Il malinteso / Irène Némirovsky; trad. di Marina Di Leo; con una nota di Olivier Philipponnat. Milano: Adelphi, 2010.
Non conoscevo Irène Nèmirovsky. La lettura del suo libro è nata da una semplice coincidenza. Una mia amica l'aveva appena comprato, io ho letto la quarta di copertina e ho trovato intrigante la storia, cosicché - seduta stante - mi è stato prestato.
Per questo motivo non sapevo assolutamente cosa aspettarmi e, dopo la prima decina di pagine e una iniziale sensazione di spaesamento per il tipo di scrittura e il contesto storico-geografico, mi sono andata a leggere la nota di Philipponnat che mi ha permesso di inquadrare meglio la scrittrice e l'opera.
Mi ha dunque colpito scoprire che Il malinteso (Le malentendu) è il suo primo romanzo, scritto a soli 23 anni e non privo di richiami autobiografici, in particolare per quello che riguarda il suo complesso e controverso rapporto con la società alto-borghese francese.
Il romanzo racconta la storia d'amore tra Denise, giovane altolocata, sposata a un ricco parigino da cui ha avuto una figlia, e Yves, che ha perso le ricchezze di famiglia e, dopo il servizio militare prestato durante la guerra, è tornato a Parigi ad un umile lavoro impiegatizio. I due si conoscono e si innamorano durante le vacanze sulla spiaggia di Hendaye in Spagna, ignari delle storie e dei mondi che ognuno di loro ha alle spalle e che si riveleranno al loro ritorno a Parigi, minando e infine distruggendo la relazione.
Di questo romanzo ho trovato sorprendente la capacità di cogliere e descrivere sentimenti e atteggiamenti psicologici universali, pur rimanendo all'interno di un quadro storicamente determinato.
C'è infatti un livello di lettura storico-sociale, all'interno del quale l'allontanamento tra Denise e Yves sembra - e forse è - dovuto alla diversa condizione di vita dei due, alla ricchezza e spensieratezza della prima in contrapposizione all'orgoglio e alle difficoltà economiche del secondo. Non già una vera contrapposizione tra classi sociali, bensì tra ricchi un po' superficiali e inconsapevoli ed ex-ricchi che non si rassegnano a doversi guadagnare la vita col lavoro quotidiano e a dover adottare uno stile di vita più morigerato.
Questo livello di lettura è certamente quello che ci appare più datato, ma non per questo meno interessante nel tratteggiarci un'epoca di transizione e un'intera generazione.
Dall'altro lato, c'è invece un livello di lettura psicologico, che contrappone la concezione dell'amore di Denise a quella di Ives. La prima intrisa del mito dell'amore assoluto, del pensiero dell'amato che occupa tutti gli istanti, del bisogno delle parole e delle continue conferme, del vortice confuso dei sentimenti e dell'inevitabile mix di odio-amore, della complementarità a tutti i costi; l'altro alla ricerca della serenità dei sentimenti, della continuità, dello scambio silenzioso, dell'equilibrio tra spazio del sé e spazio della coppia.
Entrambi di fatto incompiuti. La prima troppo melodrammatica e sopra le righe, il secondo troppo spento e riservato.
Così, quello che entrambi riconoscono come "amore" finirà per smontarsi, pezzo per pezzo, irrimediabilmente, lasciando amarezza e disillusione, nonché il rimpianto di ciò che non si è stati in grado di afferrare e preservare.
Questo piano di lettura è senza tempo e resta oggi, senza soluzione di continuità rispetto al passato, oggetto di lancinanti dubbi e innumerevoli riflessioni: è realmente possibile l'incontro tra due anime, la conoscenza reciproca, la felicità riconosciuta? È possibile un equilibrio tra l'amore senza sosta di Denise e quello parentetico di Yves? È possibile compenetrarsi senza annullarsi, trovare serenità senza cadere nella banalità?
In definitiva, non v'è dubbio sul fatto che la Némirovsky, pur utilizzando questa storia d'amore anche come metafora sociale del suo tempo e della sua vita, riesca, con acutezza e maturità, a parlarci anche della nostra, immutabile e incompiuta umanità nella sua infinita ricerca di sé.
Voto: 3,5/5
P.S. Per M.T.: come vedi ho finito di leggere il libro, te lo restituisco alla prima occasione ;-)
martedì 14 dicembre 2010
domenica 12 dicembre 2010
Bocche di donna / Stella Duffy
Bocche di donna / Stella Duffy; trad. di Marta Mazzola. Venezia: Marsilio, 2009.
I libri di Stella Duffy, nel raccontarci le avventure dell'investigatrice londinese Saz Martin, sono sempre una lettura gradevole e leggera, senza essere banale.
Inoltre, avendo seguito fin qui i cambiamenti di vita di Saz Martin (ma devo recuperare Calendar girls e Beneath the blonde), la curiosità di sapere come andrà a finire nella sua nuova vita di mamma della piccola Matilda e con la sua compagna Molly mi ha spinto inevitabilmente verso la lettura di quest'ultimo capitolo della "saga".
Si tratta di una storia anomala rispetto alle precedenti perché, se è vero che il coinvolgimento personale di Saz nelle sue indagini è sempre molto elevato, in questo caso non si può realmente parlare di un'indagine. Il romanzo risale piuttosto alle radici e alle motivazioni delle azioni di una fase della vita di Saz, l'adolescenza, di cui finora non conoscevamo praticamente nulla.
Non c'è di fatto nessun assassino o vero mistero da scoprire, bensì lo svelamento di un passato in parte oscuro, la cui scoperta - come sempre - Stella Duffy riesce a dosare sapientemente, introducendo nella narrazione brevi flashback che ci raccontano emozioni ed episodi lì per lì decontestualizzati, ma che al termine del racconto si compongono in un quadro coerente.
La prima parte del romanzo (se si tralascia qualche errore di traduzione e qualche refuso editoriale un po' fastidioso) risulta piuttosto intrigante e coinvolgente, soprattutto perché ci conduce alla scoperta di quell'età difficile e spesso crudele, ma sempre determinante rispetto ai destini e all'evoluzione psicologica individuale, che è l'adolescenza.
Peccato che l'attesa partecipata di questa prima parte venga in parte delusa nella seconda metà del romanzo, che da un lato forza eccessivamente la mano, dall'altro risolve un po' semplicisticamente alcuni nodi, in particolare quello del rapporto tra Saz e Molly e delle conseguenze del non detto che si è insinuato tra di loro.
Certamente Bocche di donna non è tra i romanzi più memorabili della Duffy, ma è pur sempre una lettura che vale la pena per gli amanti del genere.
Voto: 3/5
I libri di Stella Duffy, nel raccontarci le avventure dell'investigatrice londinese Saz Martin, sono sempre una lettura gradevole e leggera, senza essere banale.
Inoltre, avendo seguito fin qui i cambiamenti di vita di Saz Martin (ma devo recuperare Calendar girls e Beneath the blonde), la curiosità di sapere come andrà a finire nella sua nuova vita di mamma della piccola Matilda e con la sua compagna Molly mi ha spinto inevitabilmente verso la lettura di quest'ultimo capitolo della "saga".
Si tratta di una storia anomala rispetto alle precedenti perché, se è vero che il coinvolgimento personale di Saz nelle sue indagini è sempre molto elevato, in questo caso non si può realmente parlare di un'indagine. Il romanzo risale piuttosto alle radici e alle motivazioni delle azioni di una fase della vita di Saz, l'adolescenza, di cui finora non conoscevamo praticamente nulla.
Non c'è di fatto nessun assassino o vero mistero da scoprire, bensì lo svelamento di un passato in parte oscuro, la cui scoperta - come sempre - Stella Duffy riesce a dosare sapientemente, introducendo nella narrazione brevi flashback che ci raccontano emozioni ed episodi lì per lì decontestualizzati, ma che al termine del racconto si compongono in un quadro coerente.
La prima parte del romanzo (se si tralascia qualche errore di traduzione e qualche refuso editoriale un po' fastidioso) risulta piuttosto intrigante e coinvolgente, soprattutto perché ci conduce alla scoperta di quell'età difficile e spesso crudele, ma sempre determinante rispetto ai destini e all'evoluzione psicologica individuale, che è l'adolescenza.
Peccato che l'attesa partecipata di questa prima parte venga in parte delusa nella seconda metà del romanzo, che da un lato forza eccessivamente la mano, dall'altro risolve un po' semplicisticamente alcuni nodi, in particolare quello del rapporto tra Saz e Molly e delle conseguenze del non detto che si è insinuato tra di loro.
Certamente Bocche di donna non è tra i romanzi più memorabili della Duffy, ma è pur sempre una lettura che vale la pena per gli amanti del genere.
Voto: 3/5
lunedì 6 dicembre 2010
We want sex
Sia chiaro. Il titolo del film non ha sostanzialmente niente a che vedere con il suo contenuto. È un pezzo di uno degli slogan che le 187 operaie della Ford di Dagenham scrissero su uno dei tanti striscioni utilizzati durante il loro storico sciopero del maggio 1968: We want sex equality.
Questo infatti è l'argomento del film di Nigel Cole (già noto per L'erba di Grace e Calendar girls), che si potrebbe definire come la versione leggera e ottimista - da commedia - di un Ken Loach d'annata.
Siamo infatti in un grande stabilimento della Ford della provincia inglese dell'Essex, dove le operaie che si occupano di cucire e rifinire i sedili in pelle della automobili chiedono che sia loro riconosciuta una specializzazione e iniziano così uno sciopero che diventerà il primo atto della richiesta di un trattamento economico paritario con gli uomini. Grazie alla loro battaglia il principio dell'equo compenso per uomini e donne entrerà nella legislazione britannica nel 1970 e poi in gran parte dei paesi occidentali.
Il tutto raccontato con la passione civile e la verve umoristica di cui solo gli inglesi sono capaci.
Nel film il motore della storia è Rita O'Grady (Sally Hawkins), che diventa leader unitaria di questo manipolo di donne, costringendo la Ford a interrompere la produzione, attirando l'attenzione dei media e, infine, arrivando ad un colloquio ufficiale con il Ministro del Lavoro britannico, in quel momento una donna altrettanto volitiva e risoluta, Barbara Castle (Miranda Richardson).
Resterà a lungo nella mia testa lo scambio di battute in macchina tra il Ministro Castle e l'allora Primo Ministro Harold Wilson (John Sessions). La Castle si lamenta del fatto che un tempo Wilson non aveva paura di sostenere le lotte operaie e di mettersi contro la grande industria e il Primo Ministro risponde rassegnato: "Allora non ero in politica".
Con mirabile leggerezza, il film tocca, dunque, problemi importanti e, per gran parte, molto attuali: il preponderante potere maschile nel mondo del lavoro, in particolare nelle posizioni di vertice; la tendenziale retroguardia dei sindacati e la loro linea fortemente politicizzata; le tante contraddizioni del capitalismo occidentale e i suoi intrinseci motivi di debolezza; la forza delle idee e l'importanza di persone che scelgano di spendersi per esse.
Il risultato finale è gradevole, sebbene a tratti convenzionale e prevedibile. Ma certo è salutare quel po' di nostalgia che il film suscita per un'epoca in cui la battaglia per i diritti era sufficientemente ingenua da diventare realmente collettiva, in cui esisteva una classe genuinamente operaia, in cui il disincanto non aveva preso del tutto il sopravvento, in cui le donne sapevano essere solidali.
Probabilmente c'è molto del gusto contemporaneo nella scelta di Rita O'Grady come leader carismatica di questo gruppo al femminile, che invece pare non avesse una guida così unitaria, bensì riuscì ad ottenere dei risultati proprio per il fatto di configurarsi come un collettivo.
Insomma, il tutto è forse un po' edulcorato e romanzato, ma colpisce nel segno. Oggi, più ancora di ieri, abbiamo bisogno di credere nella possibilità di un cambiamento, di pensare che esiste ancora una parte buona della società, che l'individualismo e lo snobismo non hanno completamente inaridito qualunque idealità, che la rivoluzione dal basso non appartiene solo ai secoli passati.
Va detto che il mondo di oggi, globalizzato e scontento (come direbbe Saskia Sassen), è molto più complesso, dal momento che i nostri destini sono più intrecciati di un tempo e l'azione locale è, insieme, più debole e più potente. La nuova frontiera di un capitalismo aggressivo e sempre più consumistico, ma che aspira ad un'alleanza con governi senza opposizioni interne e si fa forte del lavoro di classi operaie senza diritti (come avviene in Cina), fa paura, tanto più in una fase di crisi economica e di assenza di passioni civili da parte di gruppi e singoli che sempre più si ritirano in buon ordine a vita privata.
Un film che scuote le coscienze, facendo sorridere, non può che far bene.
Voto: 3,5/5
Questo infatti è l'argomento del film di Nigel Cole (già noto per L'erba di Grace e Calendar girls), che si potrebbe definire come la versione leggera e ottimista - da commedia - di un Ken Loach d'annata.
Siamo infatti in un grande stabilimento della Ford della provincia inglese dell'Essex, dove le operaie che si occupano di cucire e rifinire i sedili in pelle della automobili chiedono che sia loro riconosciuta una specializzazione e iniziano così uno sciopero che diventerà il primo atto della richiesta di un trattamento economico paritario con gli uomini. Grazie alla loro battaglia il principio dell'equo compenso per uomini e donne entrerà nella legislazione britannica nel 1970 e poi in gran parte dei paesi occidentali.
Il tutto raccontato con la passione civile e la verve umoristica di cui solo gli inglesi sono capaci.
