Approfitto del mio weekend bolognese e dell’iniziativa della Cineteca di proiettare gratuitamente per gli associati il film Grand Tour alla presenza del regista per cogliere l’opportunità sia di visitare finalmente il cinema Modernissimo – dove si tiene la proiezione – sia di vedere il film per il quale Miguel Gomes ha vinto il premio per la migliore regia a Cannes, che è il suo primo film che ha una distribuzione nel nostro paese.
Grand Tour è un film decisamente sui generis, che si sviluppa attorno a un plot minimale. Siamo nel 1918 in Birmania, dove Edward (Gonçalo Waddington), che è un funzionario dell’impero britannico, attende l’arrivo della fidanzata Molly (Crista Alfaiate) che non vede da sette anni e con cui dovrebbe sposarsi. Tuttavia, prima che Molly arrivi, Edward prende il primo piroscafo in partenza e comincia un lungo viaggio per l’estremo oriente, Thailandia, Vietnam, Filippine, Giappone, Cina, inseguito dalla fidanzata, arrivata a Rangoon poco dopo la sua partenza e decisa a raggiungerlo e a sposarlo.
Seguiremo in queste terre affascinanti e spesso in luoghi remoti prima Edward, poi Molly, e vivremo con loro esperienze, peripezie e incontri di vario tipo.
Questo viaggio si svolgerà in un’atmosfera che oscilla tra l’indagine sociologica e antropologica e il racconto onirico, avvalendosi di immagini in bianco e nero e a colori, che si alternano apparentemente senza una logica, e un voice over che nelle diverse regioni attraversate utilizzano la lingua locale, mentre invece i due protagonisti (britannici nella storia) parlano portoghese.
Le immagini che vediamo, pur essendo in molti casi atemporali, per cui creano l’illusione di riferirsi a un passato piuttosto remoto, non sono però sistematicamente depurate di ogni riferimento alla contemporaneità, cosicché talvolta il comparire di elementi come i telefoni cellulari o treni moderni crea un potente effetto di straniamento. Anche l’evolvere della narrazione procede in modo inusuale, e si ha quasi la sensazione che la sceneggiatura sia stata scritta dopo il montaggio, per adeguarsi ad esso, e non prima, come normalmente si fa.
A me è sembrato che Gomes, oltre a trarre ispirazione dal cinema americano, in particolare dalla screwball comedy, giochi con il meccanismo di sospensione dell’incredulità dello spettatore, prima trascinandolo nella storia e, subito dopo, costringendolo a prenderne le distanze.
Il regista – nella chiacchierata post film – ci racconta da dove è nata l’idea di fondo e le disavventure della lavorazione del film, iniziata nel gennaio del 2020, e terminata in maniera rocambolesca con una troupe nei luoghi del film collegata a distanza con la Spagna.
Difficile classificare questo film, e anche esprimere un giudizio: Gomes ci dice che è suo interesse lasciare allo spettatore la libertà di interpretare, di farsi un’idea, di costruire e ricostruire autonomamente i significati, senza preordinare sentimenti ed emozioni.
E così, tutto quello che c’è nel film - sentimenti, poesia, emozioni, osservazione, noia – troverà proporzioni diverse negli occhi di chi lo guarda.
Grand Tour non è un film che vuole dire cose specifiche o dare risposte: è una specie di esperienza cinematografica pura che invita a meravigliarsi ancora di fronte al potere di creazione e storytelling che è possibile con una telecamera in mano.
Per me un’esperienza sicuramente diversa da quelle a cui il cinema ci ha abituati negli ultimi decenni, e per questo valevole, anche a fronte di qualche lungaggine e momento di noia.
Voto: 3,5/5
venerdì 20 dicembre 2024
mercoledì 18 dicembre 2024
King Hannah. Monk, 5 dicembre 2024
Quando passa troppo tempo dall’ultima volta che sono andata ad ascoltare musica dal vivo ne sento così tanto la mancanza che comincio a farmi qualche giro sui siti in cui ci sono le programmazioni dei concerti a Roma e spero che ci sia qualcosa di interessante. E quasi sempre le migliori proposte arrivano dal Monk.
E dunque eccomi qua nel mio live club preferito di Roma per una serata in cui, oltre a un opening di Joe Gideon, cantautore che non conosco ma che ascolto gradevolmente, sono previsti ben due concerti, il primo dei King Hannah e il secondo dei The KVB. Io conosco poco o niente entrambi, ma da un qualche assaggio musicale, decido che andrò a sentire i King Hannah.
Alle 21.15 in punto salgono sul palco Craig Whittle e Hannah Merrick, i due componenti del gruppo, chitarra e voce entrambi (anche se è la Merrick la voce principale), accompagnati da un batterista e da un tastierista/bassista.
La Merrick è vestita con un bellissimo abito lungo rosso a balze, sopra delle Adidas, e quando comincia a cantare mi fa un effetto un po’ strano, per la sua aria tra il superiore e il distaccato. Sento qualcuno dietro di me che dice che Hannah è imperscrutabile e difficile da interpretare, e devo dire che lì per lì concordo.
Poi nel corso del live, man mano che Hannah si scioglie e comincia anche a interagire con il pubblico, capisco che probabilmente il suo è un modo di stare sul palco (che ci dice poco su di lei come persona), e che alla fine questo suo modo risulta estremamente efficace, fascinoso e quasi conturbante. A me – fatte le dovute e inevitabili differenze – ricorda un pochino, anche nel modo di cantare, la Patty Pravo dei tempi d’oro, soprattutto per certo modo di cantare parlato (cosiddetto spoken word). Un po’ mi ricorda anche Anna Calvi, che pure ama molto vestirsi di rosso sul palco, ma la Merrick mi sembra molto più minimalista sia nella performance che nel modo di cantare e suonare.
Durante il concerto i due ci suonano l’ultimo album, Big swimmer, praticamente per intero, ma non manca anche la cover di una canzone di Bruce Springsteen, State Trooper, e nel bis che segue alla loro uscita dal palco, una canzone “natalizia” da poco pubblicata, Blue Christmas.
E dunque eccomi qua nel mio live club preferito di Roma per una serata in cui, oltre a un opening di Joe Gideon, cantautore che non conosco ma che ascolto gradevolmente, sono previsti ben due concerti, il primo dei King Hannah e il secondo dei The KVB. Io conosco poco o niente entrambi, ma da un qualche assaggio musicale, decido che andrò a sentire i King Hannah.
Alle 21.15 in punto salgono sul palco Craig Whittle e Hannah Merrick, i due componenti del gruppo, chitarra e voce entrambi (anche se è la Merrick la voce principale), accompagnati da un batterista e da un tastierista/bassista.
