martedì 22 aprile 2025

Stabat mater / regia di Luca Guadagnino e Stella Savino; con Fabrizia Sacchi. Argot Studio, 22 marzo 2025

Conoscevo già lo Stabat mater di Antonio Tarantino grazie allo spettacolo interpretato da Maria Paiato che avevo visto ormai molti anni fa al Teatro Piccolo Eliseo (purtroppo nel frattempo chiuso). Non ricordavo i dettagli della storia, ma avevo vivida negli occhi l’immagine di questa donna meridionale, Maria Croce, che riversa addosso agli spettatori un flusso di parole, che sono comiche, grevi e tragiche al contempo.

Quando dunque ho visto nel cartellone dell’Argot Studio lo stesso testo messo in scena con la regia di Luca Guadagnino e Stella Savino non ho esitato a comprare i biglietti, curiosa di vederne un’altra versione.

In questo caso l’interprete è Fabrizia Sacchi, napoletana doc, che utilizza il proprio dialetto per interpretare la figura di Maria. Con F. ci siamo chieste se anche l’interpretazione della Paiato utilizzava il napoletano e ne abbiamo concluso che in quel caso la scelta non era strettamente un dialetto, ma una cadenza, forse – da quello che ci ricordiamo – la siciliana.

Che la protagonista del testo di Tarantino sia una donna meridionale emigrata a Torino e che qui sbarca il lunario come può è certo, ma probabilmente – cosa da verificare – il drammaturgo non impone una specifica provenienza geografica né una specifica scelta linguistica a livello di interpretazione, cosicché sta poi all’adattamento e all’interprete la scelta.

Fabrizia Sacchi e Stella Savino traducono interamente il testo di Tarantino in dialetto napoletano, ed è l’attrice a farsi carico di questo flusso di coscienza ai limiti dell’isterico, interrotto di tanto in tanto dalle “voci” degli altri personaggi (sempre interpretati dalla Sacchi) che ruotano intorno a Maria, a partire dal suo amante Giovanni, arrogante e vacuo, che è caratterizzato da una cadenza siciliana, per arrivare alle insegnanti del figlio, torinesi, fino all’agente di polizia cui Maria si rivolge per capire che fine ha fatto il figlio scomparso.

Il monologo di Maria – se apparentemente e inizialmente si presenta come il delirio di una donna ignorante e sboccata – a poco a poco si rivela come la manifestazione profondissima di un dolore devastante, l’espressione della tragedia di una madre che non sa che fine abbia fatto il proprio figlio e che ne prefigura una morte violenta.

Dentro una narrazione in cui confluiscono numerosi temi (il razzismo verso i meridionali, le disparità sociali, il degrado delle periferie, la povertà e l’assenza di opportunità) è indubbio che il cuore del racconto stia nel rapporto tra madre e figlio e nella tragedia annunciata di una perdita che è persino più devastante quando colpisce chi vive ai margini come Maria e non ha gli strumenti per affrontarla, ma non per questo soffre di meno.

I quattro atti in cui è diviso il monologo di Maria sono scanditi dallo spostamento di pochi oggetti di scena ad opera di Emma Fasano, che svolge quasi il ruolo di assistente di scena per l’attrice, e in questi momenti di pausa Fabrizia Sacchi riprende fiato da una recitazione intensissima che impegna voce e corpo al massimo grado e consuma tutte le energie, che solo il lungo applauso del pubblico probabilmente riesce a restituire.

È stato bello tornare ad assistere a questo spettacolo, e l’adattamento e la messa in scena del trio Guadagnino, Savino, Sacchi risultano decisamente riusciti.

Voto: 3,5/5

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