Non ho ancora letto il libro di Romain Gary, che a suo tempo ha vinto in Francia il premio Goncourt, il più importante a livello nazionale. Tra l’altro la storia è molto interessante, perché – avendo Gary già vinto il premio precedentemente con Le radici del cielo - il romanzo uscì nel 1975 sotto il nome dello scrittore Emile Ajar, pseudonimo dello stesso Gary, consentendogli così di concorrere nuovamente, visto che il regolamento del premio prevede che lo stesso scrittore non lo possa vincere due volte. La verità si è scoperta solo dopo la morte di Gary, quando La vita davanti a sé era già diventato un vero e proprio classico, tradotto in tutte le lingue del mondo.
La storia è quella di un ragazzino di dieci anni, Mohamed, detto Momò, che – in quanto figlio di una prostituta – vive, insieme ad altri bambini con la medesima storia, nella casa di Madame Rosa, la quale dopo aver abbandonato la professione si è inventata in questo nuovo ruolo.
Quella di Momo è una storia di coming of age, ma declinata all’interno di un contesto molto particolare, nel quale il bambino è un emarginato alla ricerca costante dell’attenzione e dell’affetto altrui. Si tratta dunque di una storia di acquisizione progressiva di consapevolezza di sé, ma anche di una specie di storia d’amore sui generis.
Silvio Orlando decide di portare questa storia a teatro, accompagnato sul palco solo dal commento musicale dell’Ensemble dell’Orchestra Terra Madre (Simone Campa a chitarra battente e percussioni, Gianni Denitto a clarinetto e sax, Maurizio Pala fisarmonica, Cheikh Fall e Kaw Sissoko kora e djembe), che crea delle piccole pause nel flusso dei ricordi e delle parole.
Orlando si cala nei panni di questo bambino, e ne racconta la storia in prima persona, introducendo quando necessario anche le voci degli altri personaggi.
La scenografia rappresenta in forma semplificata la grande casa a Belleville, al cui quarto piano si trova l’appartamento di Madame Rosa, ma che ospita molte altre persone che vivono ai margini della città. Sul palco una poltrona e pochi altri elementi a rappresentare sia gli interni che gli esterni nei quali la storia si svolge.
Non posso dire che lo spettacolo non sia ben fatto e che Orlando non abbia fatto un buon lavoro di adattamento di questo testo alla drammaturgia teatrale, e – come sempre – anche le sue capacità interpretative non si discutono.
Devo però ammettere che lo spettacolo non mi ha conquistato. Personalmente di fronte a uno spettacolo di questo tipo non riesco a non pensare che sarebbe stato meglio leggere il romanzo e che tutto sommato la messa in scena non aggiunge niente, anzi forse toglie qualcosa alla scrittura. È chiaro che si tratta di mezzi di espressione differenti, e ognuno ha la sua specificità, e credo sia semplicistico e sicuramente non corrispondente alla realtà dire che a teatro funzionano sempre meglio i testi scritti per il teatro.
Però – che dire? – forse sono io che ho un cuore di pietra in questo momento, ma non sono riuscita a commuovermi, né a empatizzare fino in fondo, e l’interpretazione di Orlando mi ha comunque creato una distanza con il personaggio. Persino i tentativi di mescolare ironia e dramma – sicuramente caratteristica presente anche nel romanzo – per me non hanno perfettamente funzionato nello spettacolo.
Ma sicuramente si tratta di un giudizio soggettivo e parziale, visto che in giro leggo tutte recensioni piuttosto entusiastiche.
Come sempre il consiglio è di andare a vederlo, e farsi personalmente e direttamente una propria opinione.
Voto: 3/5
venerdì 29 dicembre 2023
martedì 26 dicembre 2023
Palazzina Laf
Esordio alla regia di Michele Riondino, attore tarantino, che non a caso sceglie proprio una storia legata alla sua città per spostarsi dietro la macchina da presa.