Nel film il motore della storia è Rita O'Grady (Sally Hawkins), che diventa leader unitaria di questo manipolo di donne, costringendo la Ford a interrompere la produzione, attirando l'attenzione dei media e, infine, arrivando ad un colloquio ufficiale con il Ministro del Lavoro britannico, in quel momento una donna altrettanto volitiva e risoluta, Barbara Castle (Miranda Richardson).
Resterà a lungo nella mia testa lo scambio di battute in macchina tra il Ministro Castle e l'allora Primo Ministro Harold Wilson (John Sessions). La Castle si lamenta del fatto che un tempo Wilson non aveva paura di sostenere le lotte operaie e di mettersi contro la grande industria e il Primo Ministro risponde rassegnato: "Allora non ero in politica".
Con mirabile leggerezza, il film tocca, dunque, problemi importanti e, per gran parte, molto attuali: il preponderante potere maschile nel mondo del lavoro, in particolare nelle posizioni di vertice; la tendenziale retroguardia dei sindacati e la loro linea fortemente politicizzata; le tante contraddizioni del capitalismo occidentale e i suoi intrinseci motivi di debolezza; la forza delle idee e l'importanza di persone che scelgano di spendersi per esse.
Il risultato finale è gradevole, sebbene a tratti convenzionale e prevedibile. Ma certo è salutare quel po' di nostalgia che il film suscita per un'epoca in cui la battaglia per i diritti era sufficientemente ingenua da diventare realmente collettiva, in cui esisteva una classe genuinamente operaia, in cui il disincanto non aveva preso del tutto il sopravvento, in cui le donne sapevano essere solidali.
Probabilmente c'è molto del gusto contemporaneo nella scelta di Rita O'Grady come leader carismatica di questo gruppo al femminile, che invece pare non avesse una guida così unitaria, bensì riuscì ad ottenere dei risultati proprio per il fatto di configurarsi come un collettivo.
Insomma, il tutto è forse un po' edulcorato e romanzato, ma colpisce nel segno. Oggi, più ancora di ieri, abbiamo bisogno di credere nella possibilità di un cambiamento, di pensare che esiste ancora una parte buona della società, che l'individualismo e lo snobismo non hanno completamente inaridito qualunque idealità, che la rivoluzione dal basso non appartiene solo ai secoli passati.
Va detto che il mondo di oggi, globalizzato e scontento (come direbbe Saskia Sassen), è molto più complesso, dal momento che i nostri destini sono più intrecciati di un tempo e l'azione locale è, insieme, più debole e più potente. La nuova frontiera di un capitalismo aggressivo e sempre più consumistico, ma che aspira ad un'alleanza con governi senza opposizioni interne e si fa forte del lavoro di classi operaie senza diritti (come avviene in Cina), fa paura, tanto più in una fase di crisi economica e di assenza di passioni civili da parte di gruppi e singoli che sempre più si ritirano in buon ordine a vita privata.
Un film che scuote le coscienze, facendo sorridere, non può che far bene.
Voto: 3,5/5
venerdì 3 dicembre 2010
Precious
In fondo Precious è un po' come Shrek, perché si può sostanzialmente raccontare come una fiaba classica, con l'unica differenza che molti dei luoghi comuni che le caratterizzano sono completamente capovolti.
C'è infatti una cenerentola indifesa, ma con grandi potenzialità e risorse, che è finita nelle grinfie di un uomo nero e di una matrigna cattiva, fino a quando non arriva il principe azzurro che - con il suo amore - la libera dal sortilegio e le offre una possibilità di vita e di riscatto.
Il fatto è che la cenerentola indifesa si chiama Clareece Precious Jones (Gabourey Sidibe) (un nome che suona come una beffa), ha 17 anni, è nera, obesa, vive nei bassifondi di Harlem, è incinta per la seconda volta del padre che la violenta, e sostanzialmente fa la serva di una madre nullafacente e violenta (interpretata da Mo'nique). Precious ha, però, straordinarie potenzialità e risorse, sia esterne, visto che con un ceffone è in grado di abbattere praticamente chiunque, ma soprattutto interiori, tanto che nei momenti più difficili della sua difficilissima esistenza si immagina diva del cinema, vestita da gran sera, ambita da fotografi e fan, affiancata da un ragazzo giovane e bellissimo, ovvero magra, bionda e ricca. In ogni caso, si muove leggiadra al ritmo della musica nera anni '80 e '90 (fantastica, tra l'altro, la colonna sonora).
L'uomo nero non vive nei boschi oscuri, bensì è un padre senza volto e dalle poche parole, che abusa di lei senza limiti né vergogna.
La matrigna cattiva è la sua vera madre, invidiosa del fatto che il suo compagno preferisca sua figlia a lei, abbrutita dall'esistenza, priva di qualunque forma di delicatezza e compassione, fonte di una violenza senza sconti.
Ma ecco arrivare infine il principe azzurro. In realtà, si tratta della signorina Rain (Paula Patton), una giovane insegnante di colore della scuola cosiddetta alternativa (cioè di recupero) dove Precious viene spedita dopo essere rimasta incinta per la seconda volta. La scuola si chiama "Each one, teach one" e raccoglie ragazze che, per i motivi più vari, sono finite ai margini e la scuola tradizionale non riesce ad assorbire. La signorina Rain è gay (vive con la sua compagna Catherine ed accoglie in casa Precious scappata da sua madre), ed ha una grande passione per l'insegnamento e un gran cuore.
Le squinternate, ma divertenti compagne di scuola di Precious (e d'ora in poi - mi raccomando - se vi chiedono qual è il vostro colore preferito rispondete "il beige fosforescente") saranno anche loro un tassello importante del suo percorso di liberazione, un po' come i sette nani per Biancaneve...
L'incantesimo è l'affetto e la fiducia che la signorina Rain dà a Precious, e che le consentono di imparare a leggere e scrivere e cominciare quel processo di affrancamento e di riscatto dal mondo di sopraffazioni, bugie e dolore in cui vive.
L'immagine di Precious che cammina per le strade di New York con il suo bambino in braccio e la piccola "Mongo" per mano (la sua prima figlia affetta dalla sindrome di Down) è la speranza di un futuro migliore.
Insomma, signori, è una fiaba. E così va presa. I cattivi sono cattivi, e i buoni sono buoni. L'happy end è d'obbligo e la speranza pure. C'è spazio per le fiabe anche nello squallore dello stagno melmoso di un'orchessa.
La figura di Precious è la rappresentazione massima del film. Obesa e pesante, ma anche leggiadra e ottimista.
Così, raramente si incontra al cinema un film che sa essere così crudamente duro e realistico nella rappresentazione della bassezza umana e, al contempo, così leggero, ricco di aperture, capace di parlare con soavità di temi che sono macigni, di farci ballare e sorridere nella tragicità del contesto.
Più ci penso e più mi è piaciuto. Non un capolavoro, ma un'operazione cinematografica intelligente e riuscita, un impianto narrativo efficace.
Del resto, non c'è storia che funzioni meglio di una favola.
Voto: 4/5
Il trailer in inglese (più espressivo linguisticamente di quello italiano)
C'è infatti una cenerentola indifesa, ma con grandi potenzialità e risorse, che è finita nelle grinfie di un uomo nero e di una matrigna cattiva, fino a quando non arriva il principe azzurro che - con il suo amore - la libera dal sortilegio e le offre una possibilità di vita e di riscatto.
Il fatto è che la cenerentola indifesa si chiama Clareece Precious Jones (Gabourey Sidibe) (un nome che suona come una beffa), ha 17 anni, è nera, obesa, vive nei bassifondi di Harlem, è incinta per la seconda volta del padre che la violenta, e sostanzialmente fa la serva di una madre nullafacente e violenta (interpretata da Mo'nique). Precious ha, però, straordinarie potenzialità e risorse, sia esterne, visto che con un ceffone è in grado di abbattere praticamente chiunque, ma soprattutto interiori, tanto che nei momenti più difficili della sua difficilissima esistenza si immagina diva del cinema, vestita da gran sera, ambita da fotografi e fan, affiancata da un ragazzo giovane e bellissimo, ovvero magra, bionda e ricca. In ogni caso, si muove leggiadra al ritmo della musica nera anni '80 e '90 (fantastica, tra l'altro, la colonna sonora).
L'uomo nero non vive nei boschi oscuri, bensì è un padre senza volto e dalle poche parole, che abusa di lei senza limiti né vergogna.
La matrigna cattiva è la sua vera madre, invidiosa del fatto che il suo compagno preferisca sua figlia a lei, abbrutita dall'esistenza, priva di qualunque forma di delicatezza e compassione, fonte di una violenza senza sconti.
Ma ecco arrivare infine il principe azzurro. In realtà, si tratta della signorina Rain (Paula Patton), una giovane insegnante di colore della scuola cosiddetta alternativa (cioè di recupero) dove Precious viene spedita dopo essere rimasta incinta per la seconda volta. La scuola si chiama "Each one, teach one" e raccoglie ragazze che, per i motivi più vari, sono finite ai margini e la scuola tradizionale non riesce ad assorbire. La signorina Rain è gay (vive con la sua compagna Catherine ed accoglie in casa Precious scappata da sua madre), ed ha una grande passione per l'insegnamento e un gran cuore.
Le squinternate, ma divertenti compagne di scuola di Precious (e d'ora in poi - mi raccomando - se vi chiedono qual è il vostro colore preferito rispondete "il beige fosforescente") saranno anche loro un tassello importante del suo percorso di liberazione, un po' come i sette nani per Biancaneve...
L'incantesimo è l'affetto e la fiducia che la signorina Rain dà a Precious, e che le consentono di imparare a leggere e scrivere e cominciare quel processo di affrancamento e di riscatto dal mondo di sopraffazioni, bugie e dolore in cui vive.
L'immagine di Precious che cammina per le strade di New York con il suo bambino in braccio e la piccola "Mongo" per mano (la sua prima figlia affetta dalla sindrome di Down) è la speranza di un futuro migliore.
Insomma, signori, è una fiaba. E così va presa. I cattivi sono cattivi, e i buoni sono buoni. L'happy end è d'obbligo e la speranza pure. C'è spazio per le fiabe anche nello squallore dello stagno melmoso di un'orchessa.
La figura di Precious è la rappresentazione massima del film. Obesa e pesante, ma anche leggiadra e ottimista.
Così, raramente si incontra al cinema un film che sa essere così crudamente duro e realistico nella rappresentazione della bassezza umana e, al contempo, così leggero, ricco di aperture, capace di parlare con soavità di temi che sono macigni, di farci ballare e sorridere nella tragicità del contesto.
Più ci penso e più mi è piaciuto. Non un capolavoro, ma un'operazione cinematografica intelligente e riuscita, un impianto narrativo efficace.
Del resto, non c'è storia che funzioni meglio di una favola.
Voto: 4/5
Il trailer in inglese (più espressivo linguisticamente di quello italiano)
giovedì 2 dicembre 2010
Donna Rosita nubile / Federico Garcia Lorcia
Ci sono delle cose che cominciano male e a quel punto l'operazione di recupero quasi sempre è difficile se non impossibile.
Potrei sintetizzare così la mia esperienza teatrale con Donna Rosita nubile, ovvero il linguaggio dei fiori di Garcia Lorca, attualmente in programmazione al Teatro Argentina a Roma per la regia di Lluís Pasqual.
La serata a teatro è iniziata con l'incontro con una "maschera" che non mi ha voluto lasciar entrare in platea (mezza vuota) con il mio casco da moto e mi ha costretto a posarlo al guardaroba (a pagamento). Posato il casco, ci riprovo e mi dice che lo spettacolo è iniziato (tipo da un secondo) e quindi non posso accedere alla platea. Mi tocca un palco, mentre le mie amiche si domandano che fine ho fatto...
Dunque, non un bel modo per cominciare la visione di uno spettacolo teatrale che subito si annuncia piuttosto impegnativo. La prima ora mi risulta particolarmente pesante. Allestimento scenografico classico, recitazione molto impostata, resa un po' grottesca, contestualizzazione ai minimi termini dal punto di vista storico-geografico, testo difficile da seguire, più che altro per quello che riguarda la comprensione dei ruoli e delle anime dei personaggi.
La storia in realtà è molto semplice: la giovane Rosita (Andrea Jonasson) è fidanzata con il cugino, che però deve partire per affari per le lontane Americhe, lasciandola in Spagna ad attenderne il ritorno e il compimento della promessa di matrimonio. In realtà, il giovane si sposerà con un'altra donna, ma l'ambiguità di lui, il silenzio delle persone che stanno intorno a Rosita (in particolare la zia) e l'atteggiamento di Rosita stessa, che sembra non voler sapere, la condanneranno a un'attesa di vent'anni e, infine, al disonore sociale e alla solitudine.
Le cose che non mi sono piaciute, fors'anche per ignoranza e limiti personali, oltre che per gusto, sono diverse: la non perfetta traduzione registica del testo teatrale che perde un po' di coerenza narrativa e di spessore per la difficoltà ad identificare le identità psicologiche dei personaggi; lo stile di recitazione un po' troppo artefatto (in particolare, l'accento della Jonasson, che in altre occasioni conferiva potenza alla recitazione, qui l'ho trovato un po' fastidioso); la sensazione di trovarsi di fronte a un testo e a una storia un po' datati, che certamente non dipende tanto dal testo in sé (visto che i sentimenti delle persone sono evidentemente senza tempo), ma forse dalla freddezza e dalla distanza del modo in cui il dramma di Rosita è messo in scena.
Dall'altro lato, diverse sono le cose che mi sono piaciute: il personaggio della governante (Giulia Lazzarini), che pur in maniera un po' macchiettistica è in fondo l'unica che trasmette un'umanità profonda e un ruolo affettivo preciso, ed usa un linguaggio più diretto e intellegibile; il monologo finale di Rosita, quello sì intenso e accorato, in cui la tensione e gli equilibri dell'ipocrisia borghese finalmente si sciolgono nella disperazione di una scelta che segna la vita; il dialogo tra la zia (Franca Nuti) e il signor Martin, personaggio un po' sbucato dal nulla, ma che suscita una certa qual "simpatia" nel senso etimologico del termine.
