L’estate che sciolse ogni cosa / Tiffany McDaniel; trad. di Lucia Olivieri. Roma: Edizioni di Atlantide, 2017.
Quello dell'estate in cui un ragazzino - spesso con un fratello più grande - si trova per la prima volta ad affrontare situazioni e vicende che lo traghettano più o meno dolorosamente alla vita adulta è uno dei topoi più presenti nella letteratura. E Tiffany McDaniel lo sa bene, tanto che mette in mano a una delle protagoniste del libro uno dei libri più rappresentativi del genere, Il buio oltre la siepe, quasi a creare una continuità ideale e a farsene erede.
Non so se si tratti di una mancanza di umiltà da parte della scrittrice, ma - dopo aver letto il libro - per quanto mi riguarda non ho dubbi ad affermare che L'estate che sciolse ogni cosa si candida a essere l'erede non solo del libro di Harper Lee ma anche di altri baluardi del genere, come il racconto Il corpo (stand by me) di Stephen King e La sottile linea scura di Joe Lansdale. Ho letto altri libri appartenenti a questo filone - penso a In fondo alla palude dello stesso Lansdale o a La natura della grazia di Krueger - ma devo dire che è la prima volta dopo molto tempo che colloco un nuovo libro nell'Olimpo del genere.
Il libro della McDaniel è ipnotizzante. Io l'ho letto praticamente tutto d'un fiato in due giorni e gran parte del merito credo vada alla scrittura accattivante della scrittrice e ad una narrazione incalzante in cui si sta sempre col fiato sospeso. Che poi forse è anche il maggior difetto del romanzo, una storia che non si fa mancare praticamente nulla, un concentrato di eventi per certi versi un filino eccessivo.
Siamo a Breathed (da qualche parte negli Stati Uniti) nel 1984 (un anno prima della nascita della McDaniel) e Fielding ha tredici anni, un padre avvocato, Autopsy Bliss, una madre che non esce di casa da 13 anni perché ha paura della pioggia, un fratello maggiore, Grand, che è una promessa del baseball e per il quale Fielding ha una vera e propria adorazione.
Pochi giorni dopo che Autopsy ha fatto pubblicare sul giornale locale un invito al diavolo affinché venga a rendersi conto di persona della situazione di Breathed, compare in paese un ragazzino nero dagli occhi verdissimi, sbucato apparentemente dal nulla, che dice di essere il diavolo in persona e si fa chiamare Sal; e insieme a lui arriva un caldo infernale che tiene sotto scacco la popolazione per tutta l'estate.
L'arrivo di questo ragazzino fa da catalizzatore di tutte le paure, i pregiudizi, il dolore, le incertezze, ma in fondo anche le speranze che attraversano gli abitanti del paese. Sal, dal canto suo, non fa nulla per smentire le credenze che cominciano a circolare e anzi in un certo senso contribuisce ad alimentare quell'atmosfera magica e un po' soprannaturale che aleggia intorno a lui.
La possibilità di una deresponsabilizzazione o comunque di uno spostamento su una figura esterna delle proprie responsabilità è la precondizione che ad alcuni consente di superare alcuni blocchi emotivi ormai cronicizzati, ad altri permette di sfogare frustrazioni e rabbia irrisolte. Si innesca così una reazione a catena destinata a cambiare il destino dei singoli ma anche quello di un'intera comunità.
Quella che va definitivamente in frantumi è l'infanzia di Fielding, protagonista di un coming of age che è una vera e propria discesa agli inferi senza possibilità di riscatto. È infatti lui stesso ormai anziano, emarginato e solo, a raccontare la storia di quella estate di oltre settant'anni prima in cui affondano le radici gli errori la cui punizione Fielding si è inflitto per tutta la vita.
La McDaniel, tirando in ballo il diavolo, avvolge la narrazione in un'atmosfera magica, a tratti surreale o gotica come ha detto qualcuno, ma di fatto parla di cose molto umane, ossia il complesso e mai risolto rapporto dell'uomo con il confine tra bene e male, la cui radice è nel vissuto individuale ma che da sempre l'umanità preferisce reificare ed esternalizzare nelle figure cardine che caratterizzano le varie forme di spiritualità e religiosità. La conclusione molto "umanistica" di questo racconto è che bene e male sono inestricabilmente avviluppati in ognuno di noi e che la giustizia umana è sempre fallibile (ma ne esiste forse un'altra?), però dalla nostra abbiamo l'empatia e la capacità di comprendere senza giudicare, che è l'unica vera capacità che dovremmo coltivare e che Fielding rimpiangerà tutta la vita.
Voto: 4/5
giovedì 25 febbraio 2021
mercoledì 17 febbraio 2021
Ada brucia. Storia di un amore minuscolo / Anja Trevisan
Ada brucia. Storia di un amore minuscolo / Anja Trevisan. Firenze: effequ, 2020.
Impressiona parecchio che dietro la scrittura di questo romanzo ci sia una ragazza di 22 anni, la quale - con ogni evidenza - dimostra chiarezza d'intenti e coraggio nell'affrontare un tema delicato in modo decisamente non convenzionale e che può prestarsi a polemiche, in caso di lettura superficiale.