Siamo a Taranto alla fine degli anni Novanta. Caterino Lamanna (lo stesso Michele Riondino) è un operaio dell’ILVA, che oscilla tra il frustrato e il depresso, e che di fronte alla notizia dell’ultima morte di un operaio nel complesso siderurgico reagisce dando la colpa ai sindacati. Un giorno viene avvicinato da Giancarlo Basile (il come sempre bravissimo Elio Germano), uno dei manager dell’azienda, che gli offre una promozione in cambio di un suo ruolo di informatore rispetto alle attività del sindacato e in generale a quello che accade nella fabbrica. Caterino, che vuole sposarsi con la sua compagna Anna e lasciare la fatiscente casa in campagna dove vive, accetta, e anzi ci prende gusto, tanto che Basile gli dà l’opportunità di trasferirsi alla palazzina Laf.
Questo luogo – che agli occhi degli operai è quello dove ci sono tutti coloro che non lavorano e fanno la bella vita – è in realtà un reparto di confino, dove vengono mandati tutti coloro che non scendono a compromessi o che per un motivo o per l’altro risultano non graditi al management.
Quando si trasferisce alla palazzina Laf, Caterino vive questa possibilità come l’occasione di fare finalmente la vita da nababbo, ma una volta al suo interno si accorgerà dell’orrore che vi alberga. Dipendenti dell’azienda spesso ultraqualificati, oppure con disabilità fisiche, vengono tenuti come in carcere a non fare nulla, e di tanto in tanto gli viene presentata la possibilità di un reimpiego, quasi sempre in lavori che non potrebbero fare per competenze o condizioni fisiche. Ciascuno reagisce a modo suo a questa condizione di mobbing: chi si rinchiude nel silenzio, chi dà calci e pugni al muro, chi gioca a ping pong, chi prende il sole, chi passa tutto il giorno a schiacciare scatole: il livello di frustrazione e follia è dilagante, e si riflette sulla vita personale di questi lavoratori che quasi sempre non rivelano in famiglia la condizione nella quale si trovano, dovendo dunque gestire la frustrazione in totale solitudine affettiva.
La storia emergerà più avanti grazie a un’indagine della Procura della Repubblica, e sui titoli di coda sentiremo le voci di chi nella palazzina Laf ci ha vissuto e non vuole nemmeno ricordare quello che ha passato.
A Riondino interessa riportarla all’attenzione pubblica dal dimenticatoio nella quale è caduta, e in generale riaccendere i riflettori sul tema del lavoro, delle condizioni di lavoro, dei “padroni” e del modo spesso disumano con cui gestiscono aziende e fabbriche, e non a caso il film è dedicato al giornalista tarantino Alessandro Leogrande che – nella sua purtroppo breve vita – ha indagato molto su questi fenomeni.
Al centro c’è la figura di Caterino, chiaramente un ignorante e un traditore, che vende i suoi colleghi di lavoro per una migliore condizione di vita, ma a sua volta una vittima, un poveraccio che è manipolato da coloro che detengono il potere, i quali alimentano una vera e propria lotta tra poveri. Caterino non è un personaggio simpatico, né Riondino fa niente per rendercelo tale, ma non è nemmeno un personaggio monodimensionale, e la sceneggiatura, le musiche (di Teho Teardo, con molti elementi bandistici) e il montaggio teso (di Julien Panzarasa) sono perfettamente funzionali a portare alla luce la complessità di una realtà che evidentemente Riondino conosce molto bene, il rapporto tra l’ILVA e Taranto, un legame a doppio filo che – come tutti i legami “tossici”, in questo caso in senso letterale – non può che lasciare devastazione materiale, morale ed emotiva.
Bravo e coraggioso, Michele Riondino, per aver portato questo tema e la sua città natale al centro dell’attenzione (la canzone finale, La mia terra, è di Diodato, anche lui originario di Taranto, anche se nato ad Aosta e romano di adozione).
Film quello di Riondino non scontato, non univoco, non banale, sicuramente da vedere.
