Ci sono delle cose che cominciano male e a quel punto l'operazione di recupero quasi sempre è difficile se non impossibile.
Potrei sintetizzare così la mia esperienza teatrale con Donna Rosita nubile, ovvero il linguaggio dei fiori di Garcia Lorca, attualmente in programmazione al Teatro Argentina a Roma per la regia di Lluís Pasqual.
La serata a teatro è iniziata con l'incontro con una "maschera" che non mi ha voluto lasciar entrare in platea (mezza vuota) con il mio casco da moto e mi ha costretto a posarlo al guardaroba (a pagamento). Posato il casco, ci riprovo e mi dice che lo spettacolo è iniziato (tipo da un secondo) e quindi non posso accedere alla platea. Mi tocca un palco, mentre le mie amiche si domandano che fine ho fatto...
Dunque, non un bel modo per cominciare la visione di uno spettacolo teatrale che subito si annuncia piuttosto impegnativo. La prima ora mi risulta particolarmente pesante. Allestimento scenografico classico, recitazione molto impostata, resa un po' grottesca, contestualizzazione ai minimi termini dal punto di vista storico-geografico, testo difficile da seguire, più che altro per quello che riguarda la comprensione dei ruoli e delle anime dei personaggi.
La storia in realtà è molto semplice: la giovane Rosita (Andrea Jonasson) è fidanzata con il cugino, che però deve partire per affari per le lontane Americhe, lasciandola in Spagna ad attenderne il ritorno e il compimento della promessa di matrimonio. In realtà, il giovane si sposerà con un'altra donna, ma l'ambiguità di lui, il silenzio delle persone che stanno intorno a Rosita (in particolare la zia) e l'atteggiamento di Rosita stessa, che sembra non voler sapere, la condanneranno a un'attesa di vent'anni e, infine, al disonore sociale e alla solitudine.
Le cose che non mi sono piaciute, fors'anche per ignoranza e limiti personali, oltre che per gusto, sono diverse: la non perfetta traduzione registica del testo teatrale che perde un po' di coerenza narrativa e di spessore per la difficoltà ad identificare le identità psicologiche dei personaggi; lo stile di recitazione un po' troppo artefatto (in particolare, l'accento della Jonasson, che in altre occasioni conferiva potenza alla recitazione, qui l'ho trovato un po' fastidioso); la sensazione di trovarsi di fronte a un testo e a una storia un po' datati, che certamente non dipende tanto dal testo in sé (visto che i sentimenti delle persone sono evidentemente senza tempo), ma forse dalla freddezza e dalla distanza del modo in cui il dramma di Rosita è messo in scena.
Dall'altro lato, diverse sono le cose che mi sono piaciute: il personaggio della governante (Giulia Lazzarini), che pur in maniera un po' macchiettistica è in fondo l'unica che trasmette un'umanità profonda e un ruolo affettivo preciso, ed usa un linguaggio più diretto e intellegibile; il monologo finale di Rosita, quello sì intenso e accorato, in cui la tensione e gli equilibri dell'ipocrisia borghese finalmente si sciolgono nella disperazione di una scelta che segna la vita; il dialogo tra la zia (Franca Nuti) e il signor Martin, personaggio un po' sbucato dal nulla, ma che suscita una certa qual "simpatia" nel senso etimologico del termine.
Mentre scrivo queste riflessioni capisco che ciò che probabilmente non riesco a comprendere sul piano culturale (e che mi rende questo testo lontano) è la rappresentazione di una società borghese, i cui principali tratti sono il contenimento domestico dei sentimenti, l'importanza delle forme e delle convenzioni sociali, l'accettabilità dell'apparire, la rigidezza delle strutture relazionali.
Forse per questo la governante è l'unica ad apparirmi reale e vicina, ma soltanto perché è la sola ad uscire dagli schemi e a potersi permettere di essere se stessa.
Certamente mi mancano numerosi elementi nel background culturale per dare un giudizio più pieno e motivato. Posso dire però che se l'intento di Lorca era quello di trasmettere un senso di malinconica asfissia, di rassegnata angoscia della costrizione, ebbene ci è riuscito appieno.
Voto: 2,5/5
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