Mentre scrivo queste riflessioni capisco che ciò che probabilmente non riesco a comprendere sul piano culturale (e che mi rende questo testo lontano) è la rappresentazione di una società borghese, i cui principali tratti sono il contenimento domestico dei sentimenti, l'importanza delle forme e delle convenzioni sociali, l'accettabilità dell'apparire, la rigidezza delle strutture relazionali.
Forse per questo la governante è l'unica ad apparirmi reale e vicina, ma soltanto perché è la sola ad uscire dagli schemi e a potersi permettere di essere se stessa.
Certamente mi mancano numerosi elementi nel background culturale per dare un giudizio più pieno e motivato. Posso dire però che se l'intento di Lorca era quello di trasmettere un senso di malinconica asfissia, di rassegnata angoscia della costrizione, ebbene ci è riuscito appieno.
Voto: 2,5/5
Potrei sintetizzare così la mia esperienza teatrale con Donna Rosita nubile, ovvero il linguaggio dei fiori di Garcia Lorca, attualmente in programmazione al Teatro Argentina a Roma per la regia di Lluís Pasqual.
La serata a teatro è iniziata con l'incontro con una "maschera" che non mi ha voluto lasciar entrare in platea (mezza vuota) con il mio casco da moto e mi ha costretto a posarlo al guardaroba (a pagamento). Posato il casco, ci riprovo e mi dice che lo spettacolo è iniziato (tipo da un secondo) e quindi non posso accedere alla platea. Mi tocca un palco, mentre le mie amiche si domandano che fine ho fatto...
Dunque, non un bel modo per cominciare la visione di uno spettacolo teatrale che subito si annuncia piuttosto impegnativo. La prima ora mi risulta particolarmente pesante. Allestimento scenografico classico, recitazione molto impostata, resa un po' grottesca, contestualizzazione ai minimi termini dal punto di vista storico-geografico, testo difficile da seguire, più che altro per quello che riguarda la comprensione dei ruoli e delle anime dei personaggi.
La storia in realtà è molto semplice: la giovane Rosita (Andrea Jonasson) è fidanzata con il cugino, che però deve partire per affari per le lontane Americhe, lasciandola in Spagna ad attenderne il ritorno e il compimento della promessa di matrimonio. In realtà, il giovane si sposerà con un'altra donna, ma l'ambiguità di lui, il silenzio delle persone che stanno intorno a Rosita (in particolare la zia) e l'atteggiamento di Rosita stessa, che sembra non voler sapere, la condanneranno a un'attesa di vent'anni e, infine, al disonore sociale e alla solitudine.
Le cose che non mi sono piaciute, fors'anche per ignoranza e limiti personali, oltre che per gusto, sono diverse: la non perfetta traduzione registica del testo teatrale che perde un po' di coerenza narrativa e di spessore per la difficoltà ad identificare le identità psicologiche dei personaggi; lo stile di recitazione un po' troppo artefatto (in particolare, l'accento della Jonasson, che in altre occasioni conferiva potenza alla recitazione, qui l'ho trovato un po' fastidioso); la sensazione di trovarsi di fronte a un testo e a una storia un po' datati, che certamente non dipende tanto dal testo in sé (visto che i sentimenti delle persone sono evidentemente senza tempo), ma forse dalla freddezza e dalla distanza del modo in cui il dramma di Rosita è messo in scena.
Dall'altro lato, diverse sono le cose che mi sono piaciute: il personaggio della governante (Giulia Lazzarini), che pur in maniera un po' macchiettistica è in fondo l'unica che trasmette un'umanità profonda e un ruolo affettivo preciso, ed usa un linguaggio più diretto e intellegibile; il monologo finale di Rosita, quello sì intenso e accorato, in cui la tensione e gli equilibri dell'ipocrisia borghese finalmente si sciolgono nella disperazione di una scelta che segna la vita; il dialogo tra la zia (Franca Nuti) e il signor Martin, personaggio un po' sbucato dal nulla, ma che suscita una certa qual "simpatia" nel senso etimologico del termine.
Mentre scrivo queste riflessioni capisco che ciò che probabilmente non riesco a comprendere sul piano culturale (e che mi rende questo testo lontano) è la rappresentazione di una società borghese, i cui principali tratti sono il contenimento domestico dei sentimenti, l'importanza delle forme e delle convenzioni sociali, l'accettabilità dell'apparire, la rigidezza delle strutture relazionali.
Forse per questo la governante è l'unica ad apparirmi reale e vicina, ma soltanto perché è la sola ad uscire dagli schemi e a potersi permettere di essere se stessa.
Certamente mi mancano numerosi elementi nel background culturale per dare un giudizio più pieno e motivato. Posso dire però che se l'intento di Lorca era quello di trasmettere un senso di malinconica asfissia, di rassegnata angoscia della costrizione, ebbene ci è riuscito appieno.
Voto: 2,5/5
domenica 28 novembre 2010
Tutto su mia madre / adattamento teatrale di Samuel Adamson
Non ricordavo quasi nulla dell'omonimo film di Pedro Almodovar.
Certamente si tratta di uno dei film del regista spagnolo ad aver maggiormente incontrato la mia sensibilità, nonostante non ami quella sua tendenza a raccontare storie sempre un po' sopra le righe e con protagonisti continuamente in bilico tra realismo ed eccesso.
Di solito le operazioni di trasposizione di sceneggiature cinematografiche a teatro mi lasciano piuttosto perplessa, perché il prodotto finale non riesce a scrollarsi di dosso un ritmo narrativo che finisce per risultare inappropriato.
Nonostante tutto, ho comprato a scatola chiusa i biglietti per questa versione teatrale di Tutto su mia madre, perché considero la presenza di Elisabetta Pozzi una garanzia quasi infallibile di qualità.
Ebbene, non me ne sono pentita.
Al centro della storia Manuela (Elisabetta Pozzi), che alla morte del figlio Esteban, decide di lasciare Madrid e ritornare a Barcellona per esaudire l'ultimo desiderio del figlio, ossia conoscere la verità su suo padre.
A Barcellona Manuela rivedrà vecchie amiche, come il trans Agrado (Eva Robin's), e incrocerà il percorso di altre donne, l'ingenua e generosa suor Rosa, la famosa attrice Huma Rojo (Alvia Reale) e la sua giovane amante Nina, in un crescente groviglio di sentimenti che si scioglierà solo nel finale in quella che si presenta come una vera e propria celebrazione della forza delle donne.
L'adattamento teatrale di Samuel Adamson e la regia di Leo Muscato, a mio parere, arricchiscono questa storia, nella misura in cui la asciugano di qualche eccesso tipicamente almodovariano, senza tradirne lo spirito (si veda qui una galleria delle foto di scena).
Così, la scenografia di Antonio Panzuto non può - e probabilmente non vuole - riprodurre la fantasmagoria di colori del film, ma comunica con altrettanta forza grazie alle variazioni cromatiche dei disegni astratti proiettati sullo sfondo.
Le attrici, che - come nel film di Almodovar - occupano integralmente la scena oscurando le poche figure maschili presenti sul palco, pur restando volutamente smisurate (nel senso letterale di "fuori misura") rispetto a un registro strettamente realistico, camminano sicure sul sottile filo teso tra dramma e commedia, ricche di vitalità e di gioia e, al contempo, sovrabbondanti di pathos e profondità di dolore. Elisabetta Pozzi ci regala una Manuela intensa, ironica, forte, generosa, dura, dolce, in una parola una donna vera, con tutta la sua complessità e le mille possibili sfaccettature della sua umanità. Eva Robin's riesce a restituirci la grazia e la sovrabbondanza del personaggio del trans Agrado, permettendoci di comprenderne - ad ogni entrata in scena - l'intelligenza, il cuore, la sofferenza, la voglia di vivere.
Più di tutto, però, mi sono piaciute la fitta tramatura di rimandi letterari e testuali che tiene insieme l'intero spettacolo, nonché la forte caratterizzazione teatrale e metateatrale della narrazione. Com'è noto, la pièce teatrale di Tennessee Williams, Un tram chiamato desiderio ha un ruolo importante in questa storia, non solo perché intorno e dentro il teatro in cui si rappresenta lo spettacolo si verificano molti dei suoi episodi chiave, ma anche perché alcuni dialoghi di Williams fanno da contrappunto e da sostituto al dialogo tra i personaggi. Questa rappresentazione nella rappresentazione consente inoltre al regista di giocare con gli spettatori, facendoli passare continuamente (e fisicamente grazie ad un arguto allestimento scenico) dal ruolo di pubblico (della storia principale e/o di quella che i protagonisti mettono in scena), cui i protagonisti si rivolgono spesso direttamente, al ruolo di parti in causa, chiamati a osservare il dietro le quinte, a partecipare e a testimoniare di quello che avviene dietro la rappresentazione.
Non a caso alla fine delle repliche di Un tram chiamato desiderio si compiono anche i destini dei protagonisti, in questo inestricabile rapporto a doppio filo che sembra legare realtà e finzione. Ma anche lo scioglimento del pathos è affidato ancora una volta a un testo teatrale, quello di cui l'attrice Huma Rojo ha deciso di accettare il ruolo principale e di cui sarà chiamata a recitare un passo a conclusione della storia, Nozze di sangue di Garcia Lorca.
In mezzo, a fare da collante testuale, il diario del giovane Esteban che la madre Manuela porta sempre con sé e di cui legge qua e là dei pezzi.
Insomma, quella di Adamson è un'opera nuova - non soltanto una trasposizione -, in quanto utilizza le potenzialità del linguaggio teatrale, i rimandi testuali e l'artificio della metarappresentazione per conferire alle tematiche almodovariane che conosciamo (l'identità di genere, il rapporto maschile/femminile, la coscienza di sé) un respiro forse ancora più ampio e universale, spingendoci a riflettere sul nostro ruolo nel limbo incerto tra realtà e finzione (spettatori o parti in causa?) e a considerare come nostri le incertezze, i dubbi, gli interrogativi, i sensi di colpa, le grandezze e le piccolezze dei personaggi che si muovono sul palco.
Tutti, in fondo, ci muoviamo sul grande palcoscenico della vita e nessuno di noi si può chiamare fuori dal coro di quell'umanità complessa che Adamson porta in scena. Forse solo in questo modo possiamo accettare di sospendere il giudizio. E capire dall'interno.
Voto: 4/5
Il trailer dello spettacolo
Elisabetta Pozzi parla di sua madre e della madre ideale
Certamente si tratta di uno dei film del regista spagnolo ad aver maggiormente incontrato la mia sensibilità, nonostante non ami quella sua tendenza a raccontare storie sempre un po' sopra le righe e con protagonisti continuamente in bilico tra realismo ed eccesso.
Di solito le operazioni di trasposizione di sceneggiature cinematografiche a teatro mi lasciano piuttosto perplessa, perché il prodotto finale non riesce a scrollarsi di dosso un ritmo narrativo che finisce per risultare inappropriato.
Nonostante tutto, ho comprato a scatola chiusa i biglietti per questa versione teatrale di Tutto su mia madre, perché considero la presenza di Elisabetta Pozzi una garanzia quasi infallibile di qualità.
Ebbene, non me ne sono pentita.
Al centro della storia Manuela (Elisabetta Pozzi), che alla morte del figlio Esteban, decide di lasciare Madrid e ritornare a Barcellona per esaudire l'ultimo desiderio del figlio, ossia conoscere la verità su suo padre.
A Barcellona Manuela rivedrà vecchie amiche, come il trans Agrado (Eva Robin's), e incrocerà il percorso di altre donne, l'ingenua e generosa suor Rosa, la famosa attrice Huma Rojo (Alvia Reale) e la sua giovane amante Nina, in un crescente groviglio di sentimenti che si scioglierà solo nel finale in quella che si presenta come una vera e propria celebrazione della forza delle donne.
L'adattamento teatrale di Samuel Adamson e la regia di Leo Muscato, a mio parere, arricchiscono questa storia, nella misura in cui la asciugano di qualche eccesso tipicamente almodovariano, senza tradirne lo spirito (si veda qui una galleria delle foto di scena).
Così, la scenografia di Antonio Panzuto non può - e probabilmente non vuole - riprodurre la fantasmagoria di colori del film, ma comunica con altrettanta forza grazie alle variazioni cromatiche dei disegni astratti proiettati sullo sfondo.
Le attrici, che - come nel film di Almodovar - occupano integralmente la scena oscurando le poche figure maschili presenti sul palco, pur restando volutamente smisurate (nel senso letterale di "fuori misura") rispetto a un registro strettamente realistico, camminano sicure sul sottile filo teso tra dramma e commedia, ricche di vitalità e di gioia e, al contempo, sovrabbondanti di pathos e profondità di dolore. Elisabetta Pozzi ci regala una Manuela intensa, ironica, forte, generosa, dura, dolce, in una parola una donna vera, con tutta la sua complessità e le mille possibili sfaccettature della sua umanità. Eva Robin's riesce a restituirci la grazia e la sovrabbondanza del personaggio del trans Agrado, permettendoci di comprenderne - ad ogni entrata in scena - l'intelligenza, il cuore, la sofferenza, la voglia di vivere.
