte delle cose che compriamo sono per i nostri pranzi del weekend, parte è destinata a tornare con noi a Roma. Sulle strade piattissime che attraversano l'agro pontino e che percorreremo in lungo e in largo in questi due giorni incontreremo tantissimi stranieri in bicicletta, che sicuramente lavorano nelle numerose aziende agricole che sorgono in questa zona.
Sperlonga: Spiaggia di Levante e Torre Truglia |
Sperlonga vista dalla villa di Tiberio |
Il mare di Sperlonga |
Il giorno dopo (che purtroppo è già la domenica della partenza) piove a dirotto (in realtà ha cominciato già la sera prima): lasciamo la casetta e andiamo verso Gaeta per un giro e una fetta di 'tiella'. Quando arriviamo per fortuna piove molto poco, e così riusciamo a visitare la chiesa della Santissima Annunziata, dove possiamo ammirare la cosiddetta Cappella d'oro, poi la cattedrale, da dove si ha la possibilità di abbracciare la città vecchia con un unico sguardo, e infine scendiamo al porto, dove ci fermiamo alla Pizzeria del porto per la tiella (ottima!).
Sperlonga: Spiaggia di Ponente all'imbrunire |
Priverno: Abbazia di Fossanova |
Purtroppo il weekend è già finito, ma siamo carichi di prelibatezze pontine da gustare nelle prossime settimane e ci portiamo dentro la vista e il rumore del mare per i mesi in cui ne saremo lontane.
Per qualche foto in più della gita guarda qui.
venerdì 20 dicembre 2019
L'abisso / Davide Enia. Teatro India, 12 dicembre 2019
Lo spettacolo L'abisso è la trasposizione teatrale del testo che Davide Enia ha pubblicato per Sellerio con il titolo Appunti per un naufragio. Sul palco lo stesso Enia, palermitano, classe 1974, considerato uno degli esponenti italiani del cosiddetto 'teatro di narrazione', alla maniera di Marco Paolini e Ascanio Celestini, affiancato dal chitarrista Giulio Barocchieri, anch'egli palermitano, compositore nonché esecutore - con la chitarra classica ed elettrica - delle musiche, splendide e affascinanti, oltre che perfettamente eseguite, che accompagnano lo spettacolo.
Le luci si accendono sulle due sedie dove sono seduti il musicista e il narratore, e dopo qualche secondo di silenzio, Enia guarda il pubblico negli occhi e comincia il suo racconto, come se riprendesse il filo di un discorso iniziato ben prima. E così, iniziando dal dialogo con il sommozzatore (il rescue swimmer) che "non è di sinistra, anzi sta proprio dall'altra parte", ma arriva dal nord per salvare vite umane nel Mediterraneo perché "questa è la legge del mare", Enia srotola davanti ai nostri occhi le storie di tante persone, mescolando privato e pubblico, personale e collettivo, e lo fa da testimone che a un certo punto della vita ha deciso di recarsi volontariamente a Lampedusa, insieme a suo padre, per conoscere più da vicino la vicenda degli sbarchi.
Dentro questo racconto trovano spazio tante cose diverse: il rapporto tra lo stesso Davide e suo padre, un uomo di poche parole ma di profondi sentimenti, quello con la malattia e poi la morte dell'amatissimo zio, le storie di Paola e Melo, i due amici che hanno una casa a Lampedusa e che sono stati protagonisti di un drammatico salvataggio di naufraghi, e poi la figura di Vincenzo, il guardiano del cimitero di Lampedusa e la pietas con cui persegue l'obiettivo di dare sepoltura a tutti i morti, indipendentemente dalle origini e dal colore della pelle, e ancora i racconti dei rocamboleschi salvataggi in mare, come quello epico che ricongiunge un padre con il figlio piccolo, le storie di orrore di chi è sopravvissuto, e soprattutto le morti, a centinaia, a migliaia, che hanno trasformato il Mediterraneo in un mare in cui i cadaveri sono numerosi quanto i pesci.
In questa cavalcata narrativa, Enia alterna la lingua italiana al dialetto siciliano, la prosa al canto, i modi di dire alle interpretazioni, e il dolore privato viaggia di pari passo con quello che deve essere necessariamente pubblico, fino al momento in cui queste due dimensioni confluiscono e si mescolano indissolubilmente, perché il dolore è uno solo e non conta quanti sono i gradi di separazione che ti allontanano dall'altro.
Il testo di Enia è potente e procede in un crescendo che conquista gli animi degli spettatori e muove corde emotive profonde.
A dire la verità, inizialmente, lo stile recitativo di Enia, con il suo modo di gesticolare tra l'artefatto e il robotico, a tratti con una modalità quasi mimica, mi hanno lasciato un po' perplessa e non hanno certamente favorito l'empatia e il coinvolgimento emotivo. Poi mano mano, fors'anche perché lo stesso Enia si è andato un po' ammorbidendo in questa modalità recitativa, mi sono lasciata conquistare dal racconto.
Al termine dello spettacolo, nel fare un bilancio mentale di quanto appena visto, ho avuto la sensazione che il racconto legato alla propria storia privata fosse emotivamente più diretto, mentre quello degli sbarchi, dei naufragi e dei salvataggi fosse più mediato, e mi sono chiesta se non si sia trattato addirittura di una scelta dell'autore volta a prendere un minimo di necessaria distanza emotiva da cose in fondo sproporzionate e troppo più grandi di quello che un essere umano può sopportare. O forse si tratta semplicemente di uno stile recitativo particolare cui io non sono abituata.
Ciò detto, lo spettacolo resta di grandissimo impatto e il teatro di narrazione si conferma tra i miei preferiti.
Voto: 4/5
Le luci si accendono sulle due sedie dove sono seduti il musicista e il narratore, e dopo qualche secondo di silenzio, Enia guarda il pubblico negli occhi e comincia il suo racconto, come se riprendesse il filo di un discorso iniziato ben prima. E così, iniziando dal dialogo con il sommozzatore (il rescue swimmer) che "non è di sinistra, anzi sta proprio dall'altra parte", ma arriva dal nord per salvare vite umane nel Mediterraneo perché "questa è la legge del mare", Enia srotola davanti ai nostri occhi le storie di tante persone, mescolando privato e pubblico, personale e collettivo, e lo fa da testimone che a un certo punto della vita ha deciso di recarsi volontariamente a Lampedusa, insieme a suo padre, per conoscere più da vicino la vicenda degli sbarchi.
Dentro questo racconto trovano spazio tante cose diverse: il rapporto tra lo stesso Davide e suo padre, un uomo di poche parole ma di profondi sentimenti, quello con la malattia e poi la morte dell'amatissimo zio, le storie di Paola e Melo, i due amici che hanno una casa a Lampedusa e che sono stati protagonisti di un drammatico salvataggio di naufraghi, e poi la figura di Vincenzo, il guardiano del cimitero di Lampedusa e la pietas con cui persegue l'obiettivo di dare sepoltura a tutti i morti, indipendentemente dalle origini e dal colore della pelle, e ancora i racconti dei rocamboleschi salvataggi in mare, come quello epico che ricongiunge un padre con il figlio piccolo, le storie di orrore di chi è sopravvissuto, e soprattutto le morti, a centinaia, a migliaia, che hanno trasformato il Mediterraneo in un mare in cui i cadaveri sono numerosi quanto i pesci.
In questa cavalcata narrativa, Enia alterna la lingua italiana al dialetto siciliano, la prosa al canto, i modi di dire alle interpretazioni, e il dolore privato viaggia di pari passo con quello che deve essere necessariamente pubblico, fino al momento in cui queste due dimensioni confluiscono e si mescolano indissolubilmente, perché il dolore è uno solo e non conta quanti sono i gradi di separazione che ti allontanano dall'altro.
Il testo di Enia è potente e procede in un crescendo che conquista gli animi degli spettatori e muove corde emotive profonde.
