venerdì 18 aprile 2025

La città proibita

Dopo lo straordinario successo di Lo chiamavano Jeeg robot che portava l’immaginario dei film dei supereroi nel contesto della periferia romana (e Freaks out, di cui però non posso dire nulla perché non l’ho visto), Gabriele Mainetti torna al cinema con un’altra sfida, quella di portare i film di genere cinesi sul kung fu nel contesto multietnico di piazza Vittorio.

Ne La città proibita la protagonista Mei (Yaxi Liu) cresce in una Cina dove vige ancora la politica del figlio unico ed essendo la seconda nata è costretta a rimanere nascosta, lasciando la visibilità alla sorella Yun. Dopo che Yun, emigrata in Italia, scompare, Mei arriva anche lei a Roma alla sua ricerca e immediatamente si ritrova a fare i conti con i traffici della mafia cinese e le guerre di quest’ultime con la mafia italiana.

Il destino di Yun sembra essere legato a un locale boss cinese, Mr Wang (Chunyu Shanshan) e alle vicende di una trattoria italiana, sommersa tra ristoranti cinesi e fast food indiani, il cui proprietario Alfredo (Luca Zingaretti), sommerso di debiti, è scomparso a sua volta. In questa trattoria lavorano Marcello (Enrico Borello) e Lorena (Sabrina Ferilli), rispettivamente figlio e moglie di Alfredo, aiutati nella ricerca dello stesso da Annibale (Marco Giallini), boss locale incattivito da un contesto che non capisce più.

Non mi spingerò oltre nel racconto della trama, mentre mi soffermerò su questa nuova operazione di contaminazione tra generi, ambientazioni e linguaggi che Gabriele Mainetti ci propone con l’aiuto alla sceneggiatura di Stefano Bises e Davide Serino.

Nel film di Mainetti ci sono tutti gli elementi del film asiatico di arti marziali (e non a caso il film si è avvalso di uno stunt coordinator, Trayan Milenov-Troy, indispensabile in questo tipo di film), ma incastonati in un contesto che più romano non si può. Da questo punto di vista una delle sequenze iniziali - quella in cui Mei affronta il suo primo combattimento in un ristorante cinese e a un certo punto esce per strada andando quasi addosso a un motorino, il cui guidatore dice in romanaccio “Ma li morta**i tua” mentre l’auto subito dietro strombazza - ci fa capire immediatamente la cifra stilistica, giocata sui contrasti e le contaminazioni.

Così, dentro il film di Mainetti – oltre che il cinema wuxia – c’è posto per la commedia romantica, per il noir, per la commedia sociale, per il gusto tarantiniano, nonché per le citazioni di pellicole del passato che hanno avuto come protagonista la città di Roma (su tutti Vacanze romane, e il nome del protagonista rimanda a La dolce vita). Il tutto attraversando in lungo e in largo la città di Roma, in particolare il quartiere Esquilino e Tiburtino, ma anche il centro (nella scena alla Vacanze romane) e infine le estreme propaggini verso il mare, con gli occhi di Paolo Carnera, eccellente direttore della fotografia che ci offre una visione di volta in volta trasognata, fiabesca, cupa, luminosa della città, e ci fa immergere in luoghi che conosciamo benissimo e altri che sembrano appartenere a universi non romani e forse non italiani.

Diciamo che il punto di forza di questo film, ossia il mix di generi e linguaggi, è forse anche il suo principale limite, perché su alcuni fronti riesce perfettamente nell’intento e su altri appare un pochetto forzato. Probabilmente rispetto a Lo chiamavano Jeeg robot – che si era avvalso della collaborazione di Guaglianone e Menotti – ne La città proibita è la narrazione a risultare più debole e meno coesa, e in alcuni passaggi fa fatica a dare continuità e sviluppo coerente ai personaggi e all’azione. Giallini – pur bravissimo – appare ormai un po’ inflazionato, Ferilli fa sempre Ferilli, Enrico Borello è bravo e dolce come il suo personaggio richiede, ma è intorno a Yaxi Liu che tutto ruota, lasciando a lei l’incombenza anche di incarnare anime ed emozioni molto diverse e talvolta inspiegabili dentro un arco narrativo così compresso.