Più di tutto, però, mi sono piaciute la fitta tramatura di rimandi letterari e testuali che tiene insieme l'intero spettacolo, nonché la forte caratterizzazione teatrale e metateatrale della narrazione. Com'è noto, la pièce teatrale di Tennessee Williams, Un tram chiamato desiderio ha un ruolo importante in questa storia, non solo perché intorno e dentro il teatro in cui si rappresenta lo spettacolo si verificano molti dei suoi episodi chiave, ma anche perché alcuni dialoghi di Williams fanno da contrappunto e da sostituto al dialogo tra i personaggi. Questa rappresentazione nella rappresentazione consente inoltre al regista di giocare con gli spettatori, facendoli passare continuamente (e fisicamente grazie ad un arguto allestimento scenico) dal ruolo di pubblico (della storia principale e/o di quella che i protagonisti mettono in scena), cui i protagonisti si rivolgono spesso direttamente, al ruolo di parti in causa, chiamati a osservare il dietro le quinte, a partecipare e a testimoniare di quello che avviene dietro la rappresentazione.
Non a caso alla fine delle repliche di Un tram chiamato desiderio si compiono anche i destini dei protagonisti, in questo inestricabile rapporto a doppio filo che sembra legare realtà e finzione. Ma anche lo scioglimento del pathos è affidato ancora una volta a un testo teatrale, quello di cui l'attrice Huma Rojo ha deciso di accettare il ruolo principale e di cui sarà chiamata a recitare un passo a conclusione della storia, Nozze di sangue di Garcia Lorca.
In mezzo, a fare da collante testuale, il diario del giovane Esteban che la madre Manuela porta sempre con sé e di cui legge qua e là dei pezzi.
Insomma, quella di Adamson è un'opera nuova - non soltanto una trasposizione -, in quanto utilizza le potenzialità del linguaggio teatrale, i rimandi testuali e l'artificio della metarappresentazione per conferire alle tematiche almodovariane che conosciamo (l'identità di genere, il rapporto maschile/femminile, la coscienza di sé) un respiro forse ancora più ampio e universale, spingendoci a riflettere sul nostro ruolo nel limbo incerto tra realtà e finzione (spettatori o parti in causa?) e a considerare come nostri le incertezze, i dubbi, gli interrogativi, i sensi di colpa, le grandezze e le piccolezze dei personaggi che si muovono sul palco.
Tutti, in fondo, ci muoviamo sul grande palcoscenico della vita e nessuno di noi si può chiamare fuori dal coro di quell'umanità complessa che Adamson porta in scena. Forse solo in questo modo possiamo accettare di sospendere il giudizio. E capire dall'interno.
Voto: 4/5
Il trailer dello spettacolo
Elisabetta Pozzi parla di sua madre e della madre ideale
venerdì 26 novembre 2010
Porco rosso
Alzi la mano chi - guardando un film di Miyazaki - non ha mai pensato che sarebbe bello vivere nel mondo dalle mille sfumature che il maestro giapponese ogni volta ci regala!
Per fortuna qualche produttore cinematografico ha ritenuto un buon investimento riportare al cinema i vecchi lavori di Miyazaki. E così, grazie ad Andrea Occhipinti, eccoci in sala a vedere Porco rosso, un film che risale al 1992.
Da un punto di vista del disegno e del tipo di animazione, dei colori e delle musiche, mi è sembrato di essere trasportata in un attimo alla mia tarda infanzia, quella dei cartoni giapponesi che sono stati il nostro cibo quotidiano per tutti gli anni '80 (da Candy Candy a Georgie, dalla piccola Flo ad Annette, fino ad arrivare a Yattaman).
Il volto di Fio e il suo modo di muoversi, le bambine prese in ostaggio dai pirati e salvate da Porco rosso, gli stessi pirati della compagnia "Mammaiuto", sono assolutamente in linea con questa produzione.
Ma la grandezza di Miyazaki è la capacità di utilizzare registri visivi e narrativi apparentemente tradizionali per veicolare personaggi e storie straordinarie. E così nella varietà degli approcci che ci propone i suoi temi ci sono sempre tutti, con una incredibile coerenza.
C'è l'elemento fantastico; qui lo strano caso del pilota italiano Marco Pagot condannato per un maleficio ad assumere le fattezze di un maiale, non si sa bene per quali motivi e in quali circostanze.
Ci sono le figure femminili che qui diventano l'elemento di continuità e il vero motore della storia: dalle quindici, scatenate, bimbette rapite dai pirati alla giovane Fio, ingegnere progettista di idrovolanti, dalle donne del paese chiamate a lavorare alla costruzione dell'aereo di Porco alle nonnine vitali e operative, fino ad arrivare alla bella e malinconica Gina, che gestisce l'Hotel Adriano.
Le figure femminili sono la parte più delicata e, allo stesso tempo, forte del film. Intorno a loro si muove una massa di figure maschili i cui tratti tendenzialmente caricaturali li rendono sgraziati e a volte un po' inetti, ma sostanzialmente simpatici.
Ci sono i temi politici: il rifiuto della guerra e dei totalitarismi, la scelta di una morale libertaria ma fondata sui valori del rispetto e della solidarietà umana, l'amore, la compassione.
C'è la componente onirica nella bellissima storia che Porco racconta a Fio.
C'è il mistero dell'irrisolto, visto che non sapremo mai se il maleficio su Porco sarà alla fine sciolto.
C'è - in fondo in fondo e nonostante la luminosità delle immagini e la positività e freschezza che si sprigiona dai personaggi - un senso di malinconia e pessimismo, che è connaturato alla poetica di Miyazaki e che nasce dalla constatazione che l'umanità, nonostante le sue potenzialità, finisce spesso per intraprendere le strade della morte, della distruzione della natura, del conflitto.
Ma qui non ci sono maghi né bacchette magiche a modificare il corso degli eventi. Solo un uomo dal gran cuore, trasformato in un maiale, e una giovane determinata e piena di ideali.
In generale, rispetto ad altri lavori di Miyazaki non c'è dubbio che in questo si avverta il desiderio di librarsi al di sopra delle angosce (sfiorando la superficie dell'acqua o volteggiando tra le nubi), di ritirarsi nell'armonia della solitudine (la spiaggia dove Porco ha costruito il suo rifugio), di provare ancora a credere in quella parte di umanità che, dai margini in cui vive, si possa fare portatrice di valori positivi. Insomma, la voglia di sperare, nonostante tutto.
Voto: 4,5/5
Per fortuna qualche produttore cinematografico ha ritenuto un buon investimento riportare al cinema i vecchi lavori di Miyazaki. E così, grazie ad Andrea Occhipinti, eccoci in sala a vedere Porco rosso, un film che risale al 1992.
Da un punto di vista del disegno e del tipo di animazione, dei colori e delle musiche, mi è sembrato di essere trasportata in un attimo alla mia tarda infanzia, quella dei cartoni giapponesi che sono stati il nostro cibo quotidiano per tutti gli anni '80 (da Candy Candy a Georgie, dalla piccola Flo ad Annette, fino ad arrivare a Yattaman).
Il volto di Fio e il suo modo di muoversi, le bambine prese in ostaggio dai pirati e salvate da Porco rosso, gli stessi pirati della compagnia "Mammaiuto", sono assolutamente in linea con questa produzione.
Ma la grandezza di Miyazaki è la capacità di utilizzare registri visivi e narrativi apparentemente tradizionali per veicolare personaggi e storie straordinarie. E così nella varietà degli approcci che ci propone i suoi temi ci sono sempre tutti, con una incredibile coerenza.
C'è l'elemento fantastico; qui lo strano caso del pilota italiano Marco Pagot condannato per un maleficio ad assumere le fattezze di un maiale, non si sa bene per quali motivi e in quali circostanze.
Ci sono le figure femminili che qui diventano l'elemento di continuità e il vero motore della storia: dalle quindici, scatenate, bimbette rapite dai pirati alla giovane Fio, ingegnere progettista di idrovolanti, dalle donne del paese chiamate a lavorare alla costruzione dell'aereo di Porco alle nonnine vitali e operative, fino ad arrivare alla bella e malinconica Gina, che gestisce l'Hotel Adriano.
Le figure femminili sono la parte più delicata e, allo stesso tempo, forte del film. Intorno a loro si muove una massa di figure maschili i cui tratti tendenzialmente caricaturali li rendono sgraziati e a volte un po' inetti, ma sostanzialmente simpatici.
Ci sono i temi politici: il rifiuto della guerra e dei totalitarismi, la scelta di una morale libertaria ma fondata sui valori del rispetto e della solidarietà umana, l'amore, la compassione.
C'è la componente onirica nella bellissima storia che Porco racconta a Fio.
C'è il mistero dell'irrisolto, visto che non sapremo mai se il maleficio su Porco sarà alla fine sciolto.
C'è - in fondo in fondo e nonostante la luminosità delle immagini e la positività e freschezza che si sprigiona dai personaggi - un senso di malinconia e pessimismo, che è connaturato alla poetica di Miyazaki e che nasce dalla constatazione che l'umanità, nonostante le sue potenzialità, finisce spesso per intraprendere le strade della morte, della distruzione della natura, del conflitto.
Ma qui non ci sono maghi né bacchette magiche a modificare il corso degli eventi. Solo un uomo dal gran cuore, trasformato in un maiale, e una giovane determinata e piena di ideali.
In generale, rispetto ad altri lavori di Miyazaki non c'è dubbio che in questo si avverta il desiderio di librarsi al di sopra delle angosce (sfiorando la superficie dell'acqua o volteggiando tra le nubi), di ritirarsi nell'armonia della solitudine (la spiaggia dove Porco ha costruito il suo rifugio), di provare ancora a credere in quella parte di umanità che, dai margini in cui vive, si possa fare portatrice di valori positivi. Insomma, la voglia di sperare, nonostante tutto.
Voto: 4,5/5
giovedì 25 novembre 2010
I quattro fiumi / Fred Vargas e Baudoin
I quattro fiumi / Fred Vargas e Baudoin; trad. di Margherita Botto. Torino: Einaudi, 2010.
Devo ammettere che prima di iniziare la lettura di questo ho mollato l'altro libro di Fred Vargas ultimo uscito Prima di morire addio. In realtà, si trattava di un libro scritto nel 1999 e secondo me tirato fuori da qualche soffitta per sfruttare l'effetto Vargas. Non so, non mi ha preso, né intrigato... Insomma, l'ho rimesso sugli scaffali. Chissà.
Così, per riconciliarmi con la Vargas ho pensato che questa ardita operazione di tradurre in immagini un giallo con Adamsberg protagonista potesse essere una bella occasione.
Eh sì, perché I quattro fiumi è un graphic novel, in cui i testi sono della Vargas e i disegni di Edmond Baudoin. Per la prima volta il commissario Adamsberg e il fido Danglard escono dal limbo delle nostre fantasie e trovano un volto.
Come tutto ciò che a lungo si è covato nella nostra mente, il risultato della traduzione in immagini operata da qualcun altro non è necessariamente soddisfacente. Io, per esempio, affezionata come sono al personaggio di Danglard sono rimasta delusa dalla sua rappresentazione di uomo sfatto e "debosciato". È vero che si tratta di una rappresentazione che in parte rispecchia la natura letteraria del personaggio, ma io l'avrei voluto omaggiato di una dignità che la sua cultura e qualità morale gli fanno meritare! E Adamsberg, secondo me, è troppo fashion per essere veramente lui, "lo spalatore delle nuvole" che conosciamo.
Detto questo nei loro occhi e nelle espressioni del loro viso ritroviamo certamente i nostri eroi, perché Baudoin ha un tratto dotato di una straordinaria espressività. Devo dire che non è lo stile che più amo; di solito, preferisco il disegno più nitido e pulito, ma non c'è dubbio che in questo caso un tratto sporco e carico è perfettamente coerente con la storia raccontata e forse aggiunge la giusta dose di mistero a un giallo che dal punto di vista della trama può essere considerato po' debole.
Lo stile della Vargas c'è tutto: le citazioni letterarie, l'attenzione ai personaggi (in questo caso tutti i componenti della famiglia Braban, padre e quattro figli maschi, che sono il vero cuore della storia), la psicologia umana, l'originalità delle idee (in questo caso al centro della storia c'è padre Braban che si è messo in testa di ricostruire la fontana del Bernini, I quattro fiumi, con le lattine della birra, e i suoi figli lo aiutano in questa incredibile impresa).
Certo, la scrittura della Vargas - che raggiunge i suoi maggiori picchi quando si fa realmente letteraria - ci perde un po', ma la bellezza dell'esperimento compensa in parte questa perdita.
A questo punto io personalmente aspetto le prossime puntate di questa collaborazione per dare un volto anche a Retancourt, a Camille, al gatto Palla e a tutto il variegato mondo che la Vargas è riuscita a far diventare parte del nostro.
Voto: 3,5
Devo ammettere che prima di iniziare la lettura di questo ho mollato l'altro libro di Fred Vargas ultimo uscito Prima di morire addio. In realtà, si trattava di un libro scritto nel 1999 e secondo me tirato fuori da qualche soffitta per sfruttare l'effetto Vargas. Non so, non mi ha preso, né intrigato... Insomma, l'ho rimesso sugli scaffali. Chissà.
Così, per riconciliarmi con la Vargas ho pensato che questa ardita operazione di tradurre in immagini un giallo con Adamsberg protagonista potesse essere una bella occasione.
Eh sì, perché I quattro fiumi è un graphic novel, in cui i testi sono della Vargas e i disegni di Edmond Baudoin. Per la prima volta il commissario Adamsberg e il fido Danglard escono dal limbo delle nostre fantasie e trovano un volto.
Come tutto ciò che a lungo si è covato nella nostra mente, il risultato della traduzione in immagini operata da qualcun altro non è necessariamente soddisfacente. Io, per esempio, affezionata come sono al personaggio di Danglard sono rimasta delusa dalla sua rappresentazione di uomo sfatto e "debosciato". È vero che si tratta di una rappresentazione che in parte rispecchia la natura letteraria del personaggio, ma io l'avrei voluto omaggiato di una dignità che la sua cultura e qualità morale gli fanno meritare! E Adamsberg, secondo me, è troppo fashion per essere veramente lui, "lo spalatore delle nuvole" che conosciamo.