A dire la verità, inizialmente, lo stile recitativo di Enia, con il suo modo di gesticolare tra l'artefatto e il robotico, a tratti con una modalità quasi mimica, mi hanno lasciato un po' perplessa e non hanno certamente favorito l'empatia e il coinvolgimento emotivo. Poi mano mano, fors'anche perché lo stesso Enia si è andato un po' ammorbidendo in questa modalità recitativa, mi sono lasciata conquistare dal racconto.
Al termine dello spettacolo, nel fare un bilancio mentale di quanto appena visto, ho avuto la sensazione che il racconto legato alla propria storia privata fosse emotivamente più diretto, mentre quello degli sbarchi, dei naufragi e dei salvataggi fosse più mediato, e mi sono chiesta se non si sia trattato addirittura di una scelta dell'autore volta a prendere un minimo di necessaria distanza emotiva da cose in fondo sproporzionate e troppo più grandi di quello che un essere umano può sopportare. O forse si tratta semplicemente di uno stile recitativo particolare cui io non sono abituata.
Ciò detto, lo spettacolo resta di grandissimo impatto e il teatro di narrazione si conferma tra i miei preferiti.
Voto: 4/5
mercoledì 18 dicembre 2019
Kobane calling on stage. Teatro Vittoria, 10 dicembre 2019
Kobane calling è forse il fumetto di Zerocalcare che mi è piaciuto di più, come del resto si capisce anche dalla mia recensione. In questo albo, in cui si racconta del viaggio di un gruppo di amici nel Rojava, ho trovato non solo lo spirito ironico-romanesco dell'autore, ma anche un lavoro di graphic journalism che mi ha ricordato - fatte le dovute differenze - alcuni dei lavori più riusciti di Guy Delisle.
Tra l'altro, dopo le recenti notizie sul cambiamento degli scenari in quell'area dello scacchiere geopolitico con il rafforzamento ulteriore del ruolo della Turchia di Erdogan e sullo stop alla costituzione di uno stato autonomo curdo, lo spettacolo - che racconta un momento ben diverso della vicenda del Rojava - acquista tutto un altro sapore e lascia un certo qual amaro in bocca.
È per questo che, quando ho letto che Kobane calling diventava uno spettacolo teatrale grazie all'adattamento e alla regia di Nicola Zavagli, mi sono fiondata a comprare i biglietti. La messa in scena, che è stata realizzata anche con la collaborazione dello stesso Zerocalcare, si conferma molto rispettosa dell'opera dalla quale proviene. Sul fondo del palcoscenico vengono proiettati alcuni disegni di Zerocalcare, tratti dal graphic novel o forse anche realizzati in parte appositamente per lo spettacolo, e questi disegni definiscono contesti e richiamano alcuni passaggi narrativi, aiutando lo spettatore a orientarsi in un racconto che non ha altra scenografia all'infuori di questa. Il palco è libero da oggetti, e invece spesso affollato spesso di persone, conferendo alla messa in scena un respiro corale; il racconto si avvale inoltre di musiche originali e di un attento lavoro sulle luci.
Se la narrazione del viaggio, pur avendo le sue difficoltà, costituisce forse la parte più semplice da trasformare in spettacolo teatrale, le digressioni narrative e gli inserti - tipici dei fumetti di Zerocalcare - in cui l'autore dialoga con i suoi demoni interiori (talvolta trasformati in animali o personaggi dei cartoni, ad esempio l'armadillo, il mammuth, George Pig) potevano rappresentare una difficoltà maggiore. Il regista ha scelto soluzioni diverse per rendere questi momenti comprensibili allo spettatore e capaci di trasmettere lo spirito originario: in particolare, nel caso degli interlocutori immaginari, si è scelto di realizzare una specie di grandi copricapi in cartapesta (?) che alcuni attori portano nel momento in cui li impersonano, e devo dire che alcuni di loro sono particolarmente bravi ed efficaci.
Nel complesso uno spettacolo gradevole, anche se non posso tacere che mi ha fatto un effetto un po' strano vedere i personaggi, le storie e i modi di essere di Zerocalcare trasformati in persone reali e in azioni. Lorenzo Parrotto, che interpreta Zerocalcare, è bravo e credibile, anche se la sua lettura del protagonista mi è risultata un po' sopra le righe rispetto alla mia idea di Michele Rech; d'altra parte è vero che Michele, nel suo alter ego a fumetti, dà spazio ad aspetti della sua personalità che non emergono da una conoscenza superficiale della sua persona.
Infine, considerato che Kobane calling on stage è un'opera corale, fatta soprattutto di attori, bisogna rendere merito anche agli altri interpreti, ossia Massimiliano Aceti, Luigi Biava, Fabio Cavalieri, Francesco Giordano, Carlotta Mangione, Alessandro Marmorini, Davide Paciolla, Cristina Poccardi, Marcello Sbigoli, cui si aggiungono anche i giovani attori di Teatri d’Imbarco, Andrea Falli, Martina Gnesini, Jacopo Lunghini, Francois Meshreki, Niccolò Tacchini, Gabriele Tiglio, Matilde Zavagli.
Voto: 3,5/5
Tra l'altro, dopo le recenti notizie sul cambiamento degli scenari in quell'area dello scacchiere geopolitico con il rafforzamento ulteriore del ruolo della Turchia di Erdogan e sullo stop alla costituzione di uno stato autonomo curdo, lo spettacolo - che racconta un momento ben diverso della vicenda del Rojava - acquista tutto un altro sapore e lascia un certo qual amaro in bocca.
È per questo che, quando ho letto che Kobane calling diventava uno spettacolo teatrale grazie all'adattamento e alla regia di Nicola Zavagli, mi sono fiondata a comprare i biglietti. La messa in scena, che è stata realizzata anche con la collaborazione dello stesso Zerocalcare, si conferma molto rispettosa dell'opera dalla quale proviene. Sul fondo del palcoscenico vengono proiettati alcuni disegni di Zerocalcare, tratti dal graphic novel o forse anche realizzati in parte appositamente per lo spettacolo, e questi disegni definiscono contesti e richiamano alcuni passaggi narrativi, aiutando lo spettatore a orientarsi in un racconto che non ha altra scenografia all'infuori di questa. Il palco è libero da oggetti, e invece spesso affollato spesso di persone, conferendo alla messa in scena un respiro corale; il racconto si avvale inoltre di musiche originali e di un attento lavoro sulle luci.
Se la narrazione del viaggio, pur avendo le sue difficoltà, costituisce forse la parte più semplice da trasformare in spettacolo teatrale, le digressioni narrative e gli inserti - tipici dei fumetti di Zerocalcare - in cui l'autore dialoga con i suoi demoni interiori (talvolta trasformati in animali o personaggi dei cartoni, ad esempio l'armadillo, il mammuth, George Pig) potevano rappresentare una difficoltà maggiore. Il regista ha scelto soluzioni diverse per rendere questi momenti comprensibili allo spettatore e capaci di trasmettere lo spirito originario: in particolare, nel caso degli interlocutori immaginari, si è scelto di realizzare una specie di grandi copricapi in cartapesta (?) che alcuni attori portano nel momento in cui li impersonano, e devo dire che alcuni di loro sono particolarmente bravi ed efficaci.
Nel complesso uno spettacolo gradevole, anche se non posso tacere che mi ha fatto un effetto un po' strano vedere i personaggi, le storie e i modi di essere di Zerocalcare trasformati in persone reali e in azioni. Lorenzo Parrotto, che interpreta Zerocalcare, è bravo e credibile, anche se la sua lettura del protagonista mi è risultata un po' sopra le righe rispetto alla mia idea di Michele Rech; d'altra parte è vero che Michele, nel suo alter ego a fumetti, dà spazio ad aspetti della sua personalità che non emergono da una conoscenza superficiale della sua persona.
Infine, considerato che Kobane calling on stage è un'opera corale, fatta soprattutto di attori, bisogna rendere merito anche agli altri interpreti, ossia Massimiliano Aceti, Luigi Biava, Fabio Cavalieri, Francesco Giordano, Carlotta Mangione, Alessandro Marmorini, Davide Paciolla, Cristina Poccardi, Marcello Sbigoli, cui si aggiungono anche i giovani attori di Teatri d’Imbarco, Andrea Falli, Martina Gnesini, Jacopo Lunghini, Francois Meshreki, Niccolò Tacchini, Gabriele Tiglio, Matilde Zavagli.