Un’operazione per me comunque riuscita, un cinema italiano che sa guardare oltre i suoi limiti e confini e dunque dal mio punto di vista non solo un film godibilissimo, ma anche una linea da continuare a perseguire per liberarci delle ripetitività della nostra cinematografia. Non so però se La città proibita riuscirà a diventare un piccolo cult com’è stato Lo chiamavano Jeeg robot che certo si avvantaggiava anche della novità e dell’effetto sorpresa, oltre che di una combinazione fortunata e riuscita di tanti fattori diversi.

Voto: 3,5/5



mercoledì 16 aprile 2025

Dreams = Drømmer

Con la visione di Dreams (Drømmer) sono al secondo capitolo della trilogia di Dag Johan Haugerud, avendo già visto lo scorso autunno Love grazie alla Festa del cinema di Roma. Il terzo capitolo, Sex, dovrebbe uscire prossimamente, il che vuol dire che la mia visione sarà inversa rispetto all’ordine previsto dal regista.

D’altra parte i tre capitoli della trilogia sono indipendenti l’uno dall’altro, storie autoconcluse, in cui al massimo ci sono alcuni accennati rimandi trasversali. Ciò che li tiene insieme è la riflessione sulle relazioni e le diverse sfaccettature che le caratterizzano.

In Dreams la protagonista è la diciassettenne Johanne (Ella Øverbye), la quale racconta, attraverso un testo scritto, il suo innamoramento per la sua nuova insegnante Johanna (Selome Emnetu), che diventa l’oggetto totalizzante dei suoi interessi, dei suoi pensieri e del suo amore, fino a spingerla a presentarsi davanti alla porta della sua casa. Oggetto della narrazione non è però solo questo amore adolescenziale, bensì anche la narrazione scritta dello stesso. È infatti proprio attraverso il testo scritto che Johanne condivide i suoi sentimenti e la storia che ha vissuto prima con la nonna Karin (Anne Marit Jacobsen), poetessa, poi con la madre Kristin (Ane Dahl Torp), le quali, dopo qualche turbamento iniziale, riconoscono la forza emotiva e letteraria di questo testo e cominciano a discutere tra loro e con Johanne della possibilità di pubblicarlo.

In questo capitolo della trilogia personalmente ho riconosciuto proprio in questo rapporto tra vita vissuta e racconto, e tanto più autoracconto, il nodo cruciale della narrazione. Che cos’è in fondo la scrittura se non il modo principale che l’essere umano ha per trasformare sogni ed emozioni in parole? E Haugerud lo sa molto bene, visto che prima ancora che regista è soprattutto scrittore, prestato al cinema dalla letteratura.

Del resto, i suoi film sono profondamente letterari, non solo per i richiami che contengono (qui la protagonista sembra rivivere nella vita reale quanto ha letto nel romanzo Esprit de famille), ma anche e soprattutto perché sono un flusso quasi ininterrotto di pensieri e conversazioni, parole che vanno a indagare ogni aspetto della vita vissuta, nella ricerca ininterrotta di un significato, di un’interpretazione delle cose.

Questa caratteristica, che è probabilmente il marchio di fabbrica del cinema di Haugerud, e che la Berlinale ha voluto premiare con l’Orso d’oro, dal mio punto di vista è anche il suo punto debole, o forse semplicemente è un aspetto che risuona poco con il mio modo di essere, almeno quello attuale. C’è probabilmente anche una forma di distanza culturale – che già avevo avvertito in Love – che rende ai miei occhi alcune conversazioni dei suoi film poco naturali, meccaniche, quasi grottesche (non mi stupisce in questo senso che in sala c’erano diverse persone che ridevano per scene del film che forse non erano pensate per far ridere). Mi sconcerta – ma forse le due cose non sono in contraddizione - il fatto che una società come quella norvegese che siamo abituati a considerare molto progressista e aperta – e lo è per molti versi - si presenti nei film di Haugerud al contempo rigida dal punto di vista emotivo, impegnata a razionalizzare qualunque cosa, anche ciò che non è possibile razionalizzare.