Protagonisti di questo romanzo sono infatti Rino, un ragazzo che ha imparato dal nonno il mestiere di orologiaio e sempre dal nonno ha ereditato la casa in mezzo agli alberi e lontano dal paese in cui vive, e Ada, che in realtà alla nascita si chiama Beatrice e che Rino rapisce dal passeggino all'età di 9 mesi durante un'affollata festa di paese.
Rino è ossessionato dalle bambine e quando vede per la prima volta la manina di Beatrice sbucare fuori dalla culla ne è conquistato e si convince che dietro quel gesto ci sia un destino che li unisce. Con il nome nuovo che Rino le ha dato, Ada vive nella casa tra gli alberi insieme a lui convinta di non poter uscire perché se poggiasse i piedi per terra al di fuori della casa brucerebbe e non ci sono scarpe della sua misura. Questo è quanto Rino - che lei chiama Bapu - le ha raccontato per tenerla di fatto segregata in casa in attesa che, una volta cresciuta, i due possano vivere il loro amore alla luce del sole. O almeno questo è quanto spera un po' ingenuamente Rino.
Accade però che quando Ada diventa adolescente, in uno dei lunghi pomeriggi che passa da sola, vede passeggiare nei boschi un ragazzo poco più grande di lei, Max. L'incontro tra i due ragazzi manderà in frantumi il progetto di Rino, ma anche il mondo ristretto ma tutto sommato ordinato di Ada.
Anja Trevisan dice più volte nelle interviste che le sue fonti di ispirazione sono state il film di Lanthimos Kynodontas e il capolavoro letterario di Nabokov, Lolita. In Ada brucia c'è infatti - come in Kynodontas - una privazione della libertà in nome di un amore possessivo e iperprotettivo, ma c'è anche la tenerezza e la poesia con cui il signor Humbert si innamora della giovanissima Lolita, diventandone praticamente dipendente, il tutto all'interno di un'atmosfera da favola nera che non punta tanto alla credibilità della narrazione quanto a quella dei sentimenti.
La Trevisan riesce nel delicato compito di farci sperimentare il punto di vista - certamente malato, ma non per questo meno sincero - di Rino, nonché di farci guardare all'interno di un rapporto controverso e fortemente contraddittorio con occhi il più possibile sgombri da qualunque giudizio morale.
Per due terzi del romanzo ritengo che la scommessa della Trevisan si possa dire riuscita, anche grazie a una lingua pulita e molto visiva; poi nell'ultima parte del romanzo, a distanza di anni da quando il castello di carta costruito da Rino è caduto, mi pare che la narrazione divenga più sfocata così come gli intenti dell'autrice. Rino e Ada, entrambi disadatti e disadattati rispetto alla vita fuori dalla casa nel bosco, non hanno uno spazio insieme nel mondo lì fuori e la loro favola rovesciata diventa una specie di condanna per l'esistenza di entrambi.
Tanto il racconto nella casa appare equilibrato e disteso, capace di evocare una quotidianità assurda ma incredibilmente normale e a tratti gioiosa, quanto invece le vicende relative all'età adulta appaiono meno naturali e forse fin troppo sbrigativamente manichee.
Ciò detto, Anja Trevisan è stata una sorpresa inaspettata.
Voto: 3,5/5
Impressiona parecchio che dietro la scrittura di questo romanzo ci sia una ragazza di 22 anni, la quale - con ogni evidenza - dimostra chiarezza d'intenti e coraggio nell'affrontare un tema delicato in modo decisamente non convenzionale e che può prestarsi a polemiche, in caso di lettura superficiale.
Protagonisti di questo romanzo sono infatti Rino, un ragazzo che ha imparato dal nonno il mestiere di orologiaio e sempre dal nonno ha ereditato la casa in mezzo agli alberi e lontano dal paese in cui vive, e Ada, che in realtà alla nascita si chiama Beatrice e che Rino rapisce dal passeggino all'età di 9 mesi durante un'affollata festa di paese.
Rino è ossessionato dalle bambine e quando vede per la prima volta la manina di Beatrice sbucare fuori dalla culla ne è conquistato e si convince che dietro quel gesto ci sia un destino che li unisce. Con il nome nuovo che Rino le ha dato, Ada vive nella casa tra gli alberi insieme a lui convinta di non poter uscire perché se poggiasse i piedi per terra al di fuori della casa brucerebbe e non ci sono scarpe della sua misura. Questo è quanto Rino - che lei chiama Bapu - le ha raccontato per tenerla di fatto segregata in casa in attesa che, una volta cresciuta, i due possano vivere il loro amore alla luce del sole. O almeno questo è quanto spera un po' ingenuamente Rino.
Accade però che quando Ada diventa adolescente, in uno dei lunghi pomeriggi che passa da sola, vede passeggiare nei boschi un ragazzo poco più grande di lei, Max. L'incontro tra i due ragazzi manderà in frantumi il progetto di Rino, ma anche il mondo ristretto ma tutto sommato ordinato di Ada.
Anja Trevisan dice più volte nelle interviste che le sue fonti di ispirazione sono state il film di Lanthimos Kynodontas e il capolavoro letterario di Nabokov, Lolita. In Ada brucia c'è infatti - come in Kynodontas - una privazione della libertà in nome di un amore possessivo e iperprotettivo, ma c'è anche la tenerezza e la poesia con cui il signor Humbert si innamora della giovanissima Lolita, diventandone praticamente dipendente, il tutto all'interno di un'atmosfera da favola nera che non punta tanto alla credibilità della narrazione quanto a quella dei sentimenti.