Voto: 3,5/5
lunedì 16 dicembre 2019
Ara Malikian. Auditorium Parco della Musica, 5 dicembre 2019
Su stimolo di F., mi faccio incuriosire da questo violinista libanese di origine armena che si esibisce a Roma, all'Auditorium, nell'ambito del suo World Garage Tour.
Sul palco - allestito con grande cura e con un sapiente gioco di luci - si esibisce una band composta di sette persone, oltre a Malikian, per un totale di nove strumenti: un pianoforte, un basso e un contrabbasso suonati dallo stesso musicista, un altro violino, una viola, un violoncello, una chitarra e una batteria. Al centro di questo consesso musicale il violino di Malikian, strumento che il musicista domina in tutte le sue manifestazioni e che suona in modo molto fisico, saltando e ballando a ritmo di musica.
Del resto Malikian non ha certo l'aspetto del violinista classico, ma più quello del musicista di strada, e il suo repertorio spazia dalla musica classica alla musica popolare, dal jazz al rock fino ad arrivare al reggae e alla musica per il cinema. I pezzi in scaletta sono in parte sue composizioni originali, in parte esecuzioni di brani classici o rivisitazioni al violino di brani di altri musicisti e di diversa provenienza.
E in questo universo musicale variegato Malikian si muove sempre con disinvoltura e padronanza di sé, trovando in qualche modo un fil rouge che unisce tutti questi mondi così lontani l'uno dall'altro.
Scopriamo presto che il successo di Malikian non è soltanto legato al suo virtuosismo musicale, ma anche alle sue doti di affabulatore. Dopo i primi brani, il musicista si rivolge direttamente al pubblico nel suo italiano un po' spagnoleggiante, ma comprensibilissimo e a suo modo affascinante, e comincia a raccontare aneddoti sulla sua vita e sulle circostanze in cui sono nate alcune canzoni.
Gli aneddoti sono a tratti esilaranti: ad esempio quello del suo trasferimento in Germania e di come finì a suonare per i matrimoni senza capire nulla di quello che i tedeschi gli dicevano ma rispondendo solo di sì, o ancora quello della sua esperienza con un gruppo musicale norvegese nel quale suonava vestito da castoro.
A un certo punto ci si chiede se le storie incredibili che racconta siano vere o comunque quanto ci sia di vero in queste vicende, ma il modo di raccontare è talmente piacevole, ironico e autoironico che è evidente che il pubblico starebbe ad ascoltarlo per ore e certo non sta lì a chiedersi se quello che ascolta corrisponde alla pura verità storica.
È piacevole anche il modo in cui il violinista interagisce sul palco con i suoi musicisti e in generale si ha l'impressione che l'esecuzione musicale sia fonte di divertimento per tutti.
Nel complesso lo spettacolo è perfetto in ogni sua componente, ed è difficile dire quanto ci sia di spontaneo e quanto invece sia il frutto di una programmazione e una costruzione molto attenta e minuziosa. La stessa cosa è inevitabile chiedersela in merito alla presunta spontaneità di Malikian, che probabilmente è almeno in parte studiata a tavolino, sebbene in fin dei conti molto efficace.
Personalmente, questo mix di generi musicali, questo stile diciamo fusion, non è qualcosa che rientra perfettamente nelle mie corde, forse perché risulta da un lato destabilizzante, dall'altro un po' piacione nell'accontentare praticamente tutti i palati.
Scherzosamente e forse in modo un po' indelicato, all'uscita ho detto che a tratti il concerto mi ha fatto pensare ai Rondò veneziano. Sicuramente da parte mia è un giudizio superficiale e decisamente ingiusto, ma è un po' l'effetto che questo tipo di scelta musicale produce su di me.
E comunque, nonostante questo, Malikian mi ha tenuta sveglia e attiva per oltre due ore di concerto e chiacchiere, e questo mi pare già uno straordinario risultato.
Voto: 3/5
Sul palco - allestito con grande cura e con un sapiente gioco di luci - si esibisce una band composta di sette persone, oltre a Malikian, per un totale di nove strumenti: un pianoforte, un basso e un contrabbasso suonati dallo stesso musicista, un altro violino, una viola, un violoncello, una chitarra e una batteria. Al centro di questo consesso musicale il violino di Malikian, strumento che il musicista domina in tutte le sue manifestazioni e che suona in modo molto fisico, saltando e ballando a ritmo di musica.
Del resto Malikian non ha certo l'aspetto del violinista classico, ma più quello del musicista di strada, e il suo repertorio spazia dalla musica classica alla musica popolare, dal jazz al rock fino ad arrivare al reggae e alla musica per il cinema. I pezzi in scaletta sono in parte sue composizioni originali, in parte esecuzioni di brani classici o rivisitazioni al violino di brani di altri musicisti e di diversa provenienza.
E in questo universo musicale variegato Malikian si muove sempre con disinvoltura e padronanza di sé, trovando in qualche modo un fil rouge che unisce tutti questi mondi così lontani l'uno dall'altro.
Scopriamo presto che il successo di Malikian non è soltanto legato al suo virtuosismo musicale, ma anche alle sue doti di affabulatore. Dopo i primi brani, il musicista si rivolge direttamente al pubblico nel suo italiano un po' spagnoleggiante, ma comprensibilissimo e a suo modo affascinante, e comincia a raccontare aneddoti sulla sua vita e sulle circostanze in cui sono nate alcune canzoni.
Gli aneddoti sono a tratti esilaranti: ad esempio quello del suo trasferimento in Germania e di come finì a suonare per i matrimoni senza capire nulla di quello che i tedeschi gli dicevano ma rispondendo solo di sì, o ancora quello della sua esperienza con un gruppo musicale norvegese nel quale suonava vestito da castoro.
A un certo punto ci si chiede se le storie incredibili che racconta siano vere o comunque quanto ci sia di vero in queste vicende, ma il modo di raccontare è talmente piacevole, ironico e autoironico che è evidente che il pubblico starebbe ad ascoltarlo per ore e certo non sta lì a chiedersi se quello che ascolta corrisponde alla pura verità storica.
È piacevole anche il modo in cui il violinista interagisce sul palco con i suoi musicisti e in generale si ha l'impressione che l'esecuzione musicale sia fonte di divertimento per tutti.
Nel complesso lo spettacolo è perfetto in ogni sua componente, ed è difficile dire quanto ci sia di spontaneo e quanto invece sia il frutto di una programmazione e una costruzione molto attenta e minuziosa. La stessa cosa è inevitabile chiedersela in merito alla presunta spontaneità di Malikian, che probabilmente è almeno in parte studiata a tavolino, sebbene in fin dei conti molto efficace.
Personalmente, questo mix di generi musicali, questo stile diciamo fusion, non è qualcosa che rientra perfettamente nelle mie corde, forse perché risulta da un lato destabilizzante, dall'altro un po' piacione nell'accontentare praticamente tutti i palati.
Scherzosamente e forse in modo un po' indelicato, all'uscita ho detto che a tratti il concerto mi ha fatto pensare ai Rondò veneziano. Sicuramente da parte mia è un giudizio superficiale e decisamente ingiusto, ma è un po' l'effetto che questo tipo di scelta musicale produce su di me.
E comunque, nonostante questo, Malikian mi ha tenuta sveglia e attiva per oltre due ore di concerto e chiacchiere, e questo mi pare già uno straordinario risultato.
Voto: 3/5
venerdì 13 dicembre 2019
L'inconfondibile tristezza della torta al limone / Aimee Bender
L'inconfondibile tristezza della torta al limone / Aimee Bender; tra di Damiano Abeni e Moira Egan. Roma: minimum fax, 2011.
