Accabadora, il romanzo di Michela Murgia vincitore del Premio Campiello nel 2010, fa il suo esordio anche a teatro - grazie all’adattamento di Carlotta Corradi - con questo spettacolo di Veronica Cruciani, intepretato da Anna Della Rosa.
Per chi ha letto il libro, la storia è nota: Maria, detta anche Mariedda, è la quarta figlia di una famiglia sarda modesta, e proprio per questo – come in passato accadeva spesso – è stata data in affidamento alla zia Bonaria come fill’e anima. È la stessa Maria a raccontarci la storia del suo legame con la zia e a ricostruire i ricordi di una vita, quelli che messi in fila l’uno dopo l’altro rivelano alla giovane una sconcertante verità.
In realtà, non è al pubblico che parla la protagonista, ma a una invisibile Bonaria, che – scopriremo alla fine – è distesa sul suo letto di morte senza la possibilità di rispondere, a causa di un ictus.
Il palco è allestito in modo semplice ma efficace: la sua superficie ha un rivestimento argentato, che sembra quasi acqua, su cui si erge una pedana sostenuta da decine e decine di cilindri trasparenti illuminati. Sulla pedana una panca, una sedia, uno sgabello con una brocca e dell’acqua. Più avanti scopriamo che nella pedana si aprono due incavi, uno dei quali contiene dell’acqua, l’altro dei vestiti.
Gli stacchi tra le varie parti del monologo sono marcati dall’utilizzo di luci monocromatiche con colori forti (il rosso, l’azzurro) e da un commento musicale quasi sempre virato sul drammatico.
Talvolta sulla parete di fondo del palco compaiono immagini proiettate di una donna: a volte è il doppio della stessa protagonista, altre volte è una donna diversa, presumibilmente la zia Bonaria; ma si tratta sostanzialmente di immagini mute e quasi fantasmatiche con cui Maria si trova a dover fare i conti.
Il percorso narrativo che, in un crescendo di pathos, conduce allo svelamento finale della verità che la zia ha sempre tenuto celata a Maria e al drammatico epilogo non è solo un viaggio nella memoria, bensì anche il viaggio emotivo e psicologico che a poco a poco renderà Maria sempre più simile a sua zia, fino a prenderne il posto. La gonna lunga, la camicia e lo scialle nero che Maria indossa dopo aver dismesso il suo vestito colorato sono il segno tangibile di una identificazione e riappropriazione di questa figura più “materna” della vera madre, non prima però di aver consumato un allontanamento fatto di rabbia e di rancore per quello che Maria giudica come un tradimento inaccettabile.
Quando Maria, ormai vestita completamente di nero, scenderà dalla pedana sopraelevata per adempiere al suo compito, il giudizio avrà infine lasciato posto alla pietà e al dolore.
Nel complesso questa trasposizione teatrale del bel romanzo della Murgia risulta rispettosa dello spirito originario ed efficace nel tradurre i sentimenti in elementi visivi oltre che parole. Devo però ammettere che faccio fatica a esprimere un giudizio pienamente positivo, e da diversi giorni cerco di comprendere le ragioni. Forse qualche legnosità della pur brava interprete, forse la sottolineatura secondo me eccessiva della componente del rancore e della rabbia a scapito del registro più dolente che avevo colto nel romanzo, forse la non perfetta appropriatezza a mio parere di alcune scelte registiche (penso ad alcune musiche e ad alcuni movimenti in scena), forse la marginalità di un tema secondo me centrale del romanzo, ossia l’impossibilità di una morale assoluta; insomma un po’ tutti questi fattori hanno impedito che la messa in scena mi conquistasse completamente.
Voto: 3/5
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