Voto: 3,5/5
Siamo a Taranto alla fine degli anni Novanta. Caterino Lamanna (lo stesso Michele Riondino) è un operaio dell’ILVA, che oscilla tra il frustrato e il depresso, e che di fronte alla notizia dell’ultima morte di un operaio nel complesso siderurgico reagisce dando la colpa ai sindacati. Un giorno viene avvicinato da Giancarlo Basile (il come sempre bravissimo Elio Germano), uno dei manager dell’azienda, che gli offre una promozione in cambio di un suo ruolo di informatore rispetto alle attività del sindacato e in generale a quello che accade nella fabbrica. Caterino, che vuole sposarsi con la sua compagna Anna e lasciare la fatiscente casa in campagna dove vive, accetta, e anzi ci prende gusto, tanto che Basile gli dà l’opportunità di trasferirsi alla palazzina Laf.
Questo luogo – che agli occhi degli operai è quello dove ci sono tutti coloro che non lavorano e fanno la bella vita – è in realtà un reparto di confino, dove vengono mandati tutti coloro che non scendono a compromessi o che per un motivo o per l’altro risultano non graditi al management.
Quando si trasferisce alla palazzina Laf, Caterino vive questa possibilità come l’occasione di fare finalmente la vita da nababbo, ma una volta al suo interno si accorgerà dell’orrore che vi alberga. Dipendenti dell’azienda spesso ultraqualificati, oppure con disabilità fisiche, vengono tenuti come in carcere a non fare nulla, e di tanto in tanto gli viene presentata la possibilità di un reimpiego, quasi sempre in lavori che non potrebbero fare per competenze o condizioni fisiche. Ciascuno reagisce a modo suo a questa condizione di mobbing: chi si rinchiude nel silenzio, chi dà calci e pugni al muro, chi gioca a ping pong, chi prende il sole, chi passa tutto il giorno a schiacciare scatole: il livello di frustrazione e follia è dilagante, e si riflette sulla vita personale di questi lavoratori che quasi sempre non rivelano in famiglia la condizione nella quale si trovano, dovendo dunque gestire la frustrazione in totale solitudine affettiva.
La storia emergerà più avanti grazie a un’indagine della Procura della Repubblica, e sui titoli di coda sentiremo le voci di chi nella palazzina Laf ci ha vissuto e non vuole nemmeno ricordare quello che ha passato.
A Riondino interessa riportarla all’attenzione pubblica dal dimenticatoio nella quale è caduta, e in generale riaccendere i riflettori sul tema del lavoro, delle condizioni di lavoro, dei “padroni” e del modo spesso disumano con cui gestiscono aziende e fabbriche, e non a caso il film è dedicato al giornalista tarantino Alessandro Leogrande che – nella sua purtroppo breve vita – ha indagato molto su questi fenomeni.
Al centro c’è la figura di Caterino, chiaramente un ignorante e un traditore, che vende i suoi colleghi di lavoro per una migliore condizione di vita, ma a sua volta una vittima, un poveraccio che è manipolato da coloro che detengono il potere, i quali alimentano una vera e propria lotta tra poveri. Caterino non è un personaggio simpatico, né Riondino fa niente per rendercelo tale, ma non è nemmeno un personaggio monodimensionale, e la sceneggiatura, le musiche (di Teho Teardo, con molti elementi bandistici) e il montaggio teso (di Julien Panzarasa) sono perfettamente funzionali a portare alla luce la complessità di una realtà che evidentemente Riondino conosce molto bene, il rapporto tra l’ILVA e Taranto, un legame a doppio filo che – come tutti i legami “tossici”, in questo caso in senso letterale – non può che lasciare devastazione materiale, morale ed emotiva.
Bravo e coraggioso, Michele Riondino, per aver portato questo tema e la sua città natale al centro dell’attenzione (la canzone finale, La mia terra, è di Diodato, anche lui originario di Taranto, anche se nato ad Aosta e romano di adozione).
Film quello di Riondino non scontato, non univoco, non banale, sicuramente da vedere.