La Trevisan riesce nel delicato compito di farci sperimentare il punto di vista - certamente malato, ma non per questo meno sincero - di Rino, nonché di farci guardare all'interno di un rapporto controverso e fortemente contraddittorio con occhi il più possibile sgombri da qualunque giudizio morale.
Per due terzi del romanzo ritengo che la scommessa della Trevisan si possa dire riuscita, anche grazie a una lingua pulita e molto visiva; poi nell'ultima parte del romanzo, a distanza di anni da quando il castello di carta costruito da Rino è caduto, mi pare che la narrazione divenga più sfocata così come gli intenti dell'autrice. Rino e Ada, entrambi disadatti e disadattati rispetto alla vita fuori dalla casa nel bosco, non hanno uno spazio insieme nel mondo lì fuori e la loro favola rovesciata diventa una specie di condanna per l'esistenza di entrambi.
Tanto il racconto nella casa appare equilibrato e disteso, capace di evocare una quotidianità assurda ma incredibilmente normale e a tratti gioiosa, quanto invece le vicende relative all'età adulta appaiono meno naturali e forse fin troppo sbrigativamente manichee.
Ciò detto, Anja Trevisan è stata una sorpresa inaspettata.
Voto: 3,5/5
lunedì 15 febbraio 2021
Radici / Josef Koudelka. Museo dell’Ara Pacis, 9 febbraio 2021
All'inizio di marzo dello scorso anno avevo una prenotazione per la mostra di Raffaello alle Scuderie del Quirinale, ma proprio in quei giorni si cominciava a comprendere che la situazione della diffusione del virus stava diventando seria, cosicché avevo rinunciato e ceduto il biglietto.
Poi c'è stato il lungo blackout del lockdown primaverile in cui siamo stati tutti chiusi in casa e poi lentamente il disgelo estivo, durante il quale sono persino riuscita a vedere due mostre fotografiche (una su Tina Modotti a Palazzo Merulana e una, bellissima, su Ara Güler, al Museo di Roma in Trastevere) e un'altra bella mostra sugli impressionisti a Palazzo Bonaparte. Poi di nuovo, dopo l'estate, un lunghissimo periodo senza musei e senza mostre.
Finalmente, da qualche settimana, i musei hanno potuto riaprire - anche se solo durante la settimana (sono chiusi nel weekend) - e, saputo della riapertura della mostra Radici con le foto di Josef Koudelka, non mi sono lasciata sfuggire l'occasione per tornare finalmente a vedere una mostra!
Ebbene, Koudelka è un personaggio quasi mitico nel mondo della fotografia; alcuni dei suoi reportage e progetti fotografici sono ormai talmente famosi che anche se il suo nome non ci dice nulla abbiamo certamente visto da qualche parte una sua foto. Oggi è un vecchietto un po' tremolante sulle gambe, ma con un carattere e una tempra incredibili, come si vede bene nel breve filmato che è possibile visionare al termine della mostra, Obey to the sun, che certamente conferisce nuovi e ulteriori significati alla visita appena conclusa.
La mostra Radici è il risultato di decenni di viaggi del fotografo in centinaia di siti archeologici collocati lungo il bacino del Mediterraneo. Per questo progetto Koudelka ha scelto il formato 16:9, prevalentemente in orizzontale, ma anche in verticale, privilegiando prospettive sghembe o comunque sempre molto originali.
Il percorso della mostra è immaginato come una passeggiata archeologica attraverso questi siti, alternando "colonne e basamenti", nel senso che le foto in parte sono appese alle pareti, in parte sono sistemate su dei parallelepipedi (delle specie di panche) poggiati per terra. A essere sinceri, le foto sui parallelepipedi sono non solo di minore impatto (tranne pochissime), ma anche di peggiore leggibilità a causa del riflesso delle luci.
In generale, come spesso accade per le mostre all'Ara Pacis, il percorso all'interno della mostra non è lineare e non segue criteri molto stringenti, cosa che alla fine produce un effetto dispersivo e un pochino disordinato.
Le foto di Koudelka - che pure rappresentano esclusivamente paesaggi di pietra - hanno lo straordinario pregio di restituire vita a queste pietre: il modo in cui il fotografo le inquadra le fa quasi "respirare" o "parlare" a seconda dei casi, come se quei "mucchi di pietre" non fossero lì ammassate in maniera casuale dopo un crollo o per lo scorrere del tempo, ma si fossero messe in posa per lui. E in questo c'è lo straordinario occhio e la grande pazienza del fotografo nel cercare il punto di vista giusto e nell'aspettare la luce perfetta.
Alcune di quelle che mi sono piaciute di più le ho fotografate e le metto qui a corredo di questo post.
Che bello tornare a vivere la cultura!
Voto: 3,5/5
Poi c'è stato il lungo blackout del lockdown primaverile in cui siamo stati tutti chiusi in casa e poi lentamente il disgelo estivo, durante il quale sono persino riuscita a vedere due mostre fotografiche (una su Tina Modotti a Palazzo Merulana e una, bellissima, su Ara Güler, al Museo di Roma in Trastevere) e un'altra bella mostra sugli impressionisti a Palazzo Bonaparte. Poi di nuovo, dopo l'estate, un lunghissimo periodo senza musei e senza mostre.