Come in Love, anche in Dreams – pur ruotando tutta la narrazione intorno alle relazioni tra i personaggi – Haugerud non manca di attribuire un ruolo anche alla città di Oslo, che Johanne attraversa per raggiungere la casa dell’insegnante, offrendo l’occasione di una riflessione di carattere anche sociale.

A questo punto vedrò Sex perché, ossessiva come sono, non posso non completare la trilogia, ma temo che il cinema di Haugerud non riuscirà a conquistarmi.

Voto: 3/5


lunedì 14 aprile 2025

Munch. Il grido interiore. Palazzo Bonaparte, 9 marzo 2025

Ed eccomi alla terza esperienza con Rome Guides, e dunque con il mitico Vincenzo Spina, dopo la mostra su Botero e quella sul Futurismo. Ormai so cosa mi aspetta con lui e dunque l’effetto sorpresa della prima volta è inevitabilmente attenuato, però Vincenzo – oltre ad essere preparatissimo e brillante – ha sempre in serbo qualche colpo da maestro, su cui ovviamente non mi permetto di fare spoiler!

Comunque, tornando alla mostra, Munch. Il grido interiore arriva a Roma dopo il successo a Milano, a Palazzo Reale, e dopo averla visitata personalmente confermo che si tratta di un appuntamento da non perdere.

Devo però sottolineare – cosa che anche Vincenzo ci aveva detto – che l’allestimento negli spazi piuttosto labirintici e con sale piccole di Palazzo Bonaparte, combinato con un’audioguida che costringe le persone a stare tempi lunghissimi davanti ai quadri fanno sì che la mostra sia molto affollata. Io ci sono andata alle 9,30 di domenica mattina e, dopo pochi minuti dall’ingresso, la situazione si presentava già piuttosto faticosa, soprattutto al primo piano, che è forse quello con la maggiore densità di opere.

Comunque grazie al percorso narrativo proposto da Vincenzo, riusciamo a cogliere il meglio della mostra dribblando alcuni punti in cui l’ingorgo è quasi inevitabile.

Vincenzo ci propone un percorso tra le opere di Munch strettamente legato alla sua biografia e al racconto che lo stesso artista ne ha fatto nel suo diario, una biografia che è stata caratterizzata da molti eventi emotivamente difficili e ha profondamente condizionato il suo modo di esprimersi artisticamente: la morte della madre e poi della sorella Sophie per la tubercolosi, poi la malattia psichica della sorella Laura, l’ossessione religiosa del padre, più avanti anche la morte del fratello Andreas, nonché le difficili esperienze di Edvard con le donne e la vicenda dello sparo con cui si concluse il suo rapporto con Tulla, la sua stessa malattia mentale e il periodo di internamento nell’ospedale psichiatrico.

Da un lato Edvard deve fare i conti con tutto questo dolore che è troppo grande per la sua psiche già fragile, dall’altro la sua sensibilità e la sua tendenza all’introspezione gli consentono di non concentrarsi solo su sé stesso e la propria condizione, ma di indagare sul significato – o sull’assenza di esso - della vita umana e di utilizzare la propria arte non solo come strumento di cura per sé stesso, ma anche come strumento a disposizione di tutti.