La Merrick è vestita con un bellissimo abito lungo rosso a balze, sopra delle Adidas, e quando comincia a cantare mi fa un effetto un po’ strano, per la sua aria tra il superiore e il distaccato. Sento qualcuno dietro di me che dice che Hannah è imperscrutabile e difficile da interpretare, e devo dire che lì per lì concordo.
Poi nel corso del live, man mano che Hannah si scioglie e comincia anche a interagire con il pubblico, capisco che probabilmente il suo è un modo di stare sul palco (che ci dice poco su di lei come persona), e che alla fine questo suo modo risulta estremamente efficace, fascinoso e quasi conturbante. A me – fatte le dovute e inevitabili differenze – ricorda un pochino, anche nel modo di cantare, la Patty Pravo dei tempi d’oro, soprattutto per certo modo di cantare parlato (cosiddetto spoken word). Un po’ mi ricorda anche Anna Calvi, che pure ama molto vestirsi di rosso sul palco, ma la Merrick mi sembra molto più minimalista sia nella performance che nel modo di cantare e suonare.
Durante il concerto i due ci suonano l’ultimo album, Big swimmer, praticamente per intero, ma non manca anche la cover di una canzone di Bruce Springsteen, State Trooper, e nel bis che segue alla loro uscita dal palco, una canzone “natalizia” da poco pubblicata, Blue Christmas.
La scaletta completa ce la mette a disposizione Claudio Lancia nel suo live report per Ondarock.
Devo dire che – non conoscendoli quasi per niente – sono stata molto colpita dalla musica di questi due ragazzi di Liverpool che passa molto rapidamente da atmosfere più intimistiche e soft (come nella bellissima per me Suddenly, your hand) ad altre molto più post-punk e rock. Personalmente preferisco – per mia naturale propensione – le prime, e dunque apprezzo particolarmente le canzoni più notturne, ma è comunque un piacere ascoltare musica dal vivo interessante e ben fatta come in questo caso.
I King Hannah si sono conquistati un posto nel mio orizzonte musicale. E grazie, come sempre, al Monk.
Voto: 4/5
Devo dire che – non conoscendoli quasi per niente – sono stata molto colpita dalla musica di questi due ragazzi di Liverpool che passa molto rapidamente da atmosfere più intimistiche e soft (come nella bellissima per me Suddenly, your hand) ad altre molto più post-punk e rock. Personalmente preferisco – per mia naturale propensione – le prime, e dunque apprezzo particolarmente le canzoni più notturne, ma è comunque un piacere ascoltare musica dal vivo interessante e ben fatta come in questo caso.
I King Hannah si sono conquistati un posto nel mio orizzonte musicale. E grazie, come sempre, al Monk.
Voto: 4/5
lunedì 16 dicembre 2024
Il robot selvaggio
In un Cinema dei piccoli in cui io e S. siamo le uniche persone adulte non accompagnate da bambini vado finalmente a vedere il film della Dreamworks Il robot selvaggio.
Tratto dall’omonimo romanzo di Peter Brown, il film racconta la storia di Rozzum 7134, un robot che a causa di un tifone finisce sulle scogliere basaltiche di un’isola sperduta, dove non ci sono esseri umani, ma solo piante e animali.
Rozzum è programmata per servire e portare a termine dei compiti, cosicché cerca di applicare questo schema semplice che però si rivela del tutto inappropriato al contesto nel quale si trova. Gli animali la vedono come un mostro e ben presto Rozzum si troverà inseguita da un orso e durante la fuga distruggerà un nido di oche. Un unico uovo resta intero e da esso nasce un’oca che, per effetto dell’imprinting, considera Rozzum sua madre. Grazie all’aiuto di Fink, una volpe ingorda ma di buon cuore, Rozzum, detta “Roz”, capisce come svolgere questo compito, e impara a poco a poco l’empatia, andando al di là della pura esecuzione. Quando la sua casa di produzione manderà dei robot armati sull’isola per riportare Roz a casa, seminando morte e distruzione, Roz e tutta la comunità di animali dell’isola faranno fronte comune.
La storia de Il robot selvaggio è una fiaba ecologista, in cui tecnologia e natura si incontrano in maniera non necessariamente scontata e prevedibile: il robot ha qualcosa di freddo e meccanico nel suo modo di agire, ma è programmato per non procurare del male a nessuno (sebbene altri robot siano invece programmati per portare distruzione e morte); il mondo animale è pieno di vitalità e di forme di accudimento, ma anche di violenza e conflittualità, frutto della perenne lotta per la sopravvivenza. I veri assenti sono gli esseri umani, sebbene la loro presenza sia in qualche modo implicita, in quanto anello di congiunzione tra robot e natura.
Al di là della dose di melò e commozione inevitabile in un film per famiglie e bambini, tra le righe si legge un richiamo alla responsabilità degli esseri umani nella progettazione della tecnologia, affinché sia non solo a servizio dell’umanità, ma anche rispettosa della natura.
Devo dire che mi aspettavo un cartone più complesso e stratificato sul piano delle letture e dei significati; ciò detto, ammetto di essere sensibile al richiamo emotivo dei cartoni per bambini – su cui agisce molto meno il cinismo che invece tendo ad applicare ai film per adulti. In questo caso, poi, oltre a una sceneggiatura comunque intelligente, ho molto apprezzato le scelte stilistiche che rendono Il robot selvaggio un cartone quasi vintage per alcuni aspetti, con citazioni ad altri classici indimenticabili come Wall-e e Il castello errante di Howl.
Lamento forse troppa avventura e azione, mentre il personaggio di Roz avrebbe probabilmente meritato anche riflessione e contemplazione, e temo che l’esito sia che il film si collochi un po’ a metà strada, senza incontrare pienamente i desiderata dei bambini, ma anche senza soddisfare pienamente gli adulti.
Io comunque ho riso molto e mi sono anche commossa. E questo non è poco.
Voto: 3,5/5
Tratto dall’omonimo romanzo di Peter Brown, il film racconta la storia di Rozzum 7134, un robot che a causa di un tifone finisce sulle scogliere basaltiche di un’isola sperduta, dove non ci sono esseri umani, ma solo piante e animali.
Rozzum è programmata per servire e portare a termine dei compiti, cosicché cerca di applicare questo schema semplice che però si rivela del tutto inappropriato al contesto nel quale si trova. Gli animali la vedono come un mostro e ben presto Rozzum si troverà inseguita da un orso e durante la fuga distruggerà un nido di oche. Un unico uovo resta intero e da esso nasce un’oca che, per effetto dell’imprinting, considera Rozzum sua madre. Grazie all’aiuto di Fink, una volpe ingorda ma di buon cuore, Rozzum, detta “Roz”, capisce come svolgere questo compito, e impara a poco a poco l’empatia, andando al di là della pura esecuzione. Quando la sua casa di produzione manderà dei robot armati sull’isola per riportare Roz a casa, seminando morte e distruzione, Roz e tutta la comunità di animali dell’isola faranno fronte comune.