Finalmente, da qualche settimana, i musei hanno potuto riaprire - anche se solo durante la settimana (sono chiusi nel weekend) - e, saputo della riapertura della mostra Radici con le foto di Josef Koudelka, non mi sono lasciata sfuggire l'occasione per tornare finalmente a vedere una mostra!
Ebbene, Koudelka è un personaggio quasi mitico nel mondo della fotografia; alcuni dei suoi reportage e progetti fotografici sono ormai talmente famosi che anche se il suo nome non ci dice nulla abbiamo certamente visto da qualche parte una sua foto. Oggi è un vecchietto un po' tremolante sulle gambe, ma con un carattere e una tempra incredibili, come si vede bene nel breve filmato che è possibile visionare al termine della mostra, Obey to the sun, che certamente conferisce nuovi e ulteriori significati alla visita appena conclusa.
La mostra Radici è il risultato di decenni di viaggi del fotografo in centinaia di siti archeologici collocati lungo il bacino del Mediterraneo. Per questo progetto Koudelka ha scelto il formato 16:9, prevalentemente in orizzontale, ma anche in verticale, privilegiando prospettive sghembe o comunque sempre molto originali.
Il percorso della mostra è immaginato come una passeggiata archeologica attraverso questi siti, alternando "colonne e basamenti", nel senso che le foto in parte sono appese alle pareti, in parte sono sistemate su dei parallelepipedi (delle specie di panche) poggiati per terra. A essere sinceri, le foto sui parallelepipedi sono non solo di minore impatto (tranne pochissime), ma anche di peggiore leggibilità a causa del riflesso delle luci.
In generale, come spesso accade per le mostre all'Ara Pacis, il percorso all'interno della mostra non è lineare e non segue criteri molto stringenti, cosa che alla fine produce un effetto dispersivo e un pochino disordinato.
Le foto di Koudelka - che pure rappresentano esclusivamente paesaggi di pietra - hanno lo straordinario pregio di restituire vita a queste pietre: il modo in cui il fotografo le inquadra le fa quasi "respirare" o "parlare" a seconda dei casi, come se quei "mucchi di pietre" non fossero lì ammassate in maniera casuale dopo un crollo o per lo scorrere del tempo, ma si fossero messe in posa per lui. E in questo c'è lo straordinario occhio e la grande pazienza del fotografo nel cercare il punto di vista giusto e nell'aspettare la luce perfetta.
Alcune di quelle che mi sono piaciute di più le ho fotografate e le metto qui a corredo di questo post.
Che bello tornare a vivere la cultura!
Voto: 3,5/5
giovedì 11 febbraio 2021
La carne / Cristò
La carne / Cristò. Castel di Sangro: Neo edizioni, 2020.
Cristò Chiapparino è di Bari e lavora in una libreria. E io l’ho scoperto come scrittore de La carne grazie alla mia ormai prediletta Libreria Bistrot Skribi di Conversano, che qualche tempo fa pubblicizzava questo libro sulla sua pagina Facebook.
L’argomento del romanzo di Cristò è molto lontano da quelli che di solito leggo: si parla di un futuro distopico nel quale a causa di un virus che si sta diffondendo tra gli esseri umani, molti di questi si trasformano in zombie destinati da un lato all’immortalità, dall’altro alla ricerca ossessiva di carne di cui cibarsi. Sono zombie innocui, ma la loro stessa esistenza in mezzo agli esseri umani crea inquietudine, anche perché tutti hanno qualcuno di caro che ha avuto questo destino.
Sarà che questa nostra convivenza con il virus Sars-CoV-2 ha fatto in parte risuonare questa trama con l’esperienza che stiamo vivendo da ormai un anno; fatto sta che sono stata inaspettatamente attratta da questo libro che probabilmente in altri momenti della mia vita mai avrei scelto di leggere.
Ne La carne c’è un io narratore: si tratta di un vecchio che ricorda con nostalgia il mondo com’era quando lui aveva 8 anni, il virus non esisteva e gli uomini morivano a un certo punto della loro vita; questo mondo è stato spazzato via dalla comparsa del virus e nell’esperienza personale del narratore da un episodio traumatico che ne ha condizionato l’esistenza e gli ha rivelato per la prima volta l’esistenza degli zombie. Questa narrazione si svolge parallelamente a quella che vede protagonista Tancredi, un medico che a un certo punto comincia a diventare destinatario di foglietti con scritte apparentemente incomprensibili che i suoi pazienti tracciano nel sonno in una condizione di sostanziale incoscienza.
Queste due narrazioni - che iniziano separate e temporalmente sfalsate - progressivamente si avvicinano sempre di più, fino a dialogare “letteralmente”, per poi convergere in quello che mi è sembrato un classico caso di paradosso temporale.
La scrittura di Cristò è immaginifica e originale; lo scrittore è in grado di costruire un universo “credibile” e di renderlo visivamente presente al lettore, contribuendo al coinvolgimento narrativo. A me che sono particolarmente sensibile a queste cose alcune scene “splatter” ai limiti dell’horror hanno suscitato un’impressione molto vivida.
Sicuramente si tratta di una lettura sorprendente, anche se dal mio personale punto di vista appartiene un po’ a quella categoria di romanzi che durante la lettura mi suscitano aspettative crescenti e forse esagerate che poi si scontrano con sviluppi narrativi deludenti o comunque non del tutto all’altezza.