Nonostante la furia nazista che voleva distruggere le sue opere e nonostante l’approccio dello stesso artista che le sottoponeva alla cosiddetta “cura da cavallo”, cioè le lasciava alle intemperie e non voleva che fossero restaurate, per fortuna gran parte della sua produzione – fatta non solo di tele ma anche di opere grafiche (xilografie, litografie, acqueforti) – si è conservata fino a noi consentendoci di apprezzare la sua visionarietà e modernità, e anche di poter entrare in sintonia con la sua vita (sfortunata, ma anche con alcuni periodi di serenità) e con la vita di tutti coloro con cui il destino non è stato generoso.

L’uso dei colori, la ripetizione di alcuni soggetti e contesti, le scelte artistiche estreme ed originali rendono l’opera di Munch assolutamente riconoscibile e certamente indimenticabile.

Voto: 3,5/5

venerdì 11 aprile 2025

Baumgartner / Paul Auster

Baumgartner / Paul Auster; trad. di Cristiana Mennella. Torino: Einaudi, 2023.

Baumgartner è il primo romanzo di Paul Auster che leggo e l'occasione di farlo me la regala un'amica per il mio compleanno.

Un altro amico, appassionato di Auster, mi dice che a lui non è molto piaciuto ma che in fondo è un ottimo libro per conoscere lo scrittore americano perché in Baumgartner c'è proprio Auster che fa Auster. Io ovviamente non so bene cosa significhi ma mi immergo senza riserve nella lettura.

Posso dire che Baumgartner mi fa subito l'effetto di un libro della senilità, il che per me non è un difetto, visto che in questi ultimi anni sto riflettendo molto e per vari motivi sul non essere più giovani.

Il protagonista è un professore di una certa età che vive da solo dopo la morte della amatissima moglie Anna, una donna avventurosa e piena di vita che è stata travolta da un'onda alcuni anni prima.

A seguito di questo evento che ha tolto a Baumgartner per parecchio tempo la spinta vitale, il romanzo ci racconta da un lato l'elaborazione del lutto, dall'altro il suo ritorno alla vita e le riflessioni che l'accompagnano, anche attraverso lunghi flashback sul passato, stimolati - tra le altre cose - dalla lettura dei diari e degli scritti di Anna.

Quella di Baumgartner è una riflessione laica sull'esistenza, che non prevede seconde possibilità o vite future, ma che crede invece in una forma spirituale di connessione con chi si è amato e non c'è più attraverso il ricordo, che è l'unica cosa che tiene ancora in vita prima che anche la memoria di noi scompaia.

Baumgartner è stato definito un testamento spirituale dello scrittore (morto nel 2024), ma - come altri hanno fatto notare - nonostante la tristezza che inevitabilmente accompagna i pensieri della parte finale della vita, questo libro è anche pieno di una sottile ironia e di una forza vitale che conferisce senso all'esistenza per tutto il tempo che ci è dato di vivere.

La scrittura di Auster mi riporta inevitabilmente ad alcuni stilemi e forme tipiche del romanzo americano (a me ha fatto tornare alla mente alcune cose di Franzen), e questo stile narrativo non risuona perfettamente con il mio modo di sentire. Nel senso che, pur ritrovandomi in diversi passaggi ed essendone catturata, so già che il libro non si imprimerà - o almeno non consciamente - nella mia memoria emotiva e nel giro di poco tempo ne avrò un ricordo alquanto sfocato.

Voto: 3/5

mercoledì 9 aprile 2025

L’inferiorità mentale della donna / con Veronica Pivetti. Teatro Quirino, 8 marzo 2025

Quale spettacolo migliore da andare a vedere nella giornata internazionale della donna che L'inferiorità mentale della donna, portato in scena da Veronica Pivetti?

Lo spettacolo, per la regia di Gra & Mramor, è liberamente ispirato all'omonimo trattato di Paul Julius Moebius scritto nel 1900. A partire da questo testo Giovanna Gra propone un percorso attraverso il pensiero reazionario applicato al rapporto uomo/donna.