Rose ha nove anni. Vive a Los Angeles con i suoi genitori e suo fratello maggiore Joseph. Suo padre è un avvocato molto abitudinario che si tiene un po' ai margini della vita familiare; sua madre è un'inquieta sempre alla ricerca di nuovi stimoli che la tirino fuori dalla monotonia e dalla tristezza della quotidianità. Joseph è un ragazzino silenzioso e solitario, appassionato di scienze, che a scuola ha un unico amico, George. Rose invece è una bambina sensibile, che faticosamente fa i conti con la percezione che sua madre ami di più suo fratello.
In questa famiglia apparentemente come molte altre, ben presto Rose si accorge di avere una strana abilità: quando mangia, non solo riconosce tutti gli ingredienti e le provenienze dei cibi, ma percepisce anche i sentimenti di chi quei cibi li ha preparati. Inizialmente questa scoperta è sconvolgente: innanzitutto perché la costringe suo malgrado a entrare nei segreti delle altre persone (come se leggesse il loro diario intimo) e proprio così scopre prima che sua madre è infelice e poi che ha un amante; in secondo luogo, perché nutrirsi diventa difficile e faticoso in quanto la maggior parte del cibo riversa su Rose una quantità di sensazioni spesso negative e disturbanti che lo rendono immangiabile.
Ben presto, si capisce che Rose non è l'unica 'strana' in famiglia, dal momento che suo fratello Joseph è protagonista di alcune inspiegabili sparizioni, salvo poi ricomparire come nulla fosse.
Non sarebbe corretto rivelare di più della trama di questo libro di Aimee Bender, finito nella lista dei 100 migliori degli anni Duemila secondo Vulture (il magazine del New York Times), perché i colpi di scena e le sorprese non mancano man mano che si procede nella lettura. E arrivati all'ultima pagina non tutti gli interrogativi trovano una risposta, sebbene molti misteri siano stati rivelati.
Il romanzo della Bender adotta uno stile tra il realistico e il visionario e potrebbe collocarsi a buon diritto tra i romanzi per giovani-adulti, non solo perché la storia è raccontata dalla protagonista che conosciamo novenne e salutiamo ultraventenne, ma perché a suo modo si può considerare un racconto di formazione, per quanto anomalo.
Il percorso di Rose - e parallelamente quello di Joseph - non è scandito da viaggi, avventure mirabolanti e memorabili incontri, ma da un'evoluzione tutta interiore attraverso cui la protagonista non solo dovrà fare pace con una parte di sé che la sconvolge e la fa soffrire, ma imparerà a farne tesoro e a trasformarla in una propria peculiarità e in un proprio punto di forza.
C'è chi nella vita ha la fortuna di non avere grandi mostri da affrontare per crescere e di poterlo fare in maniera equilibrata e integrata, e chi invece - forse perché dotato di una sensibilità particolare (dono, ma anche condanna) - deve mettersi con coraggio di fronte a sé stesso e alla vita per poter attraversare il guado che lo porterà all'età adulta. C'è chi non sopravvive, c'è chi sceglie di restare ai margini della vita per non rischiare e non soffrire, e infine chi con fatica trova la propria strada, magari contorta, ma che gli permette di non affondare e anzi di dare un senso alla propria esistenza.
Voto: 3,5/5
Rose ha nove anni. Vive a Los Angeles con i suoi genitori e suo fratello maggiore Joseph. Suo padre è un avvocato molto abitudinario che si tiene un po' ai margini della vita familiare; sua madre è un'inquieta sempre alla ricerca di nuovi stimoli che la tirino fuori dalla monotonia e dalla tristezza della quotidianità. Joseph è un ragazzino silenzioso e solitario, appassionato di scienze, che a scuola ha un unico amico, George. Rose invece è una bambina sensibile, che faticosamente fa i conti con la percezione che sua madre ami di più suo fratello.
In questa famiglia apparentemente come molte altre, ben presto Rose si accorge di avere una strana abilità: quando mangia, non solo riconosce tutti gli ingredienti e le provenienze dei cibi, ma percepisce anche i sentimenti di chi quei cibi li ha preparati. Inizialmente questa scoperta è sconvolgente: innanzitutto perché la costringe suo malgrado a entrare nei segreti delle altre persone (come se leggesse il loro diario intimo) e proprio così scopre prima che sua madre è infelice e poi che ha un amante; in secondo luogo, perché nutrirsi diventa difficile e faticoso in quanto la maggior parte del cibo riversa su Rose una quantità di sensazioni spesso negative e disturbanti che lo rendono immangiabile.
Ben presto, si capisce che Rose non è l'unica 'strana' in famiglia, dal momento che suo fratello Joseph è protagonista di alcune inspiegabili sparizioni, salvo poi ricomparire come nulla fosse.
Non sarebbe corretto rivelare di più della trama di questo libro di Aimee Bender, finito nella lista dei 100 migliori degli anni Duemila secondo Vulture (il magazine del New York Times), perché i colpi di scena e le sorprese non mancano man mano che si procede nella lettura. E arrivati all'ultima pagina non tutti gli interrogativi trovano una risposta, sebbene molti misteri siano stati rivelati.
Il romanzo della Bender adotta uno stile tra il realistico e il visionario e potrebbe collocarsi a buon diritto tra i romanzi per giovani-adulti, non solo perché la storia è raccontata dalla protagonista che conosciamo novenne e salutiamo ultraventenne, ma perché a suo modo si può considerare un racconto di formazione, per quanto anomalo.
Il percorso di Rose - e parallelamente quello di Joseph - non è scandito da viaggi, avventure mirabolanti e memorabili incontri, ma da un'evoluzione tutta interiore attraverso cui la protagonista non solo dovrà fare pace con una parte di sé che la sconvolge e la fa soffrire, ma imparerà a farne tesoro e a trasformarla in una propria peculiarità e in un proprio punto di forza.
C'è chi nella vita ha la fortuna di non avere grandi mostri da affrontare per crescere e di poterlo fare in maniera equilibrata e integrata, e chi invece - forse perché dotato di una sensibilità particolare (dono, ma anche condanna) - deve mettersi con coraggio di fronte a sé stesso e alla vita per poter attraversare il guado che lo porterà all'età adulta. C'è chi non sopravvive, c'è chi sceglie di restare ai margini della vita per non rischiare e non soffrire, e infine chi con fatica trova la propria strada, magari contorta, ma che gli permette di non affondare e anzi di dare un senso alla propria esistenza.
Voto: 3,5/5
mercoledì 11 dicembre 2019
Master Cheng
La mia amica A. mi segnala la European Cinema Night, seconda edizione di un evento speciale promosso dal Sottoprogramma MEDIA di Europa Creativa della Commissione Europea in collaborazione con il network Europa Cinemas, che si tiene dal 3 al 7 dicembre in diverse città europee per celebrare la ricchezza della cultura cinematografica europea. A Roma la serata si svolge al Cinema Farnese, diventato ormai un punto di riferimento per i cinefili della capitale, ed è dedicata al film di Mika Kaurismaki (fratello del più famoso Aki), Master Cheng.
La proiezione del film costituisce anche la preapertura del Tertio Millennio Film Fest, in programma alla Casa del Cinema dal 10 al 13 dicembre, di cui personalmente non conoscevo l'esistenza pur essendo quest'anno alla XXXIII edizione.
La sala è piena, e prima della proiezione il direttore del cinema lascia la parola a una rappresentante della Commissione europea, a una del MEDIA Desk di Roma, agli organizzatori del Tertio Millennio Film Fest, e infine a Mika Kaurismaki, che tornerà a dialogare col pubblico alla fine del film.
Master Cheng è una commedia di ambientazione finlandese, per l'esattezza lappone, che parla dell'incontro tra due culture decisamente lontane, quella finlandese appunto e quella cinese. Un giorno, a Pohjanjoki, un paesino sperduto della Lapponia, arrivano il signor Cheng (Pak Hon Chu) e suo figlio Nunjo (Lucas Hsuan) in cerca di un fantomatico signor Fongtron. Si fermano per bere un thè e mangiare qualcosa alla locanda di Sirkka (Anna-Maija Tuokko), la quale impietosita offre loro anche una stanza dove dormire.