Verso il finale – che pure riserva un colpo di scena ben congegnato e non del tutto prevedibile – il romanzo si fa un po’ cervellotico e a tratti secondo me sconclusionato, oppure sono semplicemente io che sono abituata a un tipo di struttura narrativa più lineare e “razionale”.
In definitiva, però, non solo sono contenta di aver letto il romanzo, ma mi sta frullando nella testa che voglio dare a Cristò una seconda possibilità e leggere un altro suo romanzo (ho adocchiato La meravigliosa lampada di Paolo Lunare) per capire se è vero che questo autore a suo modo sta creando una specie di genere letterario a sé, come taluni dicono.
Voto: 3/5
Cristò Chiapparino è di Bari e lavora in una libreria. E io l’ho scoperto come scrittore de La carne grazie alla mia ormai prediletta Libreria Bistrot Skribi di Conversano, che qualche tempo fa pubblicizzava questo libro sulla sua pagina Facebook.
L’argomento del romanzo di Cristò è molto lontano da quelli che di solito leggo: si parla di un futuro distopico nel quale a causa di un virus che si sta diffondendo tra gli esseri umani, molti di questi si trasformano in zombie destinati da un lato all’immortalità, dall’altro alla ricerca ossessiva di carne di cui cibarsi. Sono zombie innocui, ma la loro stessa esistenza in mezzo agli esseri umani crea inquietudine, anche perché tutti hanno qualcuno di caro che ha avuto questo destino.
Sarà che questa nostra convivenza con il virus Sars-CoV-2 ha fatto in parte risuonare questa trama con l’esperienza che stiamo vivendo da ormai un anno; fatto sta che sono stata inaspettatamente attratta da questo libro che probabilmente in altri momenti della mia vita mai avrei scelto di leggere.
Ne La carne c’è un io narratore: si tratta di un vecchio che ricorda con nostalgia il mondo com’era quando lui aveva 8 anni, il virus non esisteva e gli uomini morivano a un certo punto della loro vita; questo mondo è stato spazzato via dalla comparsa del virus e nell’esperienza personale del narratore da un episodio traumatico che ne ha condizionato l’esistenza e gli ha rivelato per la prima volta l’esistenza degli zombie. Questa narrazione si svolge parallelamente a quella che vede protagonista Tancredi, un medico che a un certo punto comincia a diventare destinatario di foglietti con scritte apparentemente incomprensibili che i suoi pazienti tracciano nel sonno in una condizione di sostanziale incoscienza.
Queste due narrazioni - che iniziano separate e temporalmente sfalsate - progressivamente si avvicinano sempre di più, fino a dialogare “letteralmente”, per poi convergere in quello che mi è sembrato un classico caso di paradosso temporale.
La scrittura di Cristò è immaginifica e originale; lo scrittore è in grado di costruire un universo “credibile” e di renderlo visivamente presente al lettore, contribuendo al coinvolgimento narrativo. A me che sono particolarmente sensibile a queste cose alcune scene “splatter” ai limiti dell’horror hanno suscitato un’impressione molto vivida.
Sicuramente si tratta di una lettura sorprendente, anche se dal mio personale punto di vista appartiene un po’ a quella categoria di romanzi che durante la lettura mi suscitano aspettative crescenti e forse esagerate che poi si scontrano con sviluppi narrativi deludenti o comunque non del tutto all’altezza.
Verso il finale – che pure riserva un colpo di scena ben congegnato e non del tutto prevedibile – il romanzo si fa un po’ cervellotico e a tratti secondo me sconclusionato, oppure sono semplicemente io che sono abituata a un tipo di struttura narrativa più lineare e “razionale”.
In definitiva, però, non solo sono contenta di aver letto il romanzo, ma mi sta frullando nella testa che voglio dare a Cristò una seconda possibilità e leggere un altro suo romanzo (ho adocchiato La meravigliosa lampada di Paolo Lunare) per capire se è vero che questo autore a suo modo sta creando una specie di genere letterario a sé, come taluni dicono.
Voto: 3/5
lunedì 8 febbraio 2021
Brevemente risplendiamo sulla terra / Ocean Vuong
Brevemente risplendiamo sulla terra / Ocean Vuong; trad. di Claudia Durastanti. Milano: La nave di Teseo, 2020.
Il romanzo di Ocean Vuong è arrivato inaspettato, un regalo pensato nei contenuti e nei modi appositamente per me da parte di una cara amica.
In realtà, l’avevo adocchiato da tempo e dunque quando è giunto nelle mie mani è stato immediatamente messo in lettura e divorato in pochi giorni. Questo perché la scrittura di Ocean Vuong è ipnotica e suggestiva, capace di avviluppare il lettore e farlo perdere tra le pagine. Probabilmente è uno di quei libri che varrebbe la pena provare a leggere in lingua originale, soprattutto dopo averlo letto in italiano e aver apprezzato la sofisticata traduzione realizzata da Claudia Durastanti.
Del resto, fin dal titolo si capisce l’attenzione e il lavoro interpretativo e mimetico che la traduttrice ha dovuto fare, rendendo lo splendido originale On earth we’re briefly gorgeous con l’italiano Brevemente risplendiamo sulla terra.