La storia de Il robot selvaggio è una fiaba ecologista, in cui tecnologia e natura si incontrano in maniera non necessariamente scontata e prevedibile: il robot ha qualcosa di freddo e meccanico nel suo modo di agire, ma è programmato per non procurare del male a nessuno (sebbene altri robot siano invece programmati per portare distruzione e morte); il mondo animale è pieno di vitalità e di forme di accudimento, ma anche di violenza e conflittualità, frutto della perenne lotta per la sopravvivenza. I veri assenti sono gli esseri umani, sebbene la loro presenza sia in qualche modo implicita, in quanto anello di congiunzione tra robot e natura.
Al di là della dose di melò e commozione inevitabile in un film per famiglie e bambini, tra le righe si legge un richiamo alla responsabilità degli esseri umani nella progettazione della tecnologia, affinché sia non solo a servizio dell’umanità, ma anche rispettosa della natura.
Devo dire che mi aspettavo un cartone più complesso e stratificato sul piano delle letture e dei significati; ciò detto, ammetto di essere sensibile al richiamo emotivo dei cartoni per bambini – su cui agisce molto meno il cinismo che invece tendo ad applicare ai film per adulti. In questo caso, poi, oltre a una sceneggiatura comunque intelligente, ho molto apprezzato le scelte stilistiche che rendono Il robot selvaggio un cartone quasi vintage per alcuni aspetti, con citazioni ad altri classici indimenticabili come Wall-e e Il castello errante di Howl.
Lamento forse troppa avventura e azione, mentre il personaggio di Roz avrebbe probabilmente meritato anche riflessione e contemplazione, e temo che l’esito sia che il film si collochi un po’ a metà strada, senza incontrare pienamente i desiderata dei bambini, ma anche senza soddisfare pienamente gli adulti.
Io comunque ho riso molto e mi sono anche commossa. E questo non è poco.
Voto: 3,5/5
venerdì 13 dicembre 2024
Laura Dean continua a lasciarmi / Mariko Tamaki e Rosemary Valero-O’Connell. Milano: Bao Publishing, 2020.
Mariko Tamaki, di cui già avevo letto il graphic novel E la chiamano estate, realizzato insieme alla cugina Jillian Tamaki, ci propone – questa volta appoggiandosi alle qualità di disegnatrice di Rosemary Valero-O’Connell - un altro romanzo di formazione la cui protagonista è Freddy (Frederica) Riley, una ragazza diciassettenne che ha una storia con la ragazza più interessante e ricercata della scuola, Laura Dean. Il fatto è che con Laura Dean il rapporto è tutto un lasciarsi e riprendersi, in cui in generale il bello e il cattivo tempo lo fa la stessa Laura, senza grande rispetto per i sentimenti di Freddy.
L’amore – si sa – è una cosa difficile e sfuggente, e soprattutto alle prime esperienze si fa fatica a mettere a fuoco i propri bisogni e a capire quali equilibri sono accettabili nel rapporto con l’altra persona. In più a 17 anni l’insicurezza e la tendenza a mettersi continuamente in discussione, mentre la propria personalità si sta ancora definendo, fanno il resto, creando rapporti decisamente poco equilibrati nei quali scambiamo la sofferenza e l’umiliazione per amore.
Freddy, che pure ha amici che le vogliono molto bene, in particolare la sua migliore amica Doodle, è talmente presa dalla necessità di inseguire Laura che non si accorge di quello che accade ai suoi amici e finisce per trascurarli più o meno consapevolmente.
Sarà solo di fronte alla situazione nella quale si troverà Doodle che Freddy capirà quanto di sbagliato e di immaturo c’è nel rapporto con Laura, e quanto il passaggio alla vita adulta ponga di fronte a delle scelte, talvolta anche faticose e dolorose.
Quello di Mariko Tamaki e Rosemary Valero-O’Connell è chiaramente un teen novel a fumetti, e in totale consonanza con il genere non punta alla profondità e allo spessore psicologico, bensì alla rappresentazione di un’età della vita, in un contesto che fino a qualche anno fa sarebbe stato impensabile raccontare in questi termini: la relazione tra due ragazze, un ambiente di amici più o meno queer, e un rapporto aperto con le famiglie da questo punto di vista. Il mondo è cambiato, ma i temi e i problemi della crescita sono gli stessi, così come le difficoltà di costruire rapporti sentimentali non tossici. Il contesto teen e queer è ben accompagnato dai bei disegni della Valero-O’Connell, tutti virati in una palette di grigio, rosa e rosa pesco, che valorizzano i tratti ancora infantili che attraversano la vita delle protagoniste, come per esempio è sottolineato dai giochi che Freddy e Doodle fanno con i loro pupazzi (ne comprano diversi e li disassemblano per poi riassemblarli in maniere originali, un po’ tenere e un po’ mostruose), pupazzi che talvolta “dialogano” con la protagonista.
Un graphic novel che – pur nella sua semplicità e senza dire cose particolarmente originali o nuove – segna comunque un cambiamento dei tempi e rappresenta in maniera molto fresca e partecipata il mondo degli adolescenti di oggi, più liberi eppure altrettanto insicuri di quanto fossimo noi alla loro età.
Voto: 3,5/5
L’amore – si sa – è una cosa difficile e sfuggente, e soprattutto alle prime esperienze si fa fatica a mettere a fuoco i propri bisogni e a capire quali equilibri sono accettabili nel rapporto con l’altra persona. In più a 17 anni l’insicurezza e la tendenza a mettersi continuamente in discussione, mentre la propria personalità si sta ancora definendo, fanno il resto, creando rapporti decisamente poco equilibrati nei quali scambiamo la sofferenza e l’umiliazione per amore.
Freddy, che pure ha amici che le vogliono molto bene, in particolare la sua migliore amica Doodle, è talmente presa dalla necessità di inseguire Laura che non si accorge di quello che accade ai suoi amici e finisce per trascurarli più o meno consapevolmente.
Sarà solo di fronte alla situazione nella quale si troverà Doodle che Freddy capirà quanto di sbagliato e di immaturo c’è nel rapporto con Laura, e quanto il passaggio alla vita adulta ponga di fronte a delle scelte, talvolta anche faticose e dolorose.