La narratrice e madrina di questo percorso è una Veronica Pivetti in versione steampunk primo novecentesca, affiancata da Anselmo Luisi, straordinaria spalla non solo sul piano musicale, ma anche su quello interpretativo.

L'analisi del testo di Moebius si alterna all'esecuzione, da parte della stessa Pivetti, di una serie di canzoni della scena internazionale e soprattutto italiana che hanno proprio la donna e il rapporto con l'uomo al centro del testo.

L'approccio è ironico: la narratrice, nell'aderire a questi testi, ne fa emergere la "naturale" assurdità per poi svelare e dichiarare la propria posizione nell'ultima parte dello spettacolo quando la Pivetti dismette gli abiti primo-novecenteschi.

Oltre al fatto che non ho trovato lo spettacolo né particolarmente originale né appassionante, mi sono chiesta per la sua intera durata a chi si rivolgesse, perché per chi queste cose le sa e già ne è convinto lo spettacolo non sposta una virgola, mentre temo che chi non la pensa così possa esserne solo indispettito.

In generale non amo molto queste scelte didascaliche che mi sembra servano solo a rassicurarci e a toglierci di dosso il peso della complessità e delle sfumature.

Del resto uno spettacolo simile si potrebbe scrivere anche per molte altre forme di razzismo, diverse da quello di genere; per fare qualche esempio i neri rispetto ai bianchi, ma anche altre categorie etniche, culturali, sociali o di altro tipo che nei secoli hanno subito varie forme di persecuzione e la cui inferiorità spesso la scienza ha contribuito ad accertare e dichiarare con metodi ovviamente discutibili.

Non voglio fare del facile benaltrismo, ma quello che voglio dire è che non sono sicura che questo tipo di cose aiutino la causa femminile e femminista, o almeno non sono sicura che spostino davvero qualcosa nell’opinione pubblica. O forse mi sbaglio, e alla fine tutto serve, non solo le vere guerre politiche sul fronte dei diritti.

Sta di fatto che a me lo spettacolo ha detto poco, e ne sono uscita alquanto delusa, sebbene devo dire che molte persone sedute intorno a me sembravano entusiaste (stessa situazione in cui mi sono trovata al termine della visione di C’è ancora domani).

Voto: 2,5/5

lunedì 7 aprile 2025

Mickey 17

Di Bong Joon-ho finora ho seguito soprattutto la produzione più strettamente coreana, da Mother a Memorie di un assassino fino all’acclamatissimo Parasite, che anche io ho amato molto.

Tramite questi film ho imparato a comprendere lo stile del regista sudcoreano e le sue peculiarità, e - nonostante alcuni aspetti che la distanza culturale mi rende non pienamente intellegibili - ho imparato ad apprezzarne poetica e narrazione.

Non ho visto invece Snowpiercer, film fantascientifico e post-apocalittico ispirato a un graphic novel francese, che, pur riprendendo alcuni elementi chiave della poetica di Bong Joon-ho, come ad esempio la lotta tra ricchi e poveri, era certamente molto più vicino a un immaginario e una narrazione occidentali, e prevalentemente occidentale era anche il cast.

Credo dunque che questo ultimo film, Mickey 17 (a sua volta una sceneggiatura non originale, tratta dal romanzo Mickey7 di Edward Ashton del 2022, e che - come mi fa notare mio nipote P. - ricorda molto il film del 2009 Moon con Sam Rockwell) si inserisca in una ideale linea di continuità proprio con quel film del 2013 (con cui condivide la produzione statunitense, che in questo caso sostituisce e non si affianca a quella sudcoreana).

Anche qui ci muoviamo nel territorio della fantascienza e in un ambito narrativo distopico.

Siamo in un futuro non proprio lontanissimo in cui la terra è diventata in parte invivibile e un ricchissimo politico che è rimasto escluso alle ultime elezioni, Kenneth Marshall (Mark Ruffalo), insieme alla moglie Ylfa (Toni Collette), guida una missione spaziale diretta verso un pianeta che vuole popolare di esseri umani.