La locanda diviene così un punto di riferimento per padre e figlio in attesa di capire chi sia e dove possono trovare la persona che cercano. Un giorno, quando un autobus turistico carico di cinesi va in panne proprio davanti alla locanda, Cheng, che è in realtà un cuoco professionista, decide di mettersi in cucina per preparare il pasto e, non solo accontenta la clientela cinese, ma a poco a poco conquista anche quella locale.
Man mano che la conoscenza reciproca cresce, altri dettagli sulla storia di Cheng - ma anche su quella di Sirkka - vengono fuori, mentre tra i due si fa largo un sentimento che va al di là dell'amicizia.
Il film di Kaurismaki, come lo stesso regista ha avuto modo di confermare, è una fiaba di buoni sentimenti che vuol essere una risposta cinematografica al difficile momento che il mondo sta vivendo e alla tendenza dei governanti e capi popolo ad alimentare divisioni e odio, anziché a stimolare l'incontro tra le diversità.
Non ha dunque molto senso andare a cercare complessità o sofisticatezza in un film che parla di sentimenti in fondo semplici e di rapporti umani, e lo fa anche e soprattutto attraverso il linguaggio universale del cibo, nonché attraverso un approccio che oscilla tra l'ironico e il malinconico, un tratto tra l'altro squisitamente finlandese.
Il master Cheng del titolo fa un po' pensare al masterchef della famosa trasmissione, del resto Cheng in cucina dimostra una perizia invidiabile e utilizza il cibo come primo strumento di comunicazione con una cultura e un mondo che non conosce. Se dunque i vecchi finlandesi che svernano alla taverna di Sirkka troveranno nel cibo di Cheng nuova energia e nuova voglia di vivere, Cheng di converso scoprirà i benefici del silenzio e dei grandi spazi finlandesi. E questo incontro sarà l'apertura di un nuovo futuro.
Un film che non piacerà probabilmente ai palati dei cinefili più sofisticati, ma che ogni tanto fa molto bene poter vedere al cinema.
Voto: 3/5
La proiezione del film costituisce anche la preapertura del Tertio Millennio Film Fest, in programma alla Casa del Cinema dal 10 al 13 dicembre, di cui personalmente non conoscevo l'esistenza pur essendo quest'anno alla XXXIII edizione.
La sala è piena, e prima della proiezione il direttore del cinema lascia la parola a una rappresentante della Commissione europea, a una del MEDIA Desk di Roma, agli organizzatori del Tertio Millennio Film Fest, e infine a Mika Kaurismaki, che tornerà a dialogare col pubblico alla fine del film.
Master Cheng è una commedia di ambientazione finlandese, per l'esattezza lappone, che parla dell'incontro tra due culture decisamente lontane, quella finlandese appunto e quella cinese. Un giorno, a Pohjanjoki, un paesino sperduto della Lapponia, arrivano il signor Cheng (Pak Hon Chu) e suo figlio Nunjo (Lucas Hsuan) in cerca di un fantomatico signor Fongtron. Si fermano per bere un thè e mangiare qualcosa alla locanda di Sirkka (Anna-Maija Tuokko), la quale impietosita offre loro anche una stanza dove dormire.
La locanda diviene così un punto di riferimento per padre e figlio in attesa di capire chi sia e dove possono trovare la persona che cercano. Un giorno, quando un autobus turistico carico di cinesi va in panne proprio davanti alla locanda, Cheng, che è in realtà un cuoco professionista, decide di mettersi in cucina per preparare il pasto e, non solo accontenta la clientela cinese, ma a poco a poco conquista anche quella locale.
Man mano che la conoscenza reciproca cresce, altri dettagli sulla storia di Cheng - ma anche su quella di Sirkka - vengono fuori, mentre tra i due si fa largo un sentimento che va al di là dell'amicizia.
Il film di Kaurismaki, come lo stesso regista ha avuto modo di confermare, è una fiaba di buoni sentimenti che vuol essere una risposta cinematografica al difficile momento che il mondo sta vivendo e alla tendenza dei governanti e capi popolo ad alimentare divisioni e odio, anziché a stimolare l'incontro tra le diversità.
Non ha dunque molto senso andare a cercare complessità o sofisticatezza in un film che parla di sentimenti in fondo semplici e di rapporti umani, e lo fa anche e soprattutto attraverso il linguaggio universale del cibo, nonché attraverso un approccio che oscilla tra l'ironico e il malinconico, un tratto tra l'altro squisitamente finlandese.
Il master Cheng del titolo fa un po' pensare al masterchef della famosa trasmissione, del resto Cheng in cucina dimostra una perizia invidiabile e utilizza il cibo come primo strumento di comunicazione con una cultura e un mondo che non conosce. Se dunque i vecchi finlandesi che svernano alla taverna di Sirkka troveranno nel cibo di Cheng nuova energia e nuova voglia di vivere, Cheng di converso scoprirà i benefici del silenzio e dei grandi spazi finlandesi. E questo incontro sarà l'apertura di un nuovo futuro.
Un film che non piacerà probabilmente ai palati dei cinefili più sofisticati, ma che ogni tanto fa molto bene poter vedere al cinema.
Voto: 3/5
lunedì 9 dicembre 2019
L'altra Grace / Margaret Atwood
L'altra Grace / Margaret Atwood; trad. di Margherita Giacobino. Milano: Ponte alle Grazie, 2008.
Non avevo mai letto niente di Margaret Atwood, ma in questi ultimi mesi il successo delle serie tv tratte dai suoi romanzi (al cui fascino devo però dire di essere quasi immune) e alcuni pareri positivi raccolti da amici mi hanno convinto a prendere contatto con questa scrittrice. Tra i suoi libri ho scelto L'altra Grace, intrigata dalla storia ivi raccontata.
Si tratta - come spesso accade per i libri della Atwood - di un romanzone di oltre 500 pagine, la cui lettura però scorre via piuttosto agevolmente grazie a una scrittura piana ma coinvolgente.
La Atwood si ispira a una storia vera: l'assassinio del possidente Thomas Kinnear e della sua governante nonché amante Nancy Montgomery avvenuto vicino Toronto nel 1843. Dell'assassinio furono accusati due lavoranti di casa Kinnear, James McDermott che fu condannato a morte per il delitto, e Grace Marks, la cui condanna a morte fu convertita in prigionia, anche grazie alla difesa appassionata del suo avvocato.
Nelle fonti dell'epoca - che la Atwood fedelmente riporta -, se è comune lo scalpore suscitato da questa vicenda, il giudizio nei confronti di Grace è invece molto incerto: c'è chi la considera un'assassina e una manipolatrice e chi invece una vittima innocente.
È in questa incertezza che si insinua il romanzo della Atwood, anche attraverso l'altro protagonista della storia: il giovane medico Simon Jordan che, per interessi scientifici (è uno dei primi medici impegnati nello studio della mente umana), ottiene di poter incontrare e intervistare Grace, con l'obiettivo di scardinare con metodi psicanalitici l'amnesia che la donna denuncia in merito al momento dell'assassinio di Nancy.
Da qui comincia una narrazione parallela che da un lato si sviluppa attraverso il racconto in prima persona di Grace di tutta la sua vicenda personale dall'infanzia fino al processo, dall'altro ci descrive in terza persona (e in parte attraverso le lettere da lui scritte e ricevute) gli eventi che riguardano il dottor Jordan. Insieme al dottor Jordan il lettore si fa ascoltatore di Grace ed esattamente come il giovane dottore viene conquistato, direi quasi ammaliato, dalla giovane donna, fino a perdere completamente di vista la ricerca una verità che si fa sempre più fumosa e sfuggente.
Chi speri (come la sottoscritta) di assistere a un colpo di scena o di incontrare a un certo punto una rivelazione sulla storia di Grace ne rimarrà deluso, perché l'intento della Atwood è evidentemente un altro.