Quello di Mariko Tamaki e Rosemary Valero-O’Connell è chiaramente un teen novel a fumetti, e in totale consonanza con il genere non punta alla profondità e allo spessore psicologico, bensì alla rappresentazione di un’età della vita, in un contesto che fino a qualche anno fa sarebbe stato impensabile raccontare in questi termini: la relazione tra due ragazze, un ambiente di amici più o meno queer, e un rapporto aperto con le famiglie da questo punto di vista. Il mondo è cambiato, ma i temi e i problemi della crescita sono gli stessi, così come le difficoltà di costruire rapporti sentimentali non tossici. Il contesto teen e queer è ben accompagnato dai bei disegni della Valero-O’Connell, tutti virati in una palette di grigio, rosa e rosa pesco, che valorizzano i tratti ancora infantili che attraversano la vita delle protagoniste, come per esempio è sottolineato dai giochi che Freddy e Doodle fanno con i loro pupazzi (ne comprano diversi e li disassemblano per poi riassemblarli in maniere originali, un po’ tenere e un po’ mostruose), pupazzi che talvolta “dialogano” con la protagonista.
Un graphic novel che – pur nella sua semplicità e senza dire cose particolarmente originali o nuove – segna comunque un cambiamento dei tempi e rappresenta in maniera molto fresca e partecipata il mondo degli adolescenti di oggi, più liberi eppure altrettanto insicuri di quanto fossimo noi alla loro età.
Voto: 3,5/5
mercoledì 11 dicembre 2024
Il giardino dei ciliegi / regia di Leonardo Lidi. Teatro Vascello, 3 dicembre 2024
Inserisco al volo questo spettacolo nella mia programmazione teatrale dell’autunno perché mi arrivano voci molto positive in merito. E così, dopo una lunghissima giornata di lavoro, eccomi al Teatro Vascello a vedere Il giardino dei ciliegi, il terzo lavoro – dopo Il gabbiano e Lo zio Vanja - della trilogia dedicata alle opere di Anton Čechov da parte del regista Leonardo Lidi.
De Il giardino dei ciliegi non so praticamente nulla, né ho tempo di fare qualche piccolo ripasso prima dello spettacolo, così mi affido completamente al regista e agli attori di questa messa in scena.
Il palcoscenico è cosparso di sedie di plastica impilabili ed è delimitato da tende argentate che scendono dal soffitto, una specie di balera abbandonata dove cominciano a interagire alcuni personaggi le cui relazioni reciproche non sempre sono chiare. A un certo punto, sulle note di Ritornerai di Bruno Lauzi, il palco si affolla di molti altri personaggi, una famiglia e connessi vari, che tornano da non si sa dove dopo molto tempo.
Molta parte delle conversazioni che si svilupperanno di qui in poi ruoteranno intorno a un famigerato giardino dei ciliegi che fa parte della proprietà dove è ambientata la pièce. Questa proprietà gestita dal figlio del contadino che per tanto tempo ha servito i proprietari, figlio che è ormai un ricco imprenditore e al rientro della famiglia dichiara fin da subito la necessità/opportunità di vendere il giardino dei ciliegi e farci costruire villette.
In una scenografia che cambia principalmente grazie a un grande pannello parallelo al palcoscenico che in alcuni casi fa da soffitto e in altri fa da pavimento per gli attori – come nella scena a bordo piscina -, gli improbabili protagonisti di questa estate di ritorni e cambiamenti entrano ed escono dalla scena, interagendo in modi non sempre del tutto intellegibili, o producendosi in monologhi che a volte rasentano l’assurdo. Il più delle volte ne viene fuori un effetto straniante e farsesco che strappa a più riprese la risata (dietro di me ci sono dei ragazzi molto giovani che ridono moltissimo per tutto lo spettacolo).
In questa confusione creativa e a tratti destabilizzante, ma devo dire mai noiosa, appare chiaro però che al centro di tutto ci sono temi quali l’arrivismo, la privatizzazione, il parassitismo e molto altro. Ed è abbastanza evidente che quel giardino, che si vuole vendere perché ormai i suoi frutti non rendono molto in termini puramente economici, può rappresentare qualunque realtà culturale pubblica – il teatro in primis – che, pur oggetto di affezione e nostalgie, non è più coerente con l’orientamento al profitto e la pretesa sostenibilità di qualunque investimento.
Il senso di dismissione, decadenza, sgretolamento che attraversa – seppure con un approccio molto giocoso e apparentemente scombinato – questa messa in scena troverà il suo apice nel disallestimento finale di tutta la scenografia che mostrerà infine i personaggi, ciascuno isolato nelle sue piccole o grandi tristezze, in mezzo agli oggetti di scena e a tutta la strumentazione che le quinte normalmente nascondono.
Non sono in grado di dire che tipo di lettura sia quella di Lidi rispetto all’originale checoviano, né quanto ci sia di checoviano in questa reinterpretazione, però senza dubbio la regia di Lidi dimostra personalità nel fare arrivare allo spettatore un approccio ben preciso, sebbene sghembo.
Voto: 3,5/5
De Il giardino dei ciliegi non so praticamente nulla, né ho tempo di fare qualche piccolo ripasso prima dello spettacolo, così mi affido completamente al regista e agli attori di questa messa in scena.
Il palcoscenico è cosparso di sedie di plastica impilabili ed è delimitato da tende argentate che scendono dal soffitto, una specie di balera abbandonata dove cominciano a interagire alcuni personaggi le cui relazioni reciproche non sempre sono chiare. A un certo punto, sulle note di Ritornerai di Bruno Lauzi, il palco si affolla di molti altri personaggi, una famiglia e connessi vari, che tornano da non si sa dove dopo molto tempo.
Molta parte delle conversazioni che si svilupperanno di qui in poi ruoteranno intorno a un famigerato giardino dei ciliegi che fa parte della proprietà dove è ambientata la pièce. Questa proprietà gestita dal figlio del contadino che per tanto tempo ha servito i proprietari, figlio che è ormai un ricco imprenditore e al rientro della famiglia dichiara fin da subito la necessità/opportunità di vendere il giardino dei ciliegi e farci costruire villette.
In una scenografia che cambia principalmente grazie a un grande pannello parallelo al palcoscenico che in alcuni casi fa da soffitto e in altri fa da pavimento per gli attori – come nella scena a bordo piscina -, gli improbabili protagonisti di questa estate di ritorni e cambiamenti entrano ed escono dalla scena, interagendo in modi non sempre del tutto intellegibili, o producendosi in monologhi che a volte rasentano l’assurdo. Il più delle volte ne viene fuori un effetto straniante e farsesco che strappa a più riprese la risata (dietro di me ci sono dei ragazzi molto giovani che ridono moltissimo per tutto lo spettacolo).
In questa confusione creativa e a tratti destabilizzante, ma devo dire mai noiosa, appare chiaro però che al centro di tutto ci sono temi quali l’arrivismo, la privatizzazione, il parassitismo e molto altro. Ed è abbastanza evidente che quel giardino, che si vuole vendere perché ormai i suoi frutti non rendono molto in termini puramente economici, può rappresentare qualunque realtà culturale pubblica – il teatro in primis – che, pur oggetto di affezione e nostalgie, non è più coerente con l’orientamento al profitto e la pretesa sostenibilità di qualunque investimento.