Essendo debitore – insieme all’amico Timo - di un boss che gli ha giurato vendetta, Mickey Barnes (Robert Pattinson) si iscrive a questa missione come expendable (sacrificabile). In pratica, Mickey sarà utilizzato come cavia tutte le volte che ci sarà qualcosa da sperimentare di potenzialmente letale, e dopo la morte sarà ristampato da un’apposita macchina e nel suo cervello saranno riversato tutto il contenuto del Mickey morto.

Dall’inizio della missione Mickey è alla sua versione 17, ed è proprio lui che conosciamo all’inizio del film. È qui che, per una serie di coincidenze fortuite, il meccanismo si inceppa producendo una serie di conseguenze più o meno imprevedibili.

Personalmente, ho trovato compatta e di grande impatto la prima parte del film, quella che parte dal momento in cui Mickey 17 sta per morire e che racconta in un lungo flashback come si è arrivati fin lì.

Da questo momento in avanti, che poi è la parte centrale del film, ho avuto la sensazione che la narrazione si andasse sfilacciando e che il film procedesse per accumulazione, rischiando nel complesso di girare un po’ a vuoto.

Attenzione: Bong Joon-ho è un signor regista e questo è fuori discussione, però, man mano che si procede nella visione, l’oscillazione tra il puro divertissement (un film fantascientifico distopico senza particolari intenti) e il film impegnato politicamente e socialmente si fa sempre più incerta, e nel racconto si vanno accumulando elementi che spesso restano un po’ superficiali per risultare davvero incisivi.

Devo anche ammettere che il mix di generi che è tipico del registo sudcoreano – che nella stessa scena è in grado di virare dal drammatico al grottesco – in questo film risulta a mio avviso meno riuscito, o forse quello stile grottesco che in un film di impianto e ambientazione sudcoreana non appare stonato, ma perfettamente coerente con tutto il resto, una volta trasportato in un universo narrativo a noi più familiare facilmente si muta in ridicolo e perde parte della sua potenza emotiva.

Pattinson è bravo nel suo personaggio e nelle sue diverse varianti; Ruffalo e Collette mi pare che ormai ripropongano in film diversi lo stesso personaggio, risultando quindi meno incisivi col passare del tempo.

Detto ciò, il film risulta inquietante per quanto assomiglia alla realtà che stiamo vivendo e a quella che si prefigura nel nostro futuro. E nonostante il finale pieno di speranza, non si esce dal cinema a cuor leggero.

Voto: 3/5


mercoledì 2 aprile 2025

A real pain

L’opera seconda da regista di Jesse Eisenberg era stata presentata all’ultima festa del cinema di Roma, ma a suo tempo l’avevo persa. Nel frattempo non solo il film è arrivato in sala, ma Kieran Culkin ha vinto il premio Oscar come miglior attore non protagonista, quindi l’aspettativa verso il film è cresciuta ulteriormente.

A real pain (espressione che in inglese può avere un significato letterale, quello appunto di un dolore reale, ma può anche essere usata per fare riferimento a un rompiscatole) racconta di due cugini di origini ebraica, David (lo stesso Jesse Eisenberg) e Benji (Kieran Culkin), che, dopo la morte dell’amata nonna Dory, fanno insieme un viaggio in Polonia per andare in visita alla casa dove la donna è vissuta prima di emigrare in America per sfuggire alla persecuzione nazista. I due giovani, molti legati nell’infanzia pur essendo molto diversi, si sono un po’ persi di vista perché le loro vite hanno preso direzioni differenti. David è introverso, complessato e ossessivo, Benji è estroverso, empatico, diretto ed esuberante, ma anche decisamente rompiscatole. In Polonia i due condividono questo tour dell’Olocausto con altre persone che per qualche motivo sono particolarmente sensibili al tema o hanno vicende familiari che li collegano alla storia degli ebrei.