Vuong appartiene alla nuova, incalzante generazione degli scrittori a cavallo dei trent’anni che stanno prepotentemente occupando la scena della letteratura internazionale; penso ad esempio a Tiffany McDaniel, a Marieke Lucas Rijneveld, a Sally Rooney, a Ottessa Moshfegh, a Jonathan Bazzi, per fare qualche nome. Secondo me questi autori hanno parecchie cose in comune sia dal punto di vista stilistico che narrativo: penso al fatto che diversi di loro scrivono narrativa ma anche poesia (Vuong, Rijneveld, McDaniels), che molti appartengono alla cultura queer e quasi tutti esprimono punti di vista molto più fluidi rispetto al genere e alla sessualità, che tutti amano attingere alla storia personale ma senza farsi ingabbiare dal genere puramente autobiografico, bensì sperimentando forme narrative ibride, che ognuno dal proprio personale punto di vista racconta una condizione di parziale disagio esistenziale o quanto meno di irrisolutezza esistenziale, di non totale allineamento con le aspettative del contesto.
In alcuni casi – come ho già scritto su questo blog – tendo a sentire un’estraneità e un senso di distanza rispetto ai contenuti e alle modalità narrative di alcuni di questi autori (penso ad esempio a Sally Rooney o anche a Ottessa Moshfegh), altre volte invece – come nel caso di Vuong – questa “nuova” letteratura riesce a parlarmi e a raggiungere la mia sensibilità.
In Brevemente risplendiamo sulla terra mi ha conquistata soprattutto la lingua: dentro un romanzo che è un mix di generi (si presenta come una lettera del protagonista alla madre, con una forte componente autobiografica, intervallata da flussi di coscienza, frammenti poetici e narrazioni più distese) Vuong pone una cura particolare nella scelta delle parole e le combina in modo imprevedibile e talvolta pirotecnico.
Del resto, la lingua inglese ha una parte centrale nella storia del protagonista, Little Dog, che a due anni insieme alla madre Rose e alla nonna Lan lascia un Vietnam messo in ginocchio dalla guerra e dalla povertà per emigrare negli Stati Uniti, ad Hartford in Connecticut. Rose e Lan non impareranno mai l’inglese, cosicché Little Dog sperimenta fin da subito la necessità di conoscere meglio la lingua del paese dove vivono per fare da interprete alla sua famiglia, ma a poco a poco arriva a innamorarsi di questa lingua e a governarla in maniera sempre più completa al punto da diventare poeta e scrittore, in una sorta di riscatto per via linguistica dalla diversità e di appropriazione della cultura ospite per il tramite della lingua.
La storia di Little Dog mi ha ricordato un po’ quella dell’autrice e protagonista del graphic novel Il nostro meglio, Thi Bui: in entrambi i casi parliamo di immigrati di seconda generazione che devono fare i conti con una doppia identità e che sentono la necessità di approfondire la storia dei propri genitori e avi, per indagare i motivi della distanza e le origini di alcuni meccanismi che fanno fatica a comprendere. Alcune cose hanno risuonato anche con un altro graphic novel che ho letto da poco, Ogni cosa è bellissima, e io non ho paura, scritto da una ragazza di origine cinese che vive a New York e che fa i conti con identità e origini. Forse perché, anche nel caso di Little Dog, oggetto di esplorazione non è solo l’identità vietnamita, bensì anche la propria omosessualità, e da qui la strada si apre verso la scoperta dei molti volti e delle molte cause della marginalità sociale, che non dipende solo dal colore della pelle, ma da un coacervo di fattori che possono segnare il destino di chiunque.
Dentro il libro di Vuong non c’è dunque solo il ritratto di una famiglia di immigrati vietnamiti che si porta dietro le ferite di quello che ha vissuto, i traumi del passato e le fatiche del presente, bensì anche il ritratto di un’intera parte della società americana che vive ai margini e per la quale non c’è nulla di più lontano del sogno americano. E per tutti costoro, a partire dalla madre del protagonista fino ad arrivare all’ultimo dei personaggi, Vuong ha parole che sanno essere straordinariamente delicate e poetiche, così come anche incredibilmente dirette e prive di infingimenti, e l’equilibrio tra questi due estremi apparentemente irriducibili si realizza nel ritratto vivido e commovente di Trevor, il ragazzo con cui Little Dog conosce l’amore e il dolore, mescolati insieme esattamente come sono nella vita.
Voto: 3,5/5
Il romanzo di Ocean Vuong è arrivato inaspettato, un regalo pensato nei contenuti e nei modi appositamente per me da parte di una cara amica.
In realtà, l’avevo adocchiato da tempo e dunque quando è giunto nelle mie mani è stato immediatamente messo in lettura e divorato in pochi giorni. Questo perché la scrittura di Ocean Vuong è ipnotica e suggestiva, capace di avviluppare il lettore e farlo perdere tra le pagine. Probabilmente è uno di quei libri che varrebbe la pena provare a leggere in lingua originale, soprattutto dopo averlo letto in italiano e aver apprezzato la sofisticata traduzione realizzata da Claudia Durastanti.
Del resto, fin dal titolo si capisce l’attenzione e il lavoro interpretativo e mimetico che la traduttrice ha dovuto fare, rendendo lo splendido originale On earth we’re briefly gorgeous con l’italiano Brevemente risplendiamo sulla terra.