Detto questo nei loro occhi e nelle espressioni del loro viso ritroviamo certamente i nostri eroi, perché Baudoin ha un tratto dotato di una straordinaria espressività. Devo dire che non è lo stile che più amo; di solito, preferisco il disegno più nitido e pulito, ma non c'è dubbio che in questo caso un tratto sporco e carico è perfettamente coerente con la storia raccontata e forse aggiunge la giusta dose di mistero a un giallo che dal punto di vista della trama può essere considerato po' debole.
Lo stile della Vargas c'è tutto: le citazioni letterarie, l'attenzione ai personaggi (in questo caso tutti i componenti della famiglia Braban, padre e quattro figli maschi, che sono il vero cuore della storia), la psicologia umana, l'originalità delle idee (in questo caso al centro della storia c'è padre Braban che si è messo in testa di ricostruire la fontana del Bernini, I quattro fiumi, con le lattine della birra, e i suoi figli lo aiutano in questa incredibile impresa).
Certo, la scrittura della Vargas - che raggiunge i suoi maggiori picchi quando si fa realmente letteraria - ci perde un po', ma la bellezza dell'esperimento compensa in parte questa perdita.
A questo punto io personalmente aspetto le prossime puntate di questa collaborazione per dare un volto anche a Retancourt, a Camille, al gatto Palla e a tutto il variegato mondo che la Vargas è riuscita a far diventare parte del nostro.
Voto: 3,5
martedì 23 novembre 2010
Wild nothing
Se volete capire che cos'è un gruppo indie pop negli anni '10 del 2000 andate a vedere un concerto dei Wild nothing, cosa che io ho fatto ieri andando al Circolo degli artisti (devo dire che il Circolo mi era un po' mancato!).
Eh sì, perché indie non è solo una tipologia musicale, cioè un modo di fare musica (sebbene, secondo alcuni, questa etichetta non avrebbe alcun significato realmente unitario), bensì anche un modo di vestire, di stare sul palco, di suonare, di relazionarsi con il pubblico.
I Wild nothing, come moltissimi di questi gruppi indie, sono 4 ragazzi (di età compresa tra i 20 e i 30 anni): 2 chitarre, 1 basso, 1 batteria (una delle due chitarre è a volte sostituita da una tastiera). Il cantante è di solito anche chitarrista e costituisce il cuore musicale del gruppo insieme al polistrumentista silenzioso. In questo caso si tratta rispettivamente di Jack Tatum e di Nathan Goodman. Gli altri due componenti sono Clay Violand al basso e Michael Skattum (alla batteria).
In generale sono tutti molto silenziosi. Si limitano a ringraziare ripetutamente il pubblico, senza intrattenersi in "inutili" conversazioni. Non hanno esattamente le facce allegre, anzi di solito sorridono pochissimo. Del resto, la loro musica tende al malinconico, tranne pochissimi pezzi per i quali si concedono qualche distrazione. In questo caso si senta, ad esempio, Summer holiday oppure Our composition book.
Componenti essenziali di un gruppo indie sono l'aspetto fisico e l'abbigliamento. Di solito questi musicisti non sono - o non vogliono sembrare - particolarmente belli. Almeno uno di loro porta gli occhialoni scuri (in questo caso il giovane batterista, che è anche l'unico con l'aria meno da bravo ragazzo e con il torso completamente tatuato).
Gli altri tendenzialmente hanno uno stile tra il minimalista e il vintage. Jack Tatum ha delle simil-Converse nere, mezze rotte, un jeans attillato, una rada peluria bionda sul labbro superiore e i capelli ben pettinati.
Il bassista ha le scarpe eleganti del nonno che però sembrano stargli troppo strette, una magliettina leggera con un cardigan stile Muji, barba e capelli un po' lunghi con il ciuffo che gli cade davanti agli occhi quando suona.
Il polistrumentista, Nathan Goodman, ha lo scarponcino tipo Timberland, jeans e camicia un po' da forestale, barba, capello folto e aria molto seria e compunta.
In generale, non si muovono molto sul palco, non puntano sulla loro fisicità, ma solo sulla musica.
Personalmente li ho trovati tutto sommato meno convincenti dal vivo che ascoltati su CD. Non c'è dubbio che scontano un problema di originalità, nel senso che è molto difficile per queste band acquisire un'identità riconoscibile e autonoma. Probabilmente dal vivo - e nel momento in cui non si punta tutto sulla performance - questo problema è ancora più evidente.
In sostanza, i Wild Nothing non mi sono dispiaciuti senza però entusiasmarmi. Probabilmente la loro componente migliore è quella più anni '80, più ritmica e allegra, ma per il momento resta a mio avviso ancora troppo in secondo piano. Il loro ultimo lavoro Gemini è stato considerato uno dei migliori 10 dischi indie del 2010 - e probabilmente è vero. Piuttosto si deve forse riconoscere qualche difficoltà del genere musicale a trovare nuovi spunti.
Due parole, infine, sul gruppo di apertura, i giovanissimi romani Boxerin Club, musicisti pieni di entusiasmo, ma ancora un po' acerbi sia musicalmente sia nella presenza scenica. Ma avranno tempo di crescere, soprattutto se non si mettono in testa di copiare i grandi, bensì si sforzano di cercano una propria, autonoma, strada musicale.
Voto: 3/5
Eh sì, perché indie non è solo una tipologia musicale, cioè un modo di fare musica (sebbene, secondo alcuni, questa etichetta non avrebbe alcun significato realmente unitario), bensì anche un modo di vestire, di stare sul palco, di suonare, di relazionarsi con il pubblico.
I Wild nothing, come moltissimi di questi gruppi indie, sono 4 ragazzi (di età compresa tra i 20 e i 30 anni): 2 chitarre, 1 basso, 1 batteria (una delle due chitarre è a volte sostituita da una tastiera). Il cantante è di solito anche chitarrista e costituisce il cuore musicale del gruppo insieme al polistrumentista silenzioso. In questo caso si tratta rispettivamente di Jack Tatum e di Nathan Goodman. Gli altri due componenti sono Clay Violand al basso e Michael Skattum (alla batteria).
In generale sono tutti molto silenziosi. Si limitano a ringraziare ripetutamente il pubblico, senza intrattenersi in "inutili" conversazioni. Non hanno esattamente le facce allegre, anzi di solito sorridono pochissimo. Del resto, la loro musica tende al malinconico, tranne pochissimi pezzi per i quali si concedono qualche distrazione. In questo caso si senta, ad esempio, Summer holiday oppure Our composition book.
Componenti essenziali di un gruppo indie sono l'aspetto fisico e l'abbigliamento. Di solito questi musicisti non sono - o non vogliono sembrare - particolarmente belli. Almeno uno di loro porta gli occhialoni scuri (in questo caso il giovane batterista, che è anche l'unico con l'aria meno da bravo ragazzo e con il torso completamente tatuato).
Gli altri tendenzialmente hanno uno stile tra il minimalista e il vintage. Jack Tatum ha delle simil-Converse nere, mezze rotte, un jeans attillato, una rada peluria bionda sul labbro superiore e i capelli ben pettinati.
Il bassista ha le scarpe eleganti del nonno che però sembrano stargli troppo strette, una magliettina leggera con un cardigan stile Muji, barba e capelli un po' lunghi con il ciuffo che gli cade davanti agli occhi quando suona.
Il polistrumentista, Nathan Goodman, ha lo scarponcino tipo Timberland, jeans e camicia un po' da forestale, barba, capello folto e aria molto seria e compunta.
In generale, non si muovono molto sul palco, non puntano sulla loro fisicità, ma solo sulla musica.
Personalmente li ho trovati tutto sommato meno convincenti dal vivo che ascoltati su CD. Non c'è dubbio che scontano un problema di originalità, nel senso che è molto difficile per queste band acquisire un'identità riconoscibile e autonoma. Probabilmente dal vivo - e nel momento in cui non si punta tutto sulla performance - questo problema è ancora più evidente.
In sostanza, i Wild Nothing non mi sono dispiaciuti senza però entusiasmarmi. Probabilmente la loro componente migliore è quella più anni '80, più ritmica e allegra, ma per il momento resta a mio avviso ancora troppo in secondo piano. Il loro ultimo lavoro Gemini è stato considerato uno dei migliori 10 dischi indie del 2010 - e probabilmente è vero. Piuttosto si deve forse riconoscere qualche difficoltà del genere musicale a trovare nuovi spunti.
Due parole, infine, sul gruppo di apertura, i giovanissimi romani Boxerin Club, musicisti pieni di entusiasmo, ma ancora un po' acerbi sia musicalmente sia nella presenza scenica. Ma avranno tempo di crescere, soprattutto se non si mettono in testa di copiare i grandi, bensì si sforzano di cercano una propria, autonoma, strada musicale.
Voto: 3/5
giovedì 18 novembre 2010
The social network
Ovvero la storia di Facebook, la piattaforma sociale di maggiore successo nella storia (fin qui, visto che i miei nipoti adolescenti già la snobbano un po') di Internet.
La storia in sé dovrebbe essere nota, essendo finita sui giornali di tutti il mondo, ma vale la pena ricordarla. Il giovane Mark Zuckerberg (Jesse Eisenberg, che io mi ricordavo ragazzino timido e un po' imbranato in Roger Dodger), un giovane studente di Harvard, per reazione al fatto di essere stato lasciato dalla sua ragazza, comincia a fare i primi esperimenti di un sito sociale in cui sia possibile mettere - volontariamente ed in maniera esclusiva - contenuti di vario genere e sottoporli al giudizio degli altri. Dal cattivo scherzo di Facemash, che gli costerà la sospensione dall'università, a TheFacebook, impresa nella quale si metterà insieme all'amico Eduardo Saverin (Andrew Garfield).
Il progetto cresce, ed oltre a suscitare le ire dei fratelli Winckelvoss (Armie Hammer e Joshua Pence), che si sentono defraudati di un'idea in cui avevano coinvolto lo stesso Zuckerberg, raggiunge anche Sean Parker (Justin Timberlake), fondatore di Napster, geniaccio informatico anche lui, ma ormai sul lastrico per i guai legali avuti e le cause che ha dovuto affrontare.
Mentre TheFacebook diventa Facebook più o meno come lo conosciamo oggi e raggiunge il milione di iscritti (trasformandosi in un affare di proporzioni impensabili), i rapporti tra i soggetti coinvolti si sfasciano completamente. Ne nasce una causa per milioni di euro, in cui Mark Zuckerberg e il suo avvocato non potranno che patteggiare e chiedere la clausola di riservatezza.
Fin qui la storia. Ora veniamo al film.
Non mi aspettavo un capolavoro (e non lo è), ma David Fincher non è certo l'ultimo arrivato e il film è costruito con grande maestria. Si parte dalla fine. Il processo. E, attraverso una serie di flashback, si getta luce sul come e perché si è arrivati a quel momento. Il ritmo è sostenutissimo, a tratti fulminante (mi ha ricordato in certi momenti Fight Club), i dialoghi sono ottimi, alcuni brillanti e quasi esilaranti (vedi ad esempio quello tra il rettore della Harvard University e i fratelli Winckelvoss), la colonna sonora è di grande effetto, la ricostruzione dell'ambiente delle "confraternite" delle università americane è efficace (probabilmente migliore di molti altri film).
Insomma, si arriva in fondo al film soddisfatti, perché ci hanno raccontato una storia interessante. E anche bene.
Non mi ha invece del tutto convinto la "morale". Cioè l'interpretazione che il regista e lo sceneggiatore hanno voluto dare di questa vicenda.
Mark Zuckerberg è un nerd di intelligenza superiore, afflitto dal problema di non essere accettato, di essere in qualche modo diverso dagli altri, da quella massa che da un lato disprezza, ma allo stesso tempo agogna. Scaricato dalla ragazza, vestito in pigiama e ciabatte, completamente immerso nei suoi codici, non cattivo, ma relazionalmente inabile. Si entusiasma per Sean Parker, che persegue solo i propri interessi e la vendetta personale, nel suo universo fatto di donne, droga e feste, non riconosce l'amicizia di Eduardo, dandole un calcio per invidia, si ritrova miliardario e solo. Come le dice la giovane avvocatessa, "non sei una cattiva persona, ma ti sforzi con tutto te stesso di essere stronzo".
Ne consegue - tra le le righe - un'interpretazione altrettanto morale dello strumento Facebook, nuovo spazio sociale per disadattati e gente che non è in grado di relazionarsi nella vita reale, espressione di una società superficiale, in cui l'amicizia come eravamo abituati a intenderla perde valore. O forse, al contrario, il film ci vuole suggerisce i rischi di una vita trasferita sulla rete, senza avere solide basi nella realtà. Ma in fondo è una facile morale che può essere applicata a qualunque strumento. Si potrebbe dire lo stesso per la televisione, il cellulare, i videogame, la musica, Internet in molte delle sue manifestazioni e qualunque altra cosa venga utilizzata come un sostitutivo della costruzione di un pensiero autonomo. Non è un problema dei mezzi che usiamo, ma sempre di persone e di consapevolezza.
In ogni caso, a me ha fatto impressione vedere raccontata sul grande schermo la "banalità delle origini", cioè come quello che è un fenomeno mondiale (su cui si fanno studi sociologici, si passa parte del nostro tempo ecc.) nasce in fondo solo per dare un seguito ai contatti più superficiali e magari trasformarli in occasioni di "rimorchio".