Il film di Eisenberg si sviluppa dunque su una doppia dimensione: quella personale che passa attraverso il rapporto tra David e Benji, e quella collettiva che mette loro, gli altri partecipanti al tour e noi spettatori di fronte non solo alla vicenda dell’Olocausto ma anche al modo in cui quella memoria viene gestita e vissuta oggi. In sostanza, Eisenberg si muove continuamente tra il piano del dolore collettivo e quella del dolore individuale, offrendo allo spettatore la libertà di coglierne i rimandi ma anche di leggerli secondo la propria sensibilità.

La maggior parte delle recensioni che ho letto mi sembra si concentrino sul contesto, ricordando che Eisenberg aveva già esplorato il rapporto con le sue origini ebraiche in uno spettacolo teatrale.

Certamente questa dimensione è importante, e non è un caso che tra i pochi momenti in cui la musica di Chopin - onnipresente in questo film - si ferma lasciando il posto al silenzio è durante la visita alle camere a gas, ai forni crematori e alle stanze con le migliaia di scarpe degli ebrei uccisi.

Però, per quanto mi riguarda – forse anche per effetto della sovraesposizione a questo tipo di narrazioni – l’aspetto che mi ha colpito di più e mi è entrato di più sottopelle è quello del rapporto tra i due protagonisti, e solo di riflesso quello con gli altri componenti del gruppo che partecipa al tour (che secondo me restano sullo sfondo).

Con un linguaggio e una cifra emotiva che oscillano tra scanzonato e leggero, ma anche sopra le righe, spiazzante, e infine in alcuni casi drammatico, Eisenberg ci racconta il rapporto tra un David che, pur essendo una persona ansiosa e con qualche difficoltà nel rapporto con gli altri, ha trovato un suo posto nel mondo (ha un lavoro, una moglie e un figlio che ama), e un Benji che, pur essendo naturalmente empatico, estroverso, capace di affascinare gli interlocutori, vive un tormento interiore, un senso di solitudine, di mancanza di affetto, di angoscia che lo hanno lasciato al palo.

Personalmente ho empatizzato moltissimo con David, in cui mi sono riconosciuta sia nel suo essere ansioso e nervoso sia nel suo essere razionale sia nel suo tentativo di essere assennato e rispettoso verso gli altri, e ho trovato abbastanza insopportabile Benji. A distanza di 24 ore dalla visione del film ho capito quanto questo rapporto abbia toccato alcune mie corde sensibili. Il rapporto e lo stato d’animo di David verso Benji mi ha ricordato il mio verso alcune persone a cui sono molto legata e a cui voglio bene, ma rispetto alle quali nel tempo ho avuto sentimenti e atteggiamenti contraddittori: io che vengo da un passato di persona fortemente introversa e socialmente inabile, ho sempre sentito – soprattutto durante l’adolescenza e la giovinezza - una specie di ammirazione e quasi di invidia, a volte di astio, nei confronti di persone in grado di trovarsi bene rapidamente e in qualunque compagnia, ammaliando gli interlocutori e facendosi accettare anche nei loro aspetti più insopportabili, mentre io per quanti sforzi facessi sembravo trasparente agli occhi degli altri. Ora che ho oltre 50 anni e mi guardo indietro, mi rendo conto di quanto sono stata fortunata a riuscire a fare i conti con la me stessa di allora e a costruirmi una vita professionale e affettiva che con tutti i suoi limiti mi corrisponde, mentre persone che mi sembravano molto meglio attrezzate di me si sono aggrovigliate nei loro buchi interiori e non si sono più liberate di tormenti e dolori apparentemente invisibili, ma assolutamente reali.

E così ho capito perché Benji mi suscitava una naturale repulsione, ma subito dopo ne ho anche sentito in profondità il dramma, racchiuso magnificamente nell’ultima scena del film.

Voto: 3,5/5