Il senso di dismissione, decadenza, sgretolamento che attraversa – seppure con un approccio molto giocoso e apparentemente scombinato – questa messa in scena troverà il suo apice nel disallestimento finale di tutta la scenografia che mostrerà infine i personaggi, ciascuno isolato nelle sue piccole o grandi tristezze, in mezzo agli oggetti di scena e a tutta la strumentazione che le quinte normalmente nascondono.
Non sono in grado di dire che tipo di lettura sia quella di Lidi rispetto all’originale checoviano, né quanto ci sia di checoviano in questa reinterpretazione, però senza dubbio la regia di Lidi dimostra personalità nel fare arrivare allo spettatore un approccio ben preciso, sebbene sghembo.
Voto: 3,5/5
lunedì 9 dicembre 2024
Familia
Dopo averlo perso in sala, riesco a recuperare il film di Francesco Costabile grazie alla Casa del cinema che decide con questo film di celebrare la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
Familia è infatti una storia familiare di violenze fisiche e psicologiche ispirata alla vera vicenda di Luigi Celeste che nel 2008 sparò al padre e finì in carcere per nove anni.
Personalmente non conoscevo la storia da cui il film è tratto, e che è stata raccontata dallo stesso Luigi nel libro Non sarà sempre così, né avevo letto granché prima di andare al cinema, quindi ho potuto apprezzare fino in fondo la suspence dello sviluppo narrativo.
La storia è dunque quella della famiglia Celeste, la madre Licia (Barbara Ronchi), il padre Franco (Francesco Di Leva), e i due figli, Alessandro e Luigi. Fin da quando sono bambini, Alessandro e Luigi sono immersi in un contesto familiare tossico, in cui il padre Franco esercita continue forme di violenza fisica e non solo nei confronti della madre. A un certo punto, Licia trova la forza di denunciare la situazione e, come conseguenza, il padre viene allontanato di casa, ma i due bambini vengono sottratti alla madre per 4 anni. Li ritroviamo dopo 9 anni giovani adulti (interpretati rispettivamente da Marco Cicalese e Francesco Gheghi) nella nuova casa dove vivono insieme alla madre. In questo tempo, mentre Alessandro è rimasto un ragazzo pacifico e silenzioso, Luigi ha sviluppato ulteriormente la sua vena ribelle che lo ha portato ad avvicinarsi ai gruppi romani di estrema destra. Quando finisce in carcere per aver accoltellato un altro ragazzo durante una rissa, ricompare il padre Franco che, proprio attraverso questo suo figlio inquieto e pieno di rabbia, si riavvicina alla famiglia. Sarà per tutti il ritorno all’incubo già vissuto in passato fino al tragico epilogo.
Il film di Costabile è ben realizzato e costruito sia sul piano narrativo che stilistico per mantenere un livello di tensione molto alto per la sua intera durata. Colonna sonora, uso del ralenti e dello sfocato sono solo alcuni degli elementi che contribuiscono a trasmettere allo spettatore un senso di pericolo costante e di tragedia imminente; non manca però il senso di rabbia inevitabile di fronte a una situazione di questo tipo, e alle fragilità che questi uomini sfruttano per esercitare il loro dominio.
Parte importante della buona riuscita del film è l’interpretazione degli attori: Barbara Ronchi già la conosciamo (e forse questa non è nemmeno una delle sue migliori interpretazioni); ho trovato invece eccellenti le interpretazioni di Francesco Di Leva nel ruolo di questo marito e padre manipolatore e violento e soprattutto di Francesco Gheghi (già apprezzato ne Il filo invisibile), che ha veramente uno sguardo ipnotico, capace di trasmettere, a distanza di pochi minuti, tenerezza e rabbia.
Nel complesso un buon film che raggiunge il risultato che si ripromette. Forse a tratti c’è un uso eccessivo delle tecniche del ralenti e dello sfocato, che in alcuni casi mi pare appesantisca un po' troppo la narrazione.
Voto: 3,5/5
Familia è infatti una storia familiare di violenze fisiche e psicologiche ispirata alla vera vicenda di Luigi Celeste che nel 2008 sparò al padre e finì in carcere per nove anni.
Personalmente non conoscevo la storia da cui il film è tratto, e che è stata raccontata dallo stesso Luigi nel libro Non sarà sempre così, né avevo letto granché prima di andare al cinema, quindi ho potuto apprezzare fino in fondo la suspence dello sviluppo narrativo.
La storia è dunque quella della famiglia Celeste, la madre Licia (Barbara Ronchi), il padre Franco (Francesco Di Leva), e i due figli, Alessandro e Luigi. Fin da quando sono bambini, Alessandro e Luigi sono immersi in un contesto familiare tossico, in cui il padre Franco esercita continue forme di violenza fisica e non solo nei confronti della madre. A un certo punto, Licia trova la forza di denunciare la situazione e, come conseguenza, il padre viene allontanato di casa, ma i due bambini vengono sottratti alla madre per 4 anni. Li ritroviamo dopo 9 anni giovani adulti (interpretati rispettivamente da Marco Cicalese e Francesco Gheghi) nella nuova casa dove vivono insieme alla madre. In questo tempo, mentre Alessandro è rimasto un ragazzo pacifico e silenzioso, Luigi ha sviluppato ulteriormente la sua vena ribelle che lo ha portato ad avvicinarsi ai gruppi romani di estrema destra. Quando finisce in carcere per aver accoltellato un altro ragazzo durante una rissa, ricompare il padre Franco che, proprio attraverso questo suo figlio inquieto e pieno di rabbia, si riavvicina alla famiglia. Sarà per tutti il ritorno all’incubo già vissuto in passato fino al tragico epilogo.
Il film di Costabile è ben realizzato e costruito sia sul piano narrativo che stilistico per mantenere un livello di tensione molto alto per la sua intera durata. Colonna sonora, uso del ralenti e dello sfocato sono solo alcuni degli elementi che contribuiscono a trasmettere allo spettatore un senso di pericolo costante e di tragedia imminente; non manca però il senso di rabbia inevitabile di fronte a una situazione di questo tipo, e alle fragilità che questi uomini sfruttano per esercitare il loro dominio.
Parte importante della buona riuscita del film è l’interpretazione degli attori: Barbara Ronchi già la conosciamo (e forse questa non è nemmeno una delle sue migliori interpretazioni); ho trovato invece eccellenti le interpretazioni di Francesco Di Leva nel ruolo di questo marito e padre manipolatore e violento e soprattutto di Francesco Gheghi (già apprezzato ne Il filo invisibile), che ha veramente uno sguardo ipnotico, capace di trasmettere, a distanza di pochi minuti, tenerezza e rabbia.
Nel complesso un buon film che raggiunge il risultato che si ripromette. Forse a tratti c’è un uso eccessivo delle tecniche del ralenti e dello sfocato, che in alcuni casi mi pare appesantisca un po' troppo la narrazione.