Vuong appartiene alla nuova, incalzante generazione degli scrittori a cavallo dei trent’anni che stanno prepotentemente occupando la scena della letteratura internazionale; penso ad esempio a Tiffany McDaniel, a Marieke Lucas Rijneveld, a Sally Rooney, a Ottessa Moshfegh, a Jonathan Bazzi, per fare qualche nome. Secondo me questi autori hanno parecchie cose in comune sia dal punto di vista stilistico che narrativo: penso al fatto che diversi di loro scrivono narrativa ma anche poesia (Vuong, Rijneveld, McDaniels), che molti appartengono alla cultura queer e quasi tutti esprimono punti di vista molto più fluidi rispetto al genere e alla sessualità, che tutti amano attingere alla storia personale ma senza farsi ingabbiare dal genere puramente autobiografico, bensì sperimentando forme narrative ibride, che ognuno dal proprio personale punto di vista racconta una condizione di parziale disagio esistenziale o quanto meno di irrisolutezza esistenziale, di non totale allineamento con le aspettative del contesto.
In alcuni casi – come ho già scritto su questo blog – tendo a sentire un’estraneità e un senso di distanza rispetto ai contenuti e alle modalità narrative di alcuni di questi autori (penso ad esempio a Sally Rooney o anche a Ottessa Moshfegh), altre volte invece – come nel caso di Vuong – questa “nuova” letteratura riesce a parlarmi e a raggiungere la mia sensibilità.
In Brevemente risplendiamo sulla terra mi ha conquistata soprattutto la lingua: dentro un romanzo che è un mix di generi (si presenta come una lettera del protagonista alla madre, con una forte componente autobiografica, intervallata da flussi di coscienza, frammenti poetici e narrazioni più distese) Vuong pone una cura particolare nella scelta delle parole e le combina in modo imprevedibile e talvolta pirotecnico.
Del resto, la lingua inglese ha una parte centrale nella storia del protagonista, Little Dog, che a due anni insieme alla madre Rose e alla nonna Lan lascia un Vietnam messo in ginocchio dalla guerra e dalla povertà per emigrare negli Stati Uniti, ad Hartford in Connecticut. Rose e Lan non impareranno mai l’inglese, cosicché Little Dog sperimenta fin da subito la necessità di conoscere meglio la lingua del paese dove vivono per fare da interprete alla sua famiglia, ma a poco a poco arriva a innamorarsi di questa lingua e a governarla in maniera sempre più completa al punto da diventare poeta e scrittore, in una sorta di riscatto per via linguistica dalla diversità e di appropriazione della cultura ospite per il tramite della lingua.
La storia di Little Dog mi ha ricordato un po’ quella dell’autrice e protagonista del graphic novel Il nostro meglio, Thi Bui: in entrambi i casi parliamo di immigrati di seconda generazione che devono fare i conti con una doppia identità e che sentono la necessità di approfondire la storia dei propri genitori e avi, per indagare i motivi della distanza e le origini di alcuni meccanismi che fanno fatica a comprendere. Alcune cose hanno risuonato anche con un altro graphic novel che ho letto da poco, Ogni cosa è bellissima, e io non ho paura, scritto da una ragazza di origine cinese che vive a New York e che fa i conti con identità e origini. Forse perché, anche nel caso di Little Dog, oggetto di esplorazione non è solo l’identità vietnamita, bensì anche la propria omosessualità, e da qui la strada si apre verso la scoperta dei molti volti e delle molte cause della marginalità sociale, che non dipende solo dal colore della pelle, ma da un coacervo di fattori che possono segnare il destino di chiunque.
Dentro il libro di Vuong non c’è dunque solo il ritratto di una famiglia di immigrati vietnamiti che si porta dietro le ferite di quello che ha vissuto, i traumi del passato e le fatiche del presente, bensì anche il ritratto di un’intera parte della società americana che vive ai margini e per la quale non c’è nulla di più lontano del sogno americano. E per tutti costoro, a partire dalla madre del protagonista fino ad arrivare all’ultimo dei personaggi, Vuong ha parole che sanno essere straordinariamente delicate e poetiche, così come anche incredibilmente dirette e prive di infingimenti, e l’equilibrio tra questi due estremi apparentemente irriducibili si realizza nel ritratto vivido e commovente di Trevor, il ragazzo con cui Little Dog conosce l’amore e il dolore, mescolati insieme esattamente come sono nella vita.
Voto: 3,5/5
mercoledì 3 febbraio 2021
Quaderni giapponesi. Moga, Mobo, Mostri / Igort
Quaderni giapponesi. Moga, Mobo, Mostri / Igort. Quartu Sant'Elena: Oblomov Edizioni, 2020.
Con questo terzo volume della serie dei Quaderni giapponesi (di cui erano già usciti il primo volume con Coconino Press e il secondo con Oblomov, la casa editrice fondata dallo stesso Igort), l'autore cagliaritano continua a farci scoprire i recessi meno noti della cultura giapponese, andando ben al di là dell'immagine stereotipata del Giappone che molte altre fonti occidentali privilegiano e ci propongono.
Come sa chi legge questo blog, il Giappone mi affascina particolarmente e buona parte del fascino risiede nelle sue profonde contraddizioni e soprattutto in una cultura e una società che solo apparentemente assomigliano a quelle occidentali, ma che invece hanno caratteristiche profondamente diverse al punto da risultare quasi incomprensibili a chi non vi appartiene.
Igort deve alla lunga frequentazione con il Giappone e con i giapponesi - e ad una passione smodata per questa cultura - una conoscenza non solo ampia e approfondita, ma anche ricca di sfaccettature e di contenuti.