Quale sia questo altro intento a me sinceramente un po' sfugge e così, pur essendo arrivata agevolmente e godibilmente all'ultima pagina, alla fine mi trovo a interrogarmi sul senso di questa storia per me e mi accorgo che a me non ha comunicato molto, se non il piacere del racconto di per sé stesso e la ricostruzione attenta di una temperie socio-economico-culturale.
Si tratta ora di decidere se voglio dare alla Atwood un'altra possibilità. Si vedrà.
Voto: 3/5
Non avevo mai letto niente di Margaret Atwood, ma in questi ultimi mesi il successo delle serie tv tratte dai suoi romanzi (al cui fascino devo però dire di essere quasi immune) e alcuni pareri positivi raccolti da amici mi hanno convinto a prendere contatto con questa scrittrice. Tra i suoi libri ho scelto L'altra Grace, intrigata dalla storia ivi raccontata.
Si tratta - come spesso accade per i libri della Atwood - di un romanzone di oltre 500 pagine, la cui lettura però scorre via piuttosto agevolmente grazie a una scrittura piana ma coinvolgente.
La Atwood si ispira a una storia vera: l'assassinio del possidente Thomas Kinnear e della sua governante nonché amante Nancy Montgomery avvenuto vicino Toronto nel 1843. Dell'assassinio furono accusati due lavoranti di casa Kinnear, James McDermott che fu condannato a morte per il delitto, e Grace Marks, la cui condanna a morte fu convertita in prigionia, anche grazie alla difesa appassionata del suo avvocato.
Nelle fonti dell'epoca - che la Atwood fedelmente riporta -, se è comune lo scalpore suscitato da questa vicenda, il giudizio nei confronti di Grace è invece molto incerto: c'è chi la considera un'assassina e una manipolatrice e chi invece una vittima innocente.
È in questa incertezza che si insinua il romanzo della Atwood, anche attraverso l'altro protagonista della storia: il giovane medico Simon Jordan che, per interessi scientifici (è uno dei primi medici impegnati nello studio della mente umana), ottiene di poter incontrare e intervistare Grace, con l'obiettivo di scardinare con metodi psicanalitici l'amnesia che la donna denuncia in merito al momento dell'assassinio di Nancy.
Da qui comincia una narrazione parallela che da un lato si sviluppa attraverso il racconto in prima persona di Grace di tutta la sua vicenda personale dall'infanzia fino al processo, dall'altro ci descrive in terza persona (e in parte attraverso le lettere da lui scritte e ricevute) gli eventi che riguardano il dottor Jordan. Insieme al dottor Jordan il lettore si fa ascoltatore di Grace ed esattamente come il giovane dottore viene conquistato, direi quasi ammaliato, dalla giovane donna, fino a perdere completamente di vista la ricerca una verità che si fa sempre più fumosa e sfuggente.
Chi speri (come la sottoscritta) di assistere a un colpo di scena o di incontrare a un certo punto una rivelazione sulla storia di Grace ne rimarrà deluso, perché l'intento della Atwood è evidentemente un altro.
Quale sia questo altro intento a me sinceramente un po' sfugge e così, pur essendo arrivata agevolmente e godibilmente all'ultima pagina, alla fine mi trovo a interrogarmi sul senso di questa storia per me e mi accorgo che a me non ha comunicato molto, se non il piacere del racconto di per sé stesso e la ricostruzione attenta di una temperie socio-economico-culturale.
Si tratta ora di decidere se voglio dare alla Atwood un'altra possibilità. Si vedrà.
Voto: 3/5
venerdì 6 dicembre 2019
Non farmi perdere tempo. Tragedia comica per donna destinata alle lacrime / di Massimo Andrei, con Lunetta Savino. Teatro Piccolo Eliseo, 28 novembre 2019
La presenza di Lunetta Savino - che avevo avuto modo recentemente di apprezzare nella sua interpretazione al cinema come protagonista del film Rosa - mi ha convinto ad andare a vedere questo spettacolo di Massimo Andrei che altrimenti non avrei forse selezionato.
La Savino, nei panni di Tina, è da sola su un palco in cui sinteticamente sono rappresentati gli ambienti della sua vita: il salotto di casa sua, lo studio del dottore, le scale che portano al suo appartamento, ma anche le strade che attraversa e alla fine il locale in cui si esibisce. Su tutto domina una struttura in acciaio molto grande a forma di DNA a cui sono appese numerose sveglie.
Tina è una donna giovane e piena di interessi e di passioni: le piace cantare e vorrebbe fare la showgirl, le piacciono i bambini, ama senza essere riamata un uomo conosciuto diversi anni prima. Tuttavia, a causa della sindrome di Werner, manifesta già i sintomi dell'invecchiamento precoce e la sua vita è destinata rapidamente a cambiare limitandola nei movimenti e più in generale nelle attività possibili.
Sul palco, la Savino risulta credibile nel rappresentare questo personaggio che è un mix indivisibile di comicità e malinconia: mediante l'uso del vernacolo napoletano e di alcuni detti tipici ci fa sorridere e ridere delle situazioni della vita quotidiana , ma - altrettanto bene - traspare nei suoi gesti, nel tono della sua voce e nelle parole, tutta la tristezza di chi si rende conto che ha ancora poco tempo e che deve sfruttare questo tempo per sistemare le cose e realizzare i sogni. Belli anche i dialoghi con gli altri personaggi invisibili ma che Lunetta Savino ci rende presenti e visibili attraverso i suoi occhi: la volontaria Maria, il piccolo Massimino, il dottore, la colf ucraina, la nipote.
Quella di Tina è una figura femminile volitiva e ricca di umanità che ci parla di cose normali, ma lo fa stando dentro una situazione più grande di lei e di fronte alla quale chiunque sarebbe spaurito; lei però riuscirà a essere artefice del suo destino fino alla fine.
Lo spettacolo di Massimo Andrei, regista e autore del testo, è gradevole e ben confezionato, anche se il suo reale valore aggiunto è l'interpretazione della Savino. Un'altra attrice con minori potenzialità avrebbe probabilmente reso più evidenti i limiti di un testo piuttosto didascalico e prevedibile, la cui semplicità sconfina talvolta nel semplicismo. Un po' tutto in questo spettacolo viene detto e spiegato (a partire dalla struttura a forma di DNA con le sveglie appese che fa parte della scenografia), lasciando ben poco all'immaginazione e all'autonoma riflessione dello spettatore, e l'intreccio narrativo (a partire dall'escamotage di fondo della malattia genetica rara che toglie il futuro e costringe a dare valore al tempo) risulta piuttosto prevedibile nonché poco originale.
Uno spettacolo dunque nel complesso gradevole, ma senza entusiasmi, nonostante la forte presenza scenica di Lunetta Savino.
Voto: 3/5
La Savino, nei panni di Tina, è da sola su un palco in cui sinteticamente sono rappresentati gli ambienti della sua vita: il salotto di casa sua, lo studio del dottore, le scale che portano al suo appartamento, ma anche le strade che attraversa e alla fine il locale in cui si esibisce. Su tutto domina una struttura in acciaio molto grande a forma di DNA a cui sono appese numerose sveglie.
Tina è una donna giovane e piena di interessi e di passioni: le piace cantare e vorrebbe fare la showgirl, le piacciono i bambini, ama senza essere riamata un uomo conosciuto diversi anni prima. Tuttavia, a causa della sindrome di Werner, manifesta già i sintomi dell'invecchiamento precoce e la sua vita è destinata rapidamente a cambiare limitandola nei movimenti e più in generale nelle attività possibili.
Sul palco, la Savino risulta credibile nel rappresentare questo personaggio che è un mix indivisibile di comicità e malinconia: mediante l'uso del vernacolo napoletano e di alcuni detti tipici ci fa sorridere e ridere delle situazioni della vita quotidiana , ma - altrettanto bene - traspare nei suoi gesti, nel tono della sua voce e nelle parole, tutta la tristezza di chi si rende conto che ha ancora poco tempo e che deve sfruttare questo tempo per sistemare le cose e realizzare i sogni. Belli anche i dialoghi con gli altri personaggi invisibili ma che Lunetta Savino ci rende presenti e visibili attraverso i suoi occhi: la volontaria Maria, il piccolo Massimino, il dottore, la colf ucraina, la nipote.