Voto: 3,5/5
venerdì 6 dicembre 2024
Emilia Pérez
Grazie alla Lucky Red di Andrea Occhipinti ho la possibilità – insieme ad altre centinaia di persone in Italia – di vedere in anteprima, nelle sale Circuito Cinema, l’ultimo film di Jacques Audiard che ha vinto a Cannes il Premio della giuria, mentre il premio per la migliore attrice è andato in realtà alle quattro attrici che tengono la scena in questo film, Karla Sofía Gascón, Selena Gomez, Adriana Paz e Zoe Saldana.
In questa serata gratuita e speciale, prima della visione del film abbiamo anche la possibilità di seguire in streaming (in diretta dal cinema Quattro fontane) la presentazione a cura di Gabriele Niola in cui sono ospiti lo stesso Audiard e l’attrice Karla Sofía Gascón. Il siparietto tra i due – molto ben orchestrato da Niola – è divertente, anche perché Audiard parla solo in francese e la Gascón parla un buon italiano ma non parla francese. Il primo è sornione, la seconda è esuberante: i due convergono su un punto, a nessuno dei due piacciono i musical. Eppure, quello che stiamo per vedere è – anche – un musical.
In realtà, definire quest’ultimo film di Audiard è davvero difficile, e certamente qualunque definizione è destinata a stargli stretta. Così come è difficile raccontare la trama di questo film, che contiene un’idea iniziale che corrisponde al primo snodo narrativo (il narcotrafficante Manitas del Monte fa rapire Rita Moro Castro per farsi aiutare a cambiare sesso e inscenare la sua morte), ma poi si sviluppa in molteplici altre linee narrative principali e secondarie, che vedono protagoniste quattro donne: la Emilia Pérez (Karla Sofía Gascón) che si è lasciata alle spalle Manitas, l’avvocata Rita (Zoe Saldana), la moglie di Manitas Jessie (Selena Gomez), Epifanía (Adriana Paz) con cui Emilia inizia una storia.
Dentro una confezione che è quella di un musical, ma a tratti anche di un polar, di una telenovela, di un romance, e mille altre cose, Audiard costruisce un universo caleidoscopico e rutilante, in cui la narrazione pur mantenendo una sua coerenza di fondo, spiazza continuamente lo spettatore, prende percorsi laterali, va in territori inesplorati e inattesi. In mano a qualcun altro questa materia magmatica e incandescente sarebbe potuta esplodere, e invece nel film di Audiard tutto si tiene, non solo per la maestria del regista, ma perché agisce in sottofondo una straordinaria forza centripeta, quella delle donne che animano e conferiscono spessore a questa storia, anzi che fanno questa storia, e forse fanno LA storia.
Tutto il film vive nel cambiamento, da quello iniziale di Manitas che diventa Emilia, a tutti quelli successivi, che sono stilistici e narrativi: una vera e propria ode al cambiamento, che è il cuore pulsante dell’esistenza e al contempo è un auspicio, perché in questo film le cose cambiano grazie all’emancipazione e al riscatto delle donne.
E forse il cambiamento è l’essenza stessa del cinema di Audiard, diversissimo da film a film, quasi da rendere irriconoscibile la mano del regista nelle sue diverse incarnazioni cinematografiche, eppure straordinariamente coerente nel suo approccio libero e profondamente curioso al mondo e all’umanità.
Voto: 4/5
In questa serata gratuita e speciale, prima della visione del film abbiamo anche la possibilità di seguire in streaming (in diretta dal cinema Quattro fontane) la presentazione a cura di Gabriele Niola in cui sono ospiti lo stesso Audiard e l’attrice Karla Sofía Gascón. Il siparietto tra i due – molto ben orchestrato da Niola – è divertente, anche perché Audiard parla solo in francese e la Gascón parla un buon italiano ma non parla francese. Il primo è sornione, la seconda è esuberante: i due convergono su un punto, a nessuno dei due piacciono i musical. Eppure, quello che stiamo per vedere è – anche – un musical.
In realtà, definire quest’ultimo film di Audiard è davvero difficile, e certamente qualunque definizione è destinata a stargli stretta. Così come è difficile raccontare la trama di questo film, che contiene un’idea iniziale che corrisponde al primo snodo narrativo (il narcotrafficante Manitas del Monte fa rapire Rita Moro Castro per farsi aiutare a cambiare sesso e inscenare la sua morte), ma poi si sviluppa in molteplici altre linee narrative principali e secondarie, che vedono protagoniste quattro donne: la Emilia Pérez (Karla Sofía Gascón) che si è lasciata alle spalle Manitas, l’avvocata Rita (Zoe Saldana), la moglie di Manitas Jessie (Selena Gomez), Epifanía (Adriana Paz) con cui Emilia inizia una storia.
Dentro una confezione che è quella di un musical, ma a tratti anche di un polar, di una telenovela, di un romance, e mille altre cose, Audiard costruisce un universo caleidoscopico e rutilante, in cui la narrazione pur mantenendo una sua coerenza di fondo, spiazza continuamente lo spettatore, prende percorsi laterali, va in territori inesplorati e inattesi. In mano a qualcun altro questa materia magmatica e incandescente sarebbe potuta esplodere, e invece nel film di Audiard tutto si tiene, non solo per la maestria del regista, ma perché agisce in sottofondo una straordinaria forza centripeta, quella delle donne che animano e conferiscono spessore a questa storia, anzi che fanno questa storia, e forse fanno LA storia.
Tutto il film vive nel cambiamento, da quello iniziale di Manitas che diventa Emilia, a tutti quelli successivi, che sono stilistici e narrativi: una vera e propria ode al cambiamento, che è il cuore pulsante dell’esistenza e al contempo è un auspicio, perché in questo film le cose cambiano grazie all’emancipazione e al riscatto delle donne.
E forse il cambiamento è l’essenza stessa del cinema di Audiard, diversissimo da film a film, quasi da rendere irriconoscibile la mano del regista nelle sue diverse incarnazioni cinematografiche, eppure straordinariamente coerente nel suo approccio libero e profondamente curioso al mondo e all’umanità.
Voto: 4/5
mercoledì 4 dicembre 2024
Fernando Botero. La grande mostra. Palazzo Bonaparte, 24 novembre 2024
Per la prima volta, grazie alla proposta della mia amica I., sperimento la visita a una mostra temporanea con un’associazione che non conoscevo, Rome guides. I. me ne ha raccontato meraviglie e a questo punto ho grandi aspettative.
Quando arriviamo al punto di incontro del gruppo, poco distante dall’ingresso di Palazzo Bonaparte, la nostra guida, Vincenzo, è vestito con un costume gonfiabile ispirato alla ballerina di Botero. Non posso credere ai miei occhi, ma pare che per Vincenzo ogni mostra è l’occasione per una invenzione di questo tipo. E già sono conquistata.