In questo terzo volume, Moga, Mobo, Mostri, il fumettista si addentra nei meandri più oscuri di questa cultura, facendoci conoscere alcuni fumettisti e artisti giapponesi affascinati dal mondo del macabro e dell'osceno, e per questo da un lato tenuti ai margini della scena mainstream che spesso li ha disconosciuti e censurati, dall'altro lato diventati dei veri e propri cult all'interno di alcune nicchie sia all'interno del proprio paese che all'estero. Si tratta di nomi per me sconosciuti, alcuni appartenenti al passato, altri contemporanei (e incontrati dallo stesso Igort), di cui l'autore ci svela storia, aneddoti, complessità, e ci fa conoscere l'arte offrendoci anche dei saggi visivi, ossia delle sue reintepretazioni di loro opere o dei disegni ispirati al loro stile.
E, man mano che si procede in questa carrellata nel tempo, Igort ci rivela connessioni tra passato e presente, tra Oriente e Occidente, ed emerge prepotentemente la tensione sempre presente nella cultura giapponese tra un'apparenza molto pudica e puritana e un movimento più o meno sotterraneo di esplorazione delle perversioni e del limite, frutto di un rimosso collettivo che pesa come un macigno sui giapponesi, ma che trova - forse proprio per questo - strade e forme impensabili per il mondo occidentale.
Nel racconto Igort è attento però anche a mostrarci come in tutti gli aspetti della cultura giapponese, anche quelli underground e più ai margini, il legame con la tradizione resti forte, aiutandoci così a comprendere e a interpretare meglio cose che altrimenti valuteremmo - sbagliando - solo con i nostri parametri occidentali.
Mi pare che con questo terzo albo della serie, che conferma la scelta di uno stile originale fatto di una mescolanza di contenuti diversi (disegni raffinatissimi, schizzi, appunti, fotografie e materiali i più vari) - stile che si ritrova anche nel recente Kokoro -, l'autore dimostri - una volta di più se ce ne fosse stato bisogno - di essere una delle voci (e delle matite e penne) più interessanti per tutti coloro che vogliano addentrarsi in maniera consapevole nella complessità del mondo giapponese.
Voto: 3/5
Con questo terzo volume della serie dei Quaderni giapponesi (di cui erano già usciti il primo volume con Coconino Press e il secondo con Oblomov, la casa editrice fondata dallo stesso Igort), l'autore cagliaritano continua a farci scoprire i recessi meno noti della cultura giapponese, andando ben al di là dell'immagine stereotipata del Giappone che molte altre fonti occidentali privilegiano e ci propongono.
Come sa chi legge questo blog, il Giappone mi affascina particolarmente e buona parte del fascino risiede nelle sue profonde contraddizioni e soprattutto in una cultura e una società che solo apparentemente assomigliano a quelle occidentali, ma che invece hanno caratteristiche profondamente diverse al punto da risultare quasi incomprensibili a chi non vi appartiene.
Igort deve alla lunga frequentazione con il Giappone e con i giapponesi - e ad una passione smodata per questa cultura - una conoscenza non solo ampia e approfondita, ma anche ricca di sfaccettature e di contenuti.
In questo terzo volume, Moga, Mobo, Mostri, il fumettista si addentra nei meandri più oscuri di questa cultura, facendoci conoscere alcuni fumettisti e artisti giapponesi affascinati dal mondo del macabro e dell'osceno, e per questo da un lato tenuti ai margini della scena mainstream che spesso li ha disconosciuti e censurati, dall'altro lato diventati dei veri e propri cult all'interno di alcune nicchie sia all'interno del proprio paese che all'estero. Si tratta di nomi per me sconosciuti, alcuni appartenenti al passato, altri contemporanei (e incontrati dallo stesso Igort), di cui l'autore ci svela storia, aneddoti, complessità, e ci fa conoscere l'arte offrendoci anche dei saggi visivi, ossia delle sue reintepretazioni di loro opere o dei disegni ispirati al loro stile.
E, man mano che si procede in questa carrellata nel tempo, Igort ci rivela connessioni tra passato e presente, tra Oriente e Occidente, ed emerge prepotentemente la tensione sempre presente nella cultura giapponese tra un'apparenza molto pudica e puritana e un movimento più o meno sotterraneo di esplorazione delle perversioni e del limite, frutto di un rimosso collettivo che pesa come un macigno sui giapponesi, ma che trova - forse proprio per questo - strade e forme impensabili per il mondo occidentale.
Nel racconto Igort è attento però anche a mostrarci come in tutti gli aspetti della cultura giapponese, anche quelli underground e più ai margini, il legame con la tradizione resti forte, aiutandoci così a comprendere e a interpretare meglio cose che altrimenti valuteremmo - sbagliando - solo con i nostri parametri occidentali.
Mi pare che con questo terzo albo della serie, che conferma la scelta di uno stile originale fatto di una mescolanza di contenuti diversi (disegni raffinatissimi, schizzi, appunti, fotografie e materiali i più vari) - stile che si ritrova anche nel recente Kokoro -, l'autore dimostri - una volta di più se ce ne fosse stato bisogno - di essere una delle voci (e delle matite e penne) più interessanti per tutti coloro che vogliano addentrarsi in maniera consapevole nella complessità del mondo giapponese.
Voto: 3/5