Bene che Fincher si sia mantenuto abbastanza in equilibrio su questa linea sottile, senza spaccare il mondo in buoni e cattivi. Tutti in fondo ci vengono presentati come persone dotate di una sufficiente complessità per non diventare solo macchiette, sebbene non immuni da tratti un po' stereotipati.
Un po' come tutti gli apologhi, alla fine, - uscendo dalla sala - ognuno rimarrà delle proprie convinzioni, o forse si rafforzerà nelle stesse, per effetto della rilettura selettiva che di fronte a film e fenomeni di questo tipo è praticamente inevitabile.
La domanda poi tipicamente italiana se una cosa del genere sarebbe potuta nascere in Italia mi pare un po' oziosa e un po' banale messa in questi termini. Dunque, scusatemi, ma ho deciso di tacerne.
Voto: 4/5
La storia in sé dovrebbe essere nota, essendo finita sui giornali di tutti il mondo, ma vale la pena ricordarla. Il giovane Mark Zuckerberg (Jesse Eisenberg, che io mi ricordavo ragazzino timido e un po' imbranato in Roger Dodger), un giovane studente di Harvard, per reazione al fatto di essere stato lasciato dalla sua ragazza, comincia a fare i primi esperimenti di un sito sociale in cui sia possibile mettere - volontariamente ed in maniera esclusiva - contenuti di vario genere e sottoporli al giudizio degli altri. Dal cattivo scherzo di Facemash, che gli costerà la sospensione dall'università, a TheFacebook, impresa nella quale si metterà insieme all'amico Eduardo Saverin (Andrew Garfield).
Il progetto cresce, ed oltre a suscitare le ire dei fratelli Winckelvoss (Armie Hammer e Joshua Pence), che si sentono defraudati di un'idea in cui avevano coinvolto lo stesso Zuckerberg, raggiunge anche Sean Parker (Justin Timberlake), fondatore di Napster, geniaccio informatico anche lui, ma ormai sul lastrico per i guai legali avuti e le cause che ha dovuto affrontare.
Mentre TheFacebook diventa Facebook più o meno come lo conosciamo oggi e raggiunge il milione di iscritti (trasformandosi in un affare di proporzioni impensabili), i rapporti tra i soggetti coinvolti si sfasciano completamente. Ne nasce una causa per milioni di euro, in cui Mark Zuckerberg e il suo avvocato non potranno che patteggiare e chiedere la clausola di riservatezza.
Fin qui la storia. Ora veniamo al film.
Non mi aspettavo un capolavoro (e non lo è), ma David Fincher non è certo l'ultimo arrivato e il film è costruito con grande maestria. Si parte dalla fine. Il processo. E, attraverso una serie di flashback, si getta luce sul come e perché si è arrivati a quel momento. Il ritmo è sostenutissimo, a tratti fulminante (mi ha ricordato in certi momenti Fight Club), i dialoghi sono ottimi, alcuni brillanti e quasi esilaranti (vedi ad esempio quello tra il rettore della Harvard University e i fratelli Winckelvoss), la colonna sonora è di grande effetto, la ricostruzione dell'ambiente delle "confraternite" delle università americane è efficace (probabilmente migliore di molti altri film).
Insomma, si arriva in fondo al film soddisfatti, perché ci hanno raccontato una storia interessante. E anche bene.
Non mi ha invece del tutto convinto la "morale". Cioè l'interpretazione che il regista e lo sceneggiatore hanno voluto dare di questa vicenda.
Mark Zuckerberg è un nerd di intelligenza superiore, afflitto dal problema di non essere accettato, di essere in qualche modo diverso dagli altri, da quella massa che da un lato disprezza, ma allo stesso tempo agogna. Scaricato dalla ragazza, vestito in pigiama e ciabatte, completamente immerso nei suoi codici, non cattivo, ma relazionalmente inabile. Si entusiasma per Sean Parker, che persegue solo i propri interessi e la vendetta personale, nel suo universo fatto di donne, droga e feste, non riconosce l'amicizia di Eduardo, dandole un calcio per invidia, si ritrova miliardario e solo. Come le dice la giovane avvocatessa, "non sei una cattiva persona, ma ti sforzi con tutto te stesso di essere stronzo".
Ne consegue - tra le le righe - un'interpretazione altrettanto morale dello strumento Facebook, nuovo spazio sociale per disadattati e gente che non è in grado di relazionarsi nella vita reale, espressione di una società superficiale, in cui l'amicizia come eravamo abituati a intenderla perde valore. O forse, al contrario, il film ci vuole suggerisce i rischi di una vita trasferita sulla rete, senza avere solide basi nella realtà. Ma in fondo è una facile morale che può essere applicata a qualunque strumento. Si potrebbe dire lo stesso per la televisione, il cellulare, i videogame, la musica, Internet in molte delle sue manifestazioni e qualunque altra cosa venga utilizzata come un sostitutivo della costruzione di un pensiero autonomo. Non è un problema dei mezzi che usiamo, ma sempre di persone e di consapevolezza.
In ogni caso, a me ha fatto impressione vedere raccontata sul grande schermo la "banalità delle origini", cioè come quello che è un fenomeno mondiale (su cui si fanno studi sociologici, si passa parte del nostro tempo ecc.) nasce in fondo solo per dare un seguito ai contatti più superficiali e magari trasformarli in occasioni di "rimorchio".
Bene che Fincher si sia mantenuto abbastanza in equilibrio su questa linea sottile, senza spaccare il mondo in buoni e cattivi. Tutti in fondo ci vengono presentati come persone dotate di una sufficiente complessità per non diventare solo macchiette, sebbene non immuni da tratti un po' stereotipati.
Un po' come tutti gli apologhi, alla fine, - uscendo dalla sala - ognuno rimarrà delle proprie convinzioni, o forse si rafforzerà nelle stesse, per effetto della rilettura selettiva che di fronte a film e fenomeni di questo tipo è praticamente inevitabile.
La domanda poi tipicamente italiana se una cosa del genere sarebbe potuta nascere in Italia mi pare un po' oziosa e un po' banale messa in questi termini. Dunque, scusatemi, ma ho deciso di tacerne.
Voto: 4/5
giovedì 11 novembre 2010
Last night
Diciamo che questo potevo anche risparmiarmelo! ;-)
Ho deciso comunque di scriverne una breve recensione, perché è stato il mio primo film della stagione cinematografica autunno-inverno romana, dopo il rientro da Bruxelles. Quindi, vi beccate questa mia recensione controvoglia (devo pure dire che oggi il mio umore non è dei migliori, dopo la "lavata" che mi sono presa in motorino e il cellulare impazzito per l'acqua).
Dunque, la storia non è certamente originale. Michael (Sam Worthington) e Joanna (Keira Knightley) sono sposati da tre anni e stanno insieme dai tempi del college. Si amano e il loro matrimonio sostanzialmente funziona, fino a quando lui parte per un viaggio di lavoro cui partecipa la sua nuova collega di lavoro, Laura (Eva Mendes), e lei riceve la visita di Alex (Guillame Canet), l'uomo con cui ha avuto una storia nel breve periodo durante il quale si era lasciata con Michael, prima del matrimonio.
Tutti e due dovranno fare i conti con la tentazione e l'attrazione rappresentata da ciò che non si conosce o ciò cui si è rinunciato, rispetto alla pacata felicità del quotidiano. Il tutto condito da dialoghi tra il cinico e l'adolescenziale, che più di una volta strappano la risata. Per tacere della stereotipicità dei personaggi, Keira Knightley nel ruolo della donna fragile e troppo cerebrale (incline alle involuzioni mentali), Eva Mendes in quello della tentatrice dalle forme generose (esplicita e provocatrice), i due uomini, l'uno sentimentale e incerto, l'altro infine vinto dall'istinto.
Insomma, non metto in dubbio che il tema sia interessante e in qualche modo universale, né che il mistero dell'amore, la difficile dinamica di passione e sentimento, la convivenza col dubbio, la difficoltà delle scelte siano situazioni che continuamente si affacciano alla vita di noi tutti. In fondo, fa parte di una forma di convenienza sociale pensare che un rapporto di coppia sia qualcosa di semplice, che una volta costruito viva di vita propria e che si possa fare a meno di rifondarlo giorno per giorno; d'altra parte, a volte penso che la cerebralità sia un danno della società contemporanea, poiché introduce un eccesso di meta-riflessione in cui tavolta rimaniamo intrappolati.
Mi comincio a chiedere se siamo davvero più felici delle generazioni precedenti, certamente meno abituate a farsi domande sul proprio benessere psicologico e la propria felicità in quanto più assorbiti da problemi concreti. O forse si tratta in qualche modo di una condanna alla consapevolezza con cui imparare a convivere. Ma, alla fine, anche il fatto di domandarselo dimostra che è un meccanismo dal qualche non riusciamo veramente a liberarci...
In ogni caso, assistere sul grande schermo a questo melodramma imperfetto, un po' banale e un po' sclerotizzato, e che non aggiunge niente a quanto già detto in modi certamente più profondi, è davvero troppo.
Il prossimo film va assolutamente scelto con maggiore accuratezza. :-)
Voto: 1,5/5
Ho deciso comunque di scriverne una breve recensione, perché è stato il mio primo film della stagione cinematografica autunno-inverno romana, dopo il rientro da Bruxelles. Quindi, vi beccate questa mia recensione controvoglia (devo pure dire che oggi il mio umore non è dei migliori, dopo la "lavata" che mi sono presa in motorino e il cellulare impazzito per l'acqua).
Dunque, la storia non è certamente originale. Michael (Sam Worthington) e Joanna (Keira Knightley) sono sposati da tre anni e stanno insieme dai tempi del college. Si amano e il loro matrimonio sostanzialmente funziona, fino a quando lui parte per un viaggio di lavoro cui partecipa la sua nuova collega di lavoro, Laura (Eva Mendes), e lei riceve la visita di Alex (Guillame Canet), l'uomo con cui ha avuto una storia nel breve periodo durante il quale si era lasciata con Michael, prima del matrimonio.
Tutti e due dovranno fare i conti con la tentazione e l'attrazione rappresentata da ciò che non si conosce o ciò cui si è rinunciato, rispetto alla pacata felicità del quotidiano. Il tutto condito da dialoghi tra il cinico e l'adolescenziale, che più di una volta strappano la risata. Per tacere della stereotipicità dei personaggi, Keira Knightley nel ruolo della donna fragile e troppo cerebrale (incline alle involuzioni mentali), Eva Mendes in quello della tentatrice dalle forme generose (esplicita e provocatrice), i due uomini, l'uno sentimentale e incerto, l'altro infine vinto dall'istinto.
Insomma, non metto in dubbio che il tema sia interessante e in qualche modo universale, né che il mistero dell'amore, la difficile dinamica di passione e sentimento, la convivenza col dubbio, la difficoltà delle scelte siano situazioni che continuamente si affacciano alla vita di noi tutti. In fondo, fa parte di una forma di convenienza sociale pensare che un rapporto di coppia sia qualcosa di semplice, che una volta costruito viva di vita propria e che si possa fare a meno di rifondarlo giorno per giorno; d'altra parte, a volte penso che la cerebralità sia un danno della società contemporanea, poiché introduce un eccesso di meta-riflessione in cui tavolta rimaniamo intrappolati.
Mi comincio a chiedere se siamo davvero più felici delle generazioni precedenti, certamente meno abituate a farsi domande sul proprio benessere psicologico e la propria felicità in quanto più assorbiti da problemi concreti. O forse si tratta in qualche modo di una condanna alla consapevolezza con cui imparare a convivere. Ma, alla fine, anche il fatto di domandarselo dimostra che è un meccanismo dal qualche non riusciamo veramente a liberarci...
In ogni caso, assistere sul grande schermo a questo melodramma imperfetto, un po' banale e un po' sclerotizzato, e che non aggiunge niente a quanto già detto in modi certamente più profondi, è davvero troppo.
Il prossimo film va assolutamente scelto con maggiore accuratezza. :-)
Voto: 1,5/5
lunedì 1 novembre 2010
Bruxelles, ma belle! (Seconda parte - i luoghi e le cose)
Come dice la canzone di Jaune Toujours, Ici Bxl, (che sta alla città di Bruxelles come Empire state of mind di Jay-Z sta a New York), Bruxelles non è certo Parigi, non è New York, eppure non le manca una certa vitalità e fascino (vedi anche la prima puntata!).
Di guide gastronomiche, culturali e artistico-architettoniche della città in rete ce n'è quante ne volete. La mia sarà una guida sui generis, più che altro una guida del cuore e della memoria...