Quella di Tina è una figura femminile volitiva e ricca di umanità che ci parla di cose normali, ma lo fa stando dentro una situazione più grande di lei e di fronte alla quale chiunque sarebbe spaurito; lei però riuscirà a essere artefice del suo destino fino alla fine.
Lo spettacolo di Massimo Andrei, regista e autore del testo, è gradevole e ben confezionato, anche se il suo reale valore aggiunto è l'interpretazione della Savino. Un'altra attrice con minori potenzialità avrebbe probabilmente reso più evidenti i limiti di un testo piuttosto didascalico e prevedibile, la cui semplicità sconfina talvolta nel semplicismo. Un po' tutto in questo spettacolo viene detto e spiegato (a partire dalla struttura a forma di DNA con le sveglie appese che fa parte della scenografia), lasciando ben poco all'immaginazione e all'autonoma riflessione dello spettatore, e l'intreccio narrativo (a partire dall'escamotage di fondo della malattia genetica rara che toglie il futuro e costringe a dare valore al tempo) risulta piuttosto prevedibile nonché poco originale.
Uno spettacolo dunque nel complesso gradevole, ma senza entusiasmi, nonostante la forte presenza scenica di Lunetta Savino.
Voto: 3/5
mercoledì 4 dicembre 2019
Misery / con Filippo Dini e Arianna Scommegna. Teatro Sala Umberto, 19 novembre 2019
Come si dice negli ambienti colti e molto formali, mi corre l'obbligo di dichiarare fin da subito che sono andata a vedere lo spettacolo teatrale Misery, tratto dal romanzo di Stephen King, o meglio dall'adattamento per il cinema che ne ha fatto William Goldman e che è poi diventato il film di successo diretto da Rob Reiner, senza aver letto il romanzo né visto il film.
Conoscevo la storia del romanzo, tutta incentrata sul tema della scrittura come creazione, e di converso della scrittura come distruzione.
Il noto scrittore Paul Sheldon (qui interpretato dal regista Filippo Dini) ha un incidente in macchina durante una tempesta di neve; viene salvato e curato da Annie Wilkes (la sempre bravissima Arianna Scommegna), una donna che dice di essere la sua ammiratrice n. 1 e di aver letto tutti i suoi romanzi con protagonista l'eroina ottocentesca Misery, che Annie ama alla follia.
Inizialmente la situazione solletica l'ego dello scrittore, ma ben presto comincia a essere evidente che Annie è una donna disturbata, la cui ammirazione per Sheldon è quasi morbosa ed è, tra l'altro, strettamente legata al fatto che dallo scrittore dipende la sopravvivenza del mondo di Misery. Nella vita isolata e decisamente poco gratificante di Annie, un'emarginata rispetto alla società, l'universo di Misery costituisce una specie di vita alternativa, una forma di fuga ed evasione dalla realtà, da cui Annie è diventata ormai dipendente.
Così quando la donna scopre che il romanzo in uscita su Misery sarà l'ultimo della serie perché in esso la protagonista muore di parto, la sua follia si manifesta appieno nel tentativo di costringere lo scrittore - con le buone ma soprattutto con le cattive - a scrivere un romanzo nel quale Misery possa credibilmente tornare "a vivere".
Sheldon si trova così a essere prigioniero di questa donna folle che - soprattutto nei momenti di rabbia - lo sottopone a torture sempre più inaudite, innescando un perverso gioco vittima-carnefice, in cui anche Sheldon dovrà aguzzare l'ingegno per sopravvivere, fino al finale ribaltamento dei ruoli.
Non v'è dubbio sul fatto che la cosa più interessante della storia di Misery sia la riflessione sul ruolo dello scrittore e sul rapporto scrittore-lettore, rispetto al quale King in un certo senso preconizza processi sempre più evidenti nel mondo contemporaneo, che vedono il lettore protagonista attivo nel processo creativo dello scrittore, e spesso fonte - sebbene non riconosciuto e non bene accetto - delle ispirazioni o degli sviluppi narrativi migliori.
Non avendo né visto il film né letto il romanzo, non sono in grado di fare dei confronti e di dire quanto di personale ci sia nella reinterpretazione di Misery fatta da Filippo Dini e da Arianna Scommegna. Certamente ho notato in questa messa in scena la scelta di una vena ironica che attraversa entrambi i personaggi, pur all'interno di una narrazione decisamente drammatica. Il pubblico ride e/o sorride a più riprese delle situazioni e delle reazioni rappresentate sul palco, e nonostante qualche rischio di sconfinare in macchietta, soprattutto per il personaggio interpretato da Dini, mi pare che nel complesso i diversi registri riescano a mantenersi in equilibrio.
Molto bella la scenografia di Laura Benzi, che vede una struttura montata su un piedistallo rotante e suddivisa sostanzialmente in tre spicchi: in uno c'è la stanza da letto in cui si trova Sheldon, in un altro la cucina della casa di Annie, e queste due stanze divise da un corridoio che si conclude nel terzo spicchio, cioè la facciata esterna della casa della donna. La struttura si muove sia durante gli stacchi bui tra una scena e l'altra, ma anche durante l'azione mostrando il movimento dei personaggi all'interno della casa.
Nel complesso uno spettacolo riuscito. A questo punto mi tocca almeno leggere il romanzo.
Voto: 3,5/5
Conoscevo la storia del romanzo, tutta incentrata sul tema della scrittura come creazione, e di converso della scrittura come distruzione.
Il noto scrittore Paul Sheldon (qui interpretato dal regista Filippo Dini) ha un incidente in macchina durante una tempesta di neve; viene salvato e curato da Annie Wilkes (la sempre bravissima Arianna Scommegna), una donna che dice di essere la sua ammiratrice n. 1 e di aver letto tutti i suoi romanzi con protagonista l'eroina ottocentesca Misery, che Annie ama alla follia.
Inizialmente la situazione solletica l'ego dello scrittore, ma ben presto comincia a essere evidente che Annie è una donna disturbata, la cui ammirazione per Sheldon è quasi morbosa ed è, tra l'altro, strettamente legata al fatto che dallo scrittore dipende la sopravvivenza del mondo di Misery. Nella vita isolata e decisamente poco gratificante di Annie, un'emarginata rispetto alla società, l'universo di Misery costituisce una specie di vita alternativa, una forma di fuga ed evasione dalla realtà, da cui Annie è diventata ormai dipendente.
Così quando la donna scopre che il romanzo in uscita su Misery sarà l'ultimo della serie perché in esso la protagonista muore di parto, la sua follia si manifesta appieno nel tentativo di costringere lo scrittore - con le buone ma soprattutto con le cattive - a scrivere un romanzo nel quale Misery possa credibilmente tornare "a vivere".
Sheldon si trova così a essere prigioniero di questa donna folle che - soprattutto nei momenti di rabbia - lo sottopone a torture sempre più inaudite, innescando un perverso gioco vittima-carnefice, in cui anche Sheldon dovrà aguzzare l'ingegno per sopravvivere, fino al finale ribaltamento dei ruoli.
Non v'è dubbio sul fatto che la cosa più interessante della storia di Misery sia la riflessione sul ruolo dello scrittore e sul rapporto scrittore-lettore, rispetto al quale King in un certo senso preconizza processi sempre più evidenti nel mondo contemporaneo, che vedono il lettore protagonista attivo nel processo creativo dello scrittore, e spesso fonte - sebbene non riconosciuto e non bene accetto - delle ispirazioni o degli sviluppi narrativi migliori.
Non avendo né visto il film né letto il romanzo, non sono in grado di fare dei confronti e di dire quanto di personale ci sia nella reinterpretazione di Misery fatta da Filippo Dini e da Arianna Scommegna. Certamente ho notato in questa messa in scena la scelta di una vena ironica che attraversa entrambi i personaggi, pur all'interno di una narrazione decisamente drammatica. Il pubblico ride e/o sorride a più riprese delle situazioni e delle reazioni rappresentate sul palco, e nonostante qualche rischio di sconfinare in macchietta, soprattutto per il personaggio interpretato da Dini, mi pare che nel complesso i diversi registri riescano a mantenersi in equilibrio.