Quando poi entriamo a vedere la mostra, la nostra guida non solo dimostra di essere preparatissimo e di aver curato tutto nei minimi dettagli, ma si conferma simpatico e narrativo in un modo gradevole e assolutamente efficace.
Inizia così questo viaggio alla scoperta di Fernando Botero, il famoso artista colombiano morto nel 2003 a 91 anni. Conosciamo dunque innanzitutto il percorso artistico di Botero, e poi a poco a poco scopriamo sia aspetti della sua vita personale e soprattutto le caratteristiche della sua arte: le tecniche, i soggetti, lo stile, e tutto quello che c’è dietro.
Tutto questo lo scopriamo attraversando le sale di Palazzo Bonaparte dove sono esposte centinaia di opere dell’artista: dipinti realizzati con tecniche diverse, disegni, sculture, raccolti sulla base delle tematiche sviluppate dall’artista, ma seguendone anche il percorso.
La cosa bella di questa visita guidata è che non ci limitiamo a guardare le opere, ma cerchiamo di entrare nello spirito di Botero, e così a poco a poco, dietro le sue figure obese e un po’ bambinesche, non vediamo più quella componente buffa che si coglie al primo impatto, bensì riconosciamo una specie di pacatezza malinconica, che finisce per tradursi in assenza di emozioni forti o estreme.
Nella sua arte, Botero sembra cercare di depurare il mondo dai sentimenti troppo forti che caratterizzano le nostre vite, riconducendo i suoi personaggi a una dimensione altra, in cui tutto è attenuato, in sordina, e questo vale per tutto, dalle scelte estetiche (per esempio i colori pastellati) ai contenuti.
Usciamo dalla mostra non solo con gli occhi completamente pieni delle forme generose dei personaggi di Botero, ma certamente con una conoscenza molto meno superficiale della sua arte e del modo in cui questo artista ha scelto di dialogare con la contemporaneità e l’umanità.
Vincenzo è davvero una super guida: competente, appassionato e appassionante.
Sono sicura che non sarà l’ultima mostra che visiterò con lui.
Voto: 3,5/5
Quando arriviamo al punto di incontro del gruppo, poco distante dall’ingresso di Palazzo Bonaparte, la nostra guida, Vincenzo, è vestito con un costume gonfiabile ispirato alla ballerina di Botero. Non posso credere ai miei occhi, ma pare che per Vincenzo ogni mostra è l’occasione per una invenzione di questo tipo. E già sono conquistata.
Quando poi entriamo a vedere la mostra, la nostra guida non solo dimostra di essere preparatissimo e di aver curato tutto nei minimi dettagli, ma si conferma simpatico e narrativo in un modo gradevole e assolutamente efficace.
Inizia così questo viaggio alla scoperta di Fernando Botero, il famoso artista colombiano morto nel 2003 a 91 anni. Conosciamo dunque innanzitutto il percorso artistico di Botero, e poi a poco a poco scopriamo sia aspetti della sua vita personale e soprattutto le caratteristiche della sua arte: le tecniche, i soggetti, lo stile, e tutto quello che c’è dietro.
Tutto questo lo scopriamo attraversando le sale di Palazzo Bonaparte dove sono esposte centinaia di opere dell’artista: dipinti realizzati con tecniche diverse, disegni, sculture, raccolti sulla base delle tematiche sviluppate dall’artista, ma seguendone anche il percorso.
La cosa bella di questa visita guidata è che non ci limitiamo a guardare le opere, ma cerchiamo di entrare nello spirito di Botero, e così a poco a poco, dietro le sue figure obese e un po’ bambinesche, non vediamo più quella componente buffa che si coglie al primo impatto, bensì riconosciamo una specie di pacatezza malinconica, che finisce per tradursi in assenza di emozioni forti o estreme.
Nella sua arte, Botero sembra cercare di depurare il mondo dai sentimenti troppo forti che caratterizzano le nostre vite, riconducendo i suoi personaggi a una dimensione altra, in cui tutto è attenuato, in sordina, e questo vale per tutto, dalle scelte estetiche (per esempio i colori pastellati) ai contenuti.
Usciamo dalla mostra non solo con gli occhi completamente pieni delle forme generose dei personaggi di Botero, ma certamente con una conoscenza molto meno superficiale della sua arte e del modo in cui questo artista ha scelto di dialogare con la contemporaneità e l’umanità.
Vincenzo è davvero una super guida: competente, appassionato e appassionante.
Sono sicura che non sarà l’ultima mostra che visiterò con lui.
Voto: 3,5/5
lunedì 2 dicembre 2024
Giurato numero 2
Con Clint Eastwood il mio rapporto è da sempre altalenante: a film che mi colpiscono e mi piacciono molto seguono film che mi lasciano completamente indifferente (e che per questo finiscono nel dimenticatoio), ovvero film che non riesco proprio ad apprezzare. Proprio per questo, però, di fronte all’uscita di un suo nuovo lavoro non riesco quasi mai a sottrarmi alla visione, perché so di potermi aspettare qualunque cosa.
La cosa più sorprendente è che Eastwood ha ancora punti di vista interessanti sul mondo e sulla contemporaneità e riesce ancora a tradurli in prodotti cinematografici di grande lucidità e qualità nonostante la veneranda età di 94 anni.
Con Giurato numero 2 mi pare che Eastwood realizzi – anche grazie alla solida sceneggiatura di Jonathan Abrams - uno dei suoi migliori film degli ultimi 10-15 anni, sebbene non possa fare un confronto puntuale in quanto non ho visto tutti quelli usciti.
Protagonista del film è Justin Kemp (Nicholas Hoult), un giovane uomo che è stato chiamato a far parte della giuria popolare in un caso di omicidio. Si tratta della morte di una donna, Kendall, trovata nel dirupo sotto un ponte dopo essere stata vista litigare con il suo fidanzato James dentro e fuori da un bar. L’avvocata dell’accusa, Faith Killebrew (Toni Collette), è convinta che James sia colpevole e che si tratti dell’ennesimo caso in cui un uomo non accetta di essere lasciato dalla sua donna e reagisce con violenza; si batte dunque come una leonessa durante il processo per dimostrare la colpevolezza, tanto più che dall’esito di questo processo potrebbe dipendere la sua nomina a procuratore distrettuale. Ben presto però Justin, ascoltando la ricostruzione del caso, si rende conto di essere coinvolto in esso, dal momento che la sera del litigio si trovava nello stesso bar di James e Kendall, e sulla via del ritorno a casa, a causa della pioggia e del fatto di essere sconvolto per una vicenda personale, aveva colpito qualcosa sulla strada, senza capire cosa e convincendosi che si fosse trattato di un cervo. Ben presto Justin realizza di essere lui, pur senza esserne consapevole, l’assassino di Kendall.