A me di questa città mancheranno (in ordine sparso):
- le gaufres e i camioncini che tutti i giorni si fermano agli angoli delle strade per venderle (in particolare quello di Avenue de la Toison d'Or, pochi metri da casa mia, con il suo irresistibile profumo di pasta lievitata zuccherata);
- la vista della città all'imbrunire dalle grandi finestre del mio appartamento (con l'imponente chiesa del Sablon, la torre della cattedrale, i palazzi illuminati, l'Atomium e lo stadio sullo sfondo) ;
- i grandi murales a fumetti dipinti su pezzi di pareti di case aggettanti sulla strada;
- Dille & Kamille e il tempo infinito passato a studiare tutti i piccoli oggetti per la cucina (per non parlare delle buonissime marmellate che mi sono perfino portata in Italia);
- i burri salati, con le loro mille marche e varianti che riempiono un'intera ala del frigorifero del supermercato;
- le brasseries di cucina belga, da Fin de Siècle a Les brassins, da Ploegmans a Belgo Belge, con le loro carbonnades, gli stoemps, le frites, i tiramisu agli speculoos ecc.;
- il quartiere africano di Matongé e la zona di Saint Boniface con i loro negozietti che vendono le stoffe colorate e i prodotti più improbabili e i tantissimi ristoranti etnici;
- le frites (in cartoccio) con la salsa che volete voi (io preferisco il ketchup), in particolare quelle di place Flagey, nonostante il tipo lentissimo che gestisce il baracchino e la fila ovviamente interminabile;
- i pub, come il Delirium tremens, che hanno sulla carta centinaia di birre (bionde, bianche, scure, d'abbazia, artigianali), con i loro interni fumosi e semibui, con le pareti decorate di vassoi e lampade con i marchi delle birre;
- la sala da the di Rue de Rollebeek, dove il timer ricorda quando l'infusione è perfetta e gli scones con la salsa alla vaniglia sono divini;
- la boulangerie Paul che sarà pure estremamente industriale e commerciale (c'è persino all'aeroporto di Charleroi), ma per chi viene da posti che non siano la Francia o il Belgio resta il paradiso delle brioches, dei croissants, dei pains au chocolat, delle quiches alle verdure, del pane ai cereali...;
- le cioccolaterie, quelle artigianali su tutte, sebbene anche Leonidas e Neuhaus si difendano bene;
- i supermercati con le affettatrici automatiche per il pane e i grandi spremiagrumi per portarsi a casa solo il succo di arancia, piuttosto che pesanti buste di arance, ma anche con intere pareti di cioccolata e decine di varianti delle buonissime barrette Galler, con la vasta scelta di birre (ho amato la Ciney), ma anche di vini, i tanti tipi di zucchero (ho adorato la cassonade brune);
- i negozi di fumetti (in Italia praticamente inesistenti) che, oltre a vendere tutto l'immaginabile in termini di albi, hanno anche delle bellissime stampe di tavole e disegni da incorniciare;
- il parchetto di palazzo Egmont, incastonato tra la circonvallazione e il quartiere del Sablon, oasi verde e scorciatoia da casa mia per il centro, nonché tutti gli altri immensi parchi della città;
- il grande spiazzo davanti alla sede centrale della Ing Direct, dove ogni tardo pomeriggio ragazzi di ogni età si esibiscono con i loro skateboard e le loro biciclette snodate;
- le gallerie antiquarie e d'arte e i mercatini brocante (di antiquatariato) e vide grenier (delle pulci) de Les Marolles;
- l'enorme mercato della domenica mattina intorno alla Gare du Midi, con i suoi banchi che rappresentano praticamente ogni paese del mondo e dove è possibile trovare di tutto;
- il quartiere di Saint Gilles, con il suo clima giovane senza essere fighetto, la sua maison du peuple al centro della piazza principale, i suoi locali dove c'è quasi sempre un concerto;
- la zona di Saint Gery con il suo mercato coperto trasformato in spazio espositivo e pub e la straordinaria concentrazione di caffè, birrerie e tavolini all'aperto;
- il buonissimo ristorante thailandese Khun May di Rue du Commerce, purtroppo scoperto troppo tardi;
- le numerose possibilità di ascoltare buona musica (dalle rassegne gratuite nei pub come Stoemp!, all'ottima programmazione di posti come il Botanique e l'Ancienne Belgique);
- il b&b dei miei amici Dominique e Armel, persone dotate di un'umanità e generosità squisita;
- la pizza de La brace, dove saranno pure antipatici, come dicono alcuni, ma si mangia la pizza più buona di Bruxelles, che potrebbe fare concorrenza anche a molte pizze italiane;
- la Maison des crepes di Rue du Midi, dove per un attimo ci si sente in Bretagna davanti a una galette de sarrasin innaffiata da buon sidro;
- il cinema Vendome con la sua aria antica e la buona programmazione;
- la zona di Sainte Catherine con i suoi ristoranti di pesce e la sua atmosfera tra il decadente e il multietnico;
- l'ascensore Poelaert (struttura che si staglia sullo sfondo di un'immensa terrazza panoramica all'ombra dell'orribile Palazzo di Giustizia) che funziona giorno e notte per collegare Louise a Rue Haute (tra Sablon e Marolles);
- la possibilità di arrivare, comodamente seduti in treno, in un'ora e mezzo a Parigi e in due ore a Londra ;
- la Galleria della Regina e il bistrot da pranzo veloce che si trova subito dopo l'angolo su Rue d'Arenberg;
- il baretto ricavato nello "scatinato" del cinema Nova, che non sai mai se troverai aperto;
- le buonissime pitte greche ripiene di Le Perroquet (nella zona alta del Sablon);
- il Bozar e le sue mostre;
- il museo Magritte e il suo cane impagliato;
- gli speculoos, la crema spalmabile agli speculoos, il gelato agli speculoos, che o li odi o li ami;
- le centinaia di folding bikes (Brompton, Dahon ecc.) che, nonostante le avvertenze di pericolosità dei bruxellesi, continuano a sfrecciare per tutta la città e a invadere la critical mass di Porte de Namur (ma state attenti che non ve la rubino, come è successo a me);
- scoprire che Bruxelles non è affatto piatta, come tutti credono, bensì tutta salite e discese...;
- l'ibridazione architettonica, culturale, linguistica che non sempre produce bellezza, ma certamente suscita interesse;
- le gallerie commerciali (di ottocentesca memoria), che puoi usare per passeggiare e guardare vetrine, come scorciatoia o come luogo per ripararti dal freddo;
- il ristorante (nonché associazione culturale belgo-africana) l'Horloge du Sud, dove la somma di belgi e africani produce un servizio lentissimo, ma l'atmosfera è rilassante, divertente e si mangia bene senza spendere troppo (e spesso ascoltando buona musica);
- le kickers, perché in Italia si trovano solo quelle da bambini, mentre l'atelier di Bruxelles fa delle collezioni di scarpe da adulti molto molto belle.
Bene, direi che è abbastanza, altrimenti cominciate a chiedervi perché non sono rimasta là. Ma, come probabilmente sapete per esperienza, per ciò che ci piace di solito c'è almeno altrettanto che non ci piace.
Del resto, le esperienze, i posti, i viaggi, le persone vanno presi un po' come la vita, con i suoi alti e bassi e il suo mix irripetibile di sensazioni che sta a ciascuno interpretare e accomodare rispetto a se stessi.
Quindi, eccomi Italia, eccomi Roma, eccomi Puglia.
Si ri-volta pagina, pronti a vivere tutto intensamente come sempre, senza dimenticare nulla di quello che si è vissuto.
Di guide gastronomiche, culturali e artistico-architettoniche della città in rete ce n'è quante ne volete. La mia sarà una guida sui generis, più che altro una guida del cuore e della memoria...
A me di questa città mancheranno (in ordine sparso):
- le gaufres e i camioncini che tutti i giorni si fermano agli angoli delle strade per venderle (in particolare quello di Avenue de la Toison d'Or, pochi metri da casa mia, con il suo irresistibile profumo di pasta lievitata zuccherata);
- la vista della città all'imbrunire dalle grandi finestre del mio appartamento (con l'imponente chiesa del Sablon, la torre della cattedrale, i palazzi illuminati, l'Atomium e lo stadio sullo sfondo) ;
- i grandi murales a fumetti dipinti su pezzi di pareti di case aggettanti sulla strada;
- Dille & Kamille e il tempo infinito passato a studiare tutti i piccoli oggetti per la cucina (per non parlare delle buonissime marmellate che mi sono perfino portata in Italia);
- i burri salati, con le loro mille marche e varianti che riempiono un'intera ala del frigorifero del supermercato;
- le brasseries di cucina belga, da Fin de Siècle a Les brassins, da Ploegmans a Belgo Belge, con le loro carbonnades, gli stoemps, le frites, i tiramisu agli speculoos ecc.;
- il quartiere africano di Matongé e la zona di Saint Boniface con i loro negozietti che vendono le stoffe colorate e i prodotti più improbabili e i tantissimi ristoranti etnici;
- le frites (in cartoccio) con la salsa che volete voi (io preferisco il ketchup), in particolare quelle di place Flagey, nonostante il tipo lentissimo che gestisce il baracchino e la fila ovviamente interminabile;
- i pub, come il Delirium tremens, che hanno sulla carta centinaia di birre (bionde, bianche, scure, d'abbazia, artigianali), con i loro interni fumosi e semibui, con le pareti decorate di vassoi e lampade con i marchi delle birre;
- la sala da the di Rue de Rollebeek, dove il timer ricorda quando l'infusione è perfetta e gli scones con la salsa alla vaniglia sono divini;
- la boulangerie Paul che sarà pure estremamente industriale e commerciale (c'è persino all'aeroporto di Charleroi), ma per chi viene da posti che non siano la Francia o il Belgio resta il paradiso delle brioches, dei croissants, dei pains au chocolat, delle quiches alle verdure, del pane ai cereali...;
- le cioccolaterie, quelle artigianali su tutte, sebbene anche Leonidas e Neuhaus si difendano bene;
- i supermercati con le affettatrici automatiche per il pane e i grandi spremiagrumi per portarsi a casa solo il succo di arancia, piuttosto che pesanti buste di arance, ma anche con intere pareti di cioccolata e decine di varianti delle buonissime barrette Galler, con la vasta scelta di birre (ho amato la Ciney), ma anche di vini, i tanti tipi di zucchero (ho adorato la cassonade brune);
- i negozi di fumetti (in Italia praticamente inesistenti) che, oltre a vendere tutto l'immaginabile in termini di albi, hanno anche delle bellissime stampe di tavole e disegni da incorniciare;
- il parchetto di palazzo Egmont, incastonato tra la circonvallazione e il quartiere del Sablon, oasi verde e scorciatoia da casa mia per il centro, nonché tutti gli altri immensi parchi della città;
- il grande spiazzo davanti alla sede centrale della Ing Direct, dove ogni tardo pomeriggio ragazzi di ogni età si esibiscono con i loro skateboard e le loro biciclette snodate;
- le gallerie antiquarie e d'arte e i mercatini brocante (di antiquatariato) e vide grenier (delle pulci) de Les Marolles;
- l'enorme mercato della domenica mattina intorno alla Gare du Midi, con i suoi banchi che rappresentano praticamente ogni paese del mondo e dove è possibile trovare di tutto;
- il quartiere di Saint Gilles, con il suo clima giovane senza essere fighetto, la sua maison du peuple al centro della piazza principale, i suoi locali dove c'è quasi sempre un concerto;
- la zona di Saint Gery con il suo mercato coperto trasformato in spazio espositivo e pub e la straordinaria concentrazione di caffè, birrerie e tavolini all'aperto;
- il buonissimo ristorante thailandese Khun May di Rue du Commerce, purtroppo scoperto troppo tardi;
- le numerose possibilità di ascoltare buona musica (dalle rassegne gratuite nei pub come Stoemp!, all'ottima programmazione di posti come il Botanique e l'Ancienne Belgique);
- il b&b dei miei amici Dominique e Armel, persone dotate di un'umanità e generosità squisita;
- la pizza de La brace, dove saranno pure antipatici, come dicono alcuni, ma si mangia la pizza più buona di Bruxelles, che potrebbe fare concorrenza anche a molte pizze italiane;
- la Maison des crepes di Rue du Midi, dove per un attimo ci si sente in Bretagna davanti a una galette de sarrasin innaffiata da buon sidro;
- il cinema Vendome con la sua aria antica e la buona programmazione;
- la zona di Sainte Catherine con i suoi ristoranti di pesce e la sua atmosfera tra il decadente e il multietnico;
- l'ascensore Poelaert (struttura che si staglia sullo sfondo di un'immensa terrazza panoramica all'ombra dell'orribile Palazzo di Giustizia) che funziona giorno e notte per collegare Louise a Rue Haute (tra Sablon e Marolles);
- la possibilità di arrivare, comodamente seduti in treno, in un'ora e mezzo a Parigi e in due ore a Londra ;
- la Galleria della Regina e il bistrot da pranzo veloce che si trova subito dopo l'angolo su Rue d'Arenberg;
- il baretto ricavato nello "scatinato" del cinema Nova, che non sai mai se troverai aperto;
- le buonissime pitte greche ripiene di Le Perroquet (nella zona alta del Sablon);
- il Bozar e le sue mostre;
- il museo Magritte e il suo cane impagliato;
- gli speculoos, la crema spalmabile agli speculoos, il gelato agli speculoos, che o li odi o li ami;
- le centinaia di folding bikes (Brompton, Dahon ecc.) che, nonostante le avvertenze di pericolosità dei bruxellesi, continuano a sfrecciare per tutta la città e a invadere la critical mass di Porte de Namur (ma state attenti che non ve la rubino, come è successo a me);
- scoprire che Bruxelles non è affatto piatta, come tutti credono, bensì tutta salite e discese...;
- l'ibridazione architettonica, culturale, linguistica che non sempre produce bellezza, ma certamente suscita interesse;
- le gallerie commerciali (di ottocentesca memoria), che puoi usare per passeggiare e guardare vetrine, come scorciatoia o come luogo per ripararti dal freddo;
- il ristorante (nonché associazione culturale belgo-africana) l'Horloge du Sud, dove la somma di belgi e africani produce un servizio lentissimo, ma l'atmosfera è rilassante, divertente e si mangia bene senza spendere troppo (e spesso ascoltando buona musica);
- le kickers, perché in Italia si trovano solo quelle da bambini, mentre l'atelier di Bruxelles fa delle collezioni di scarpe da adulti molto molto belle.
Bene, direi che è abbastanza, altrimenti cominciate a chiedervi perché non sono rimasta là. Ma, come probabilmente sapete per esperienza, per ciò che ci piace di solito c'è almeno altrettanto che non ci piace.
Del resto, le esperienze, i posti, i viaggi, le persone vanno presi un po' come la vita, con i suoi alti e bassi e il suo mix irripetibile di sensazioni che sta a ciascuno interpretare e accomodare rispetto a se stessi.
Quindi, eccomi Italia, eccomi Roma, eccomi Puglia.