Molto bella la scenografia di Laura Benzi, che vede una struttura montata su un piedistallo rotante e suddivisa sostanzialmente in tre spicchi: in uno c'è la stanza da letto in cui si trova Sheldon, in un altro la cucina della casa di Annie, e queste due stanze divise da un corridoio che si conclude nel terzo spicchio, cioè la facciata esterna della casa della donna. La struttura si muove sia durante gli stacchi bui tra una scena e l'altra, ma anche durante l'azione mostrando il movimento dei personaggi all'interno della casa.
Nel complesso uno spettacolo riuscito. A questo punto mi tocca almeno leggere il romanzo.
Voto: 3,5/5
lunedì 2 dicembre 2019
Accabadora / regia di Veronica Cruciani; con Anna Della Rosa. Teatro Piccolo Eliseo, 16 novembre 2019
Accabadora, il romanzo di Michela Murgia vincitore del Premio Campiello nel 2010, fa il suo esordio anche a teatro - grazie all’adattamento di Carlotta Corradi - con questo spettacolo di Veronica Cruciani, intepretato da Anna Della Rosa.
Per chi ha letto il libro, la storia è nota: Maria, detta anche Mariedda, è la quarta figlia di una famiglia sarda modesta, e proprio per questo – come in passato accadeva spesso – è stata data in affidamento alla zia Bonaria come fill’e anima. È la stessa Maria a raccontarci la storia del suo legame con la zia e a ricostruire i ricordi di una vita, quelli che messi in fila l’uno dopo l’altro rivelano alla giovane una sconcertante verità.
In realtà, non è al pubblico che parla la protagonista, ma a una invisibile Bonaria, che – scopriremo alla fine – è distesa sul suo letto di morte senza la possibilità di rispondere, a causa di un ictus.
Il palco è allestito in modo semplice ma efficace: la sua superficie ha un rivestimento argentato, che sembra quasi acqua, su cui si erge una pedana sostenuta da decine e decine di cilindri trasparenti illuminati. Sulla pedana una panca, una sedia, uno sgabello con una brocca e dell’acqua. Più avanti scopriamo che nella pedana si aprono due incavi, uno dei quali contiene dell’acqua, l’altro dei vestiti.
Gli stacchi tra le varie parti del monologo sono marcati dall’utilizzo di luci monocromatiche con colori forti (il rosso, l’azzurro) e da un commento musicale quasi sempre virato sul drammatico.
Talvolta sulla parete di fondo del palco compaiono immagini proiettate di una donna: a volte è il doppio della stessa protagonista, altre volte è una donna diversa, presumibilmente la zia Bonaria; ma si tratta sostanzialmente di immagini mute e quasi fantasmatiche con cui Maria si trova a dover fare i conti.
Il percorso narrativo che, in un crescendo di pathos, conduce allo svelamento finale della verità che la zia ha sempre tenuto celata a Maria e al drammatico epilogo non è solo un viaggio nella memoria, bensì anche il viaggio emotivo e psicologico che a poco a poco renderà Maria sempre più simile a sua zia, fino a prenderne il posto. La gonna lunga, la camicia e lo scialle nero che Maria indossa dopo aver dismesso il suo vestito colorato sono il segno tangibile di una identificazione e riappropriazione di questa figura più “materna” della vera madre, non prima però di aver consumato un allontanamento fatto di rabbia e di rancore per quello che Maria giudica come un tradimento inaccettabile.
Quando Maria, ormai vestita completamente di nero, scenderà dalla pedana sopraelevata per adempiere al suo compito, il giudizio avrà infine lasciato posto alla pietà e al dolore.
Nel complesso questa trasposizione teatrale del bel romanzo della Murgia risulta rispettosa dello spirito originario ed efficace nel tradurre i sentimenti in elementi visivi oltre che parole. Devo però ammettere che faccio fatica a esprimere un giudizio pienamente positivo, e da diversi giorni cerco di comprendere le ragioni. Forse qualche legnosità della pur brava interprete, forse la sottolineatura secondo me eccessiva della componente del rancore e della rabbia a scapito del registro più dolente che avevo colto nel romanzo, forse la non perfetta appropriatezza a mio parere di alcune scelte registiche (penso ad alcune musiche e ad alcuni movimenti in scena), forse la marginalità di un tema secondo me centrale del romanzo, ossia l’impossibilità di una morale assoluta; insomma un po’ tutti questi fattori hanno impedito che la messa in scena mi conquistasse completamente.
Voto: 3/5
Per chi ha letto il libro, la storia è nota: Maria, detta anche Mariedda, è la quarta figlia di una famiglia sarda modesta, e proprio per questo – come in passato accadeva spesso – è stata data in affidamento alla zia Bonaria come fill’e anima. È la stessa Maria a raccontarci la storia del suo legame con la zia e a ricostruire i ricordi di una vita, quelli che messi in fila l’uno dopo l’altro rivelano alla giovane una sconcertante verità.
In realtà, non è al pubblico che parla la protagonista, ma a una invisibile Bonaria, che – scopriremo alla fine – è distesa sul suo letto di morte senza la possibilità di rispondere, a causa di un ictus.
Il palco è allestito in modo semplice ma efficace: la sua superficie ha un rivestimento argentato, che sembra quasi acqua, su cui si erge una pedana sostenuta da decine e decine di cilindri trasparenti illuminati. Sulla pedana una panca, una sedia, uno sgabello con una brocca e dell’acqua. Più avanti scopriamo che nella pedana si aprono due incavi, uno dei quali contiene dell’acqua, l’altro dei vestiti.
Gli stacchi tra le varie parti del monologo sono marcati dall’utilizzo di luci monocromatiche con colori forti (il rosso, l’azzurro) e da un commento musicale quasi sempre virato sul drammatico.
Talvolta sulla parete di fondo del palco compaiono immagini proiettate di una donna: a volte è il doppio della stessa protagonista, altre volte è una donna diversa, presumibilmente la zia Bonaria; ma si tratta sostanzialmente di immagini mute e quasi fantasmatiche con cui Maria si trova a dover fare i conti.
Il percorso narrativo che, in un crescendo di pathos, conduce allo svelamento finale della verità che la zia ha sempre tenuto celata a Maria e al drammatico epilogo non è solo un viaggio nella memoria, bensì anche il viaggio emotivo e psicologico che a poco a poco renderà Maria sempre più simile a sua zia, fino a prenderne il posto. La gonna lunga, la camicia e lo scialle nero che Maria indossa dopo aver dismesso il suo vestito colorato sono il segno tangibile di una identificazione e riappropriazione di questa figura più “materna” della vera madre, non prima però di aver consumato un allontanamento fatto di rabbia e di rancore per quello che Maria giudica come un tradimento inaccettabile.
Quando Maria, ormai vestita completamente di nero, scenderà dalla pedana sopraelevata per adempiere al suo compito, il giudizio avrà infine lasciato posto alla pietà e al dolore.
Nel complesso questa trasposizione teatrale del bel romanzo della Murgia risulta rispettosa dello spirito originario ed efficace nel tradurre i sentimenti in elementi visivi oltre che parole. Devo però ammettere che faccio fatica a esprimere un giudizio pienamente positivo, e da diversi giorni cerco di comprendere le ragioni. Forse qualche legnosità della pur brava interprete, forse la sottolineatura secondo me eccessiva della componente del rancore e della rabbia a scapito del registro più dolente che avevo colto nel romanzo, forse la non perfetta appropriatezza a mio parere di alcune scelte registiche (penso ad alcune musiche e ad alcuni movimenti in scena), forse la marginalità di un tema secondo me centrale del romanzo, ossia l’impossibilità di una morale assoluta; insomma un po’ tutti questi fattori hanno impedito che la messa in scena mi conquistasse completamente.
Voto: 3/5