A questo punto Justin si trova di fronte a un’impasse: se confessa, visto il suo passato di alcolista, rischia moltissimo e non se lo può permettere perché sta diventando padre e sua moglie ha bisogno di lui, ma se non fa qualcosa per convincere gli altri giurati James è destinato a essere condannato ingiustamente.
Quello di Eastwood è un classico film processuale, ma il cuore della narrazione in questo caso non sta nell’interrogare lo spettatore su chi sia il colpevole, dal momento che la verità la conosciamo molto presto, ma nell’indagare sui meccanismi della giustizia e sulla loro imperfezione. Anzi, a dire la verità, a me pare che il film di Eastwood si voglia interrogare sui modi in cui ognuno di noi costruisce opinioni e giudizi sui fatti di cui non abbia esperienza diretta. In Giurato numero 2 non c’è alcuna rappresentazione manichea della società e nessuno dei protagonisti è un mostro: Justin ha un passato da alcolista ma è pulito da parecchio tempo e sta investendo tutte le sue energie nel costruire una famiglia e James ha sicuramente un passato di marginalità e violenza, ma se l’è lasciato alle spalle e lo rivendica fermamente. Tutti gli altri – gli avvocati, i testimoni e i membri della giuria - agiscono sostanzialmente in buona fede, al massimo gli si possono addebitare superficialità e/o pregiudizi, condizionati come sono dal vissuto personale, dai problemi individuali, dalle esperienze pregresse, dai convincimenti ideologici.
Se in Anatomia di una caduta Justine Triet pone gli spettatori di fronte all’impossibilità di conoscere la verità e li costringe a interrogarsi sui meccanismi personali che portano ciascuno a prendere posizioni o a costruirsi il proprio giudizio, in Giurato numero 2 Eastwood rappresenta tutto (o quasi) il ventaglio dei possibili approcci che le persone chiamate a prendere una posizione di fronte a una vicenda adottano e costringe gli spettatori a empatizzare con il protagonista senza la possibilità di collocarsi super partes.
Ne viene fuori il quadro di una società fortemente atomizzata, in cui gli individui fanno sempre più fatica o hanno sempre meno voglia di conciliare la necessità di preservare il proprio benessere con un superiore bene collettivo, una forma di egoismo e superficialità di massa, di cui siamo tutti vittime più che fautori. E tutto questo Eastwood ce lo racconta non in maniera giudicante e moraleggiante, ma come una sconfitta collettiva, senza però abbandonare del tutto la speranza.
Da vedere.
Voto: 4/5
La cosa più sorprendente è che Eastwood ha ancora punti di vista interessanti sul mondo e sulla contemporaneità e riesce ancora a tradurli in prodotti cinematografici di grande lucidità e qualità nonostante la veneranda età di 94 anni.
Con Giurato numero 2 mi pare che Eastwood realizzi – anche grazie alla solida sceneggiatura di Jonathan Abrams - uno dei suoi migliori film degli ultimi 10-15 anni, sebbene non possa fare un confronto puntuale in quanto non ho visto tutti quelli usciti.
Protagonista del film è Justin Kemp (Nicholas Hoult), un giovane uomo che è stato chiamato a far parte della giuria popolare in un caso di omicidio. Si tratta della morte di una donna, Kendall, trovata nel dirupo sotto un ponte dopo essere stata vista litigare con il suo fidanzato James dentro e fuori da un bar. L’avvocata dell’accusa, Faith Killebrew (Toni Collette), è convinta che James sia colpevole e che si tratti dell’ennesimo caso in cui un uomo non accetta di essere lasciato dalla sua donna e reagisce con violenza; si batte dunque come una leonessa durante il processo per dimostrare la colpevolezza, tanto più che dall’esito di questo processo potrebbe dipendere la sua nomina a procuratore distrettuale. Ben presto però Justin, ascoltando la ricostruzione del caso, si rende conto di essere coinvolto in esso, dal momento che la sera del litigio si trovava nello stesso bar di James e Kendall, e sulla via del ritorno a casa, a causa della pioggia e del fatto di essere sconvolto per una vicenda personale, aveva colpito qualcosa sulla strada, senza capire cosa e convincendosi che si fosse trattato di un cervo. Ben presto Justin realizza di essere lui, pur senza esserne consapevole, l’assassino di Kendall.
A questo punto Justin si trova di fronte a un’impasse: se confessa, visto il suo passato di alcolista, rischia moltissimo e non se lo può permettere perché sta diventando padre e sua moglie ha bisogno di lui, ma se non fa qualcosa per convincere gli altri giurati James è destinato a essere condannato ingiustamente.
Quello di Eastwood è un classico film processuale, ma il cuore della narrazione in questo caso non sta nell’interrogare lo spettatore su chi sia il colpevole, dal momento che la verità la conosciamo molto presto, ma nell’indagare sui meccanismi della giustizia e sulla loro imperfezione. Anzi, a dire la verità, a me pare che il film di Eastwood si voglia interrogare sui modi in cui ognuno di noi costruisce opinioni e giudizi sui fatti di cui non abbia esperienza diretta. In Giurato numero 2 non c’è alcuna rappresentazione manichea della società e nessuno dei protagonisti è un mostro: Justin ha un passato da alcolista ma è pulito da parecchio tempo e sta investendo tutte le sue energie nel costruire una famiglia e James ha sicuramente un passato di marginalità e violenza, ma se l’è lasciato alle spalle e lo rivendica fermamente. Tutti gli altri – gli avvocati, i testimoni e i membri della giuria - agiscono sostanzialmente in buona fede, al massimo gli si possono addebitare superficialità e/o pregiudizi, condizionati come sono dal vissuto personale, dai problemi individuali, dalle esperienze pregresse, dai convincimenti ideologici.
Se in Anatomia di una caduta Justine Triet pone gli spettatori di fronte all’impossibilità di conoscere la verità e li costringe a interrogarsi sui meccanismi personali che portano ciascuno a prendere posizioni o a costruirsi il proprio giudizio, in Giurato numero 2 Eastwood rappresenta tutto (o quasi) il ventaglio dei possibili approcci che le persone chiamate a prendere una posizione di fronte a una vicenda adottano e costringe gli spettatori a empatizzare con il protagonista senza la possibilità di collocarsi super partes.
Ne viene fuori il quadro di una società fortemente atomizzata, in cui gli individui fanno sempre più fatica o hanno sempre meno voglia di conciliare la necessità di preservare il proprio benessere con un superiore bene collettivo, una forma di egoismo e superficialità di massa, di cui siamo tutti vittime più che fautori. E tutto questo Eastwood ce lo racconta non in maniera giudicante e moraleggiante, ma come una sconfitta collettiva, senza però abbandonare del tutto la speranza.
Da vedere.
Voto: 4/5