Si ri-volta pagina, pronti a vivere tutto intensamente come sempre, senza dimenticare nulla di quello che si è vissuto.
venerdì 29 ottobre 2010
Bruxelles, ma belle! (Prima parte - le persone)
È tempo di bilanci... Di ritorni, di partenze, di arrivi, di separazioni, di ricongiungimenti, di sentimenti che si aggrovigliano lì da qualche parte in fondo all'anima, di paure che scavano profondità inaccessibili, di già vissuto e di completamente nuovo, di energie positive e di scoraggiamento, di stanchezza e di forza.
Come sempre quando la mia strada si sofferma per un tempo più o meno lungo in un luogo, quello che mi porto via sono innanzitutto le emozioni che le persone mi hanno regalato e quelle sensazioni che per sempre rimarranno legate a quel luogo. A queste persone dedico la prima parte del post bruxellese.
Così, pur nella certezza che la mia memoria le conserverà come tutte le cose più preziose, sento il bisogno di vedere queste sensazioni tradotte in scrittura. Per condividere quello che è stato solo mio, ma anche per lasciare una piccola eredità di esperienza della città a vantaggio di coloro che restano e di quelli che vi arriveranno.
Innanzitutto grazie a chi ha condiviso con me questo pezzetto di vita.
Non dimenticherò le cene per sperimentare posti nuovi, le ricerche dei concerti su Agenda.be, le lunghe chiacchierate, il senso di intimità arrivato così facilmente, l'abbraccio commosso di martedì pomeriggio, la certezza di aver aggiunto un'altra tesserina al puzzle della propria vita.
Non dimenticherò i caffè presi insieme a casa il sabato mattina, la serata al "barco" a ballare la salsa, le confidenze e i racconti, i trasporti di tutto quello che non stava in valigia, la telefonata di saluto alle cinque del mattino.
Non dimenticherò le colazioni della domenica al Sablon, le passeggiate in Rue du Midi esplorando i numerosi second hand bookstores, i giri al mercato delle pulci di Les Marolles, i pranzi con gli altri colleghi durante i quali parliamo solo tra di noi, gli umori altalenanti, quell' "I'll miss you" sulla porta dell'ascensore in chiusura.
Non dimenticherò la sorpresa e la bellezza di scoprire che, nonostante le differenze linguistiche e culturali, i momenti difficili, la brevità e finitezza del tempo a disposizione, l'amicizia e la sintonia arrivano inaspettate e sempre intense.
Parte del merito è di questa città strana, in apparenza ostile e non certo attraente, ma ricca di quella ricchezza speciale che solo le cose piccole e invisibili possono dare. Ma... di questo vi parlerò nel prossimo post, offrendovi la mia personale guida alla città, alle cose che mi mancheranno e che non potete assolutamente perdere.
Come sempre quando la mia strada si sofferma per un tempo più o meno lungo in un luogo, quello che mi porto via sono innanzitutto le emozioni che le persone mi hanno regalato e quelle sensazioni che per sempre rimarranno legate a quel luogo. A queste persone dedico la prima parte del post bruxellese.
Così, pur nella certezza che la mia memoria le conserverà come tutte le cose più preziose, sento il bisogno di vedere queste sensazioni tradotte in scrittura. Per condividere quello che è stato solo mio, ma anche per lasciare una piccola eredità di esperienza della città a vantaggio di coloro che restano e di quelli che vi arriveranno.
Innanzitutto grazie a chi ha condiviso con me questo pezzetto di vita.
Non dimenticherò le cene per sperimentare posti nuovi, le ricerche dei concerti su Agenda.be, le lunghe chiacchierate, il senso di intimità arrivato così facilmente, l'abbraccio commosso di martedì pomeriggio, la certezza di aver aggiunto un'altra tesserina al puzzle della propria vita.
Non dimenticherò i caffè presi insieme a casa il sabato mattina, la serata al "barco" a ballare la salsa, le confidenze e i racconti, i trasporti di tutto quello che non stava in valigia, la telefonata di saluto alle cinque del mattino.
Non dimenticherò le colazioni della domenica al Sablon, le passeggiate in Rue du Midi esplorando i numerosi second hand bookstores, i giri al mercato delle pulci di Les Marolles, i pranzi con gli altri colleghi durante i quali parliamo solo tra di noi, gli umori altalenanti, quell' "I'll miss you" sulla porta dell'ascensore in chiusura.
Non dimenticherò la sorpresa e la bellezza di scoprire che, nonostante le differenze linguistiche e culturali, i momenti difficili, la brevità e finitezza del tempo a disposizione, l'amicizia e la sintonia arrivano inaspettate e sempre intense.
Parte del merito è di questa città strana, in apparenza ostile e non certo attraente, ma ricca di quella ricchezza speciale che solo le cose piccole e invisibili possono dare. Ma... di questo vi parlerò nel prossimo post, offrendovi la mia personale guida alla città, alle cose che mi mancheranno e che non potete assolutamente perdere.
lunedì 18 ottobre 2010
Memorie di Adriano / Marguerite Yourcenar
Memorie di Adriano. Seguite da Taccuini di appunti / Marguerite Yourcenar. Torino: Einaudi, 2005.
Non posso negare di provare un certo imbarazzo nell'accingermi a scrivere una nota su Memorie di Adriano e non me ne vogliate se non ne sarò all'altezza. Durante la lettura - e tanto più al termine di essa - non ho potuto fare a meno di associare a questo romanzo l'aggettivo "imponente".
Imponente è il personaggio storico, l'imperatore Adriano; imponente la sua rappresentazione umana nella ricostruzione letteraria; imponente il periodo storico e la civiltà protagonisti del romanzo; imponente soprattutto la scrittura della Yourcenar che sembra calarsi perfettamente, da un punto di vista stilistico, nell'epoca e nel punto di vista dell'imperatore letterato.
L'idea di strutturare il romanzo in forma di lunga lettera indirizzata a Marc'Aurelio (il giovane che Adriano farà adottare da Antonino, suo successore, per farne il futuro erede dell'impero) è assolutamente perfetta, tanto più che questa lettera si configura come una sorta di bilancio dell'esistenza e di memoria di vita da lasciare a colui che Adriano considera il reale continuatore della sua opera.
Non proporrò citazioni di questo romanzo per due motivi fondamentali: innanzitutto, ce ne sarebbero troppe e probabilmente molte di esse risulterebbero abusate (visto che si tratta di uno dei libri tra i più citati); in secondo luogo, in molti casi non sono le singole frasi ad essere realmente significative, quanto l'insieme della riflessione, all'interno della quale le frasi si colorano del valore aggiunto del contesto.
Mi riferisco, in particolare, alle riflessioni sulle leggi e sulla loro necessità ma anche tendenziale inadeguatezza rispetto all'evolversi imprevedibile della società, a quelle sulle religioni, le loro radici profondamente umane e la loro incidenza sugli equilibri sociali, a quelle sulle guerre come necessità umana di rottura degli equilibri, a quelle sulle lingue e sulla loro diversa capacità di raccontare aspetti diversi del reale e dell'umano, a quelle sul dolore, la morte, la malattia, l'amore, la bellezza, l'orgoglio, la rabbia e la loro incidenza sul senso dell'esistenza umana.
Durante la lettura non si può fare a meno di credere all'illusione che tutto quanto è scritto in quelle pagine sia realmente passato per la testa dell'imperatore. E così, di volta in volta, ci si sente sudditi di quest'uomo che suscita, al tempo stesso, ammirazione, compassione e deprecazione di un orgoglio, un'ambizione e un egocentrismo smisurati (ma in fondo commisurati alla sua statura politica e umana), ma ci si sente anche imperatori, nel partecipare dei successi, dei dubbi, delle paure e degli atti di lungimiranza e coraggio dell'uomo e dell'imperatore.
Io sono stata letteralmente catturata nel mondo di Adriano e non ho potuto fare a meno di versare qualche lacrimuccia dopo aver letto le ultime righe, sia per la tristezza di veder morire un uomo di tale complessa bellezza, sia per il dispiacere di aver terminato la lettura di un libro che si vorrebbe portare con sé più a lungo.
Curiosando su Internet, vedo che di fronte a Memorie di Adriano il mondo dei lettori è letteralmente spaccato a metà tra coloro che lo hanno amato alla follia e coloro che lo hanno abbandonato anzitempo o ne hanno detestato lo stile o il protagonista. Inutile dire che io appartengo al primo di questi due gruppi. Inutile dire che questa spaccatura, a mio parere, è propria dei capolavori, che non possono lasciare indifferenti e impongono una presa di posizione, uno schieramento, una vera e propria scelta di campo, di fronte alla loro ingombrante presenza.
È per questo che io sto con Adriano ;-), con la sua forza e la sua fragilità (che sono quelle di ogni essere umano, ma al contempo uniche e per questo affascinanti), con il suo eloquio antico, ma anche profondamente intriso di modernità.
Leggo nei Taccuini di appunti che questo è stato per la Yourcenar il romanzo di una vita, forse il romanzo della vita. A volte penso che certi scrittori - e più in generale certi esseri umani - nascano per compiere una missione, per lasciare un'eredità, per adempiere un destino.
Ebbene, secondo me, Marguerite Yourcenar è nata per regalarci le Memorie di Adriano.
Voto: 5/5
P.S. Qui a Bruxelles c'è un parco intitolato a Marguerite Yourcenar, nata in questa città... Non potevo scegliere momento migliore per leggere il suo capolavoro.
Non posso negare di provare un certo imbarazzo nell'accingermi a scrivere una nota su Memorie di Adriano e non me ne vogliate se non ne sarò all'altezza. Durante la lettura - e tanto più al termine di essa - non ho potuto fare a meno di associare a questo romanzo l'aggettivo "imponente".
Imponente è il personaggio storico, l'imperatore Adriano; imponente la sua rappresentazione umana nella ricostruzione letteraria; imponente il periodo storico e la civiltà protagonisti del romanzo; imponente soprattutto la scrittura della Yourcenar che sembra calarsi perfettamente, da un punto di vista stilistico, nell'epoca e nel punto di vista dell'imperatore letterato.
L'idea di strutturare il romanzo in forma di lunga lettera indirizzata a Marc'Aurelio (il giovane che Adriano farà adottare da Antonino, suo successore, per farne il futuro erede dell'impero) è assolutamente perfetta, tanto più che questa lettera si configura come una sorta di bilancio dell'esistenza e di memoria di vita da lasciare a colui che Adriano considera il reale continuatore della sua opera.
Non proporrò citazioni di questo romanzo per due motivi fondamentali: innanzitutto, ce ne sarebbero troppe e probabilmente molte di esse risulterebbero abusate (visto che si tratta di uno dei libri tra i più citati); in secondo luogo, in molti casi non sono le singole frasi ad essere realmente significative, quanto l'insieme della riflessione, all'interno della quale le frasi si colorano del valore aggiunto del contesto.
Mi riferisco, in particolare, alle riflessioni sulle leggi e sulla loro necessità ma anche tendenziale inadeguatezza rispetto all'evolversi imprevedibile della società, a quelle sulle religioni, le loro radici profondamente umane e la loro incidenza sugli equilibri sociali, a quelle sulle guerre come necessità umana di rottura degli equilibri, a quelle sulle lingue e sulla loro diversa capacità di raccontare aspetti diversi del reale e dell'umano, a quelle sul dolore, la morte, la malattia, l'amore, la bellezza, l'orgoglio, la rabbia e la loro incidenza sul senso dell'esistenza umana.
Durante la lettura non si può fare a meno di credere all'illusione che tutto quanto è scritto in quelle pagine sia realmente passato per la testa dell'imperatore. E così, di volta in volta, ci si sente sudditi di quest'uomo che suscita, al tempo stesso, ammirazione, compassione e deprecazione di un orgoglio, un'ambizione e un egocentrismo smisurati (ma in fondo commisurati alla sua statura politica e umana), ma ci si sente anche imperatori, nel partecipare dei successi, dei dubbi, delle paure e degli atti di lungimiranza e coraggio dell'uomo e dell'imperatore.
Io sono stata letteralmente catturata nel mondo di Adriano e non ho potuto fare a meno di versare qualche lacrimuccia dopo aver letto le ultime righe, sia per la tristezza di veder morire un uomo di tale complessa bellezza, sia per il dispiacere di aver terminato la lettura di un libro che si vorrebbe portare con sé più a lungo.
Curiosando su Internet, vedo che di fronte a Memorie di Adriano il mondo dei lettori è letteralmente spaccato a metà tra coloro che lo hanno amato alla follia e coloro che lo hanno abbandonato anzitempo o ne hanno detestato lo stile o il protagonista. Inutile dire che io appartengo al primo di questi due gruppi. Inutile dire che questa spaccatura, a mio parere, è propria dei capolavori, che non possono lasciare indifferenti e impongono una presa di posizione, uno schieramento, una vera e propria scelta di campo, di fronte alla loro ingombrante presenza.
È per questo che io sto con Adriano ;-), con la sua forza e la sua fragilità (che sono quelle di ogni essere umano, ma al contempo uniche e per questo affascinanti), con il suo eloquio antico, ma anche profondamente intriso di modernità.
Leggo nei Taccuini di appunti che questo è stato per la Yourcenar il romanzo di una vita, forse il romanzo della vita. A volte penso che certi scrittori - e più in generale certi esseri umani - nascano per compiere una missione, per lasciare un'eredità, per adempiere un destino.
Ebbene, secondo me, Marguerite Yourcenar è nata per regalarci le Memorie di Adriano.
Voto: 5/5
P.S. Qui a Bruxelles c'è un parco intitolato a Marguerite Yourcenar, nata in questa città... Non potevo scegliere momento migliore per leggere il suo capolavoro.