Voto: 3,5/5
sabato 23 dicembre 2023
Ragazza, donna, altro / Bernardine Evaristo
Ragazza, donna, altro / Bernardine Evaristo; trad. di Martina Testa. Roma: Edizioni SUR, 2019.
E niente, ormai mi sono completamente buttata nella lettura di romanzi di scrittrici di origine africana e che hanno come protagonisti persone nere.
Non poteva mancare in questo mio innamoramento per queste voci letterarie Bernardine Evaristo. Il mio approccio con lei non poteva essere più entusiasmante.
Ragazza, donna, altro è un romanzo affascinante, che si legge con trasporto e interesse dalla prima all'ultima pagina.
Ogni capitolo è dedicato a una figura di donna, a cominciare da Amma, drammaturga nera e lesbica, che si appresta a portare in scena il suo ultimo lavoro teatrale al National Theatre che vede protagoniste delle donne nere guerriere.
Nei capitoli successivi facciamo poi la conoscenza con molte altre donne, Yazz, Carole, Bummi, Shirley, Hattie, Morgan, LaTisha, Dominique, Penelope, Grace. Alcune di loro sono imparentate (Yazz è la figlia di Amma, Bummi è la madre di Carole), altre sono collegate da rapporti di amicizia (Dominique è amica di Amma) o di altro genere (Shirley è stata l'insegnante di Carole e di LaTisha). Nell'after party e nell'epilogo finale anche le donne apparentemente non in relazione tra di loro vanno ad occupare un posto ben preciso in questo grande affresco di donne nere di varia provenienza e origine che la Evaristo ci descrive.
I singoli ritratti sono interessanti, divertenti, drammatici, ricchi di umanità, e tutti ci aiutano a comprendere meglio, a evitare i giudizi superficiali, a cogliere i punti di vista, a capire le differenze culturali e generazionali. Tutti mostrano la varietà, la complessità e la vitalità dell'universo femminile nero, in cui man mano che procediamo nella lettura non possiamo non identificarci, che non possiamo non apprezzare e amare visceralmente, anche lì dove si tratti di mondi per noi lontani, che però si rivelano molto più vicini di quello che immaginiamo.
A questo punto gli altri libri della Evaristo sono già nella mia lista dei desideri.
Voto: 4/5
E niente, ormai mi sono completamente buttata nella lettura di romanzi di scrittrici di origine africana e che hanno come protagonisti persone nere.
Non poteva mancare in questo mio innamoramento per queste voci letterarie Bernardine Evaristo. Il mio approccio con lei non poteva essere più entusiasmante.
Ragazza, donna, altro è un romanzo affascinante, che si legge con trasporto e interesse dalla prima all'ultima pagina.
Ogni capitolo è dedicato a una figura di donna, a cominciare da Amma, drammaturga nera e lesbica, che si appresta a portare in scena il suo ultimo lavoro teatrale al National Theatre che vede protagoniste delle donne nere guerriere.
Nei capitoli successivi facciamo poi la conoscenza con molte altre donne, Yazz, Carole, Bummi, Shirley, Hattie, Morgan, LaTisha, Dominique, Penelope, Grace. Alcune di loro sono imparentate (Yazz è la figlia di Amma, Bummi è la madre di Carole), altre sono collegate da rapporti di amicizia (Dominique è amica di Amma) o di altro genere (Shirley è stata l'insegnante di Carole e di LaTisha). Nell'after party e nell'epilogo finale anche le donne apparentemente non in relazione tra di loro vanno ad occupare un posto ben preciso in questo grande affresco di donne nere di varia provenienza e origine che la Evaristo ci descrive.
I singoli ritratti sono interessanti, divertenti, drammatici, ricchi di umanità, e tutti ci aiutano a comprendere meglio, a evitare i giudizi superficiali, a cogliere i punti di vista, a capire le differenze culturali e generazionali. Tutti mostrano la varietà, la complessità e la vitalità dell'universo femminile nero, in cui man mano che procediamo nella lettura non possiamo non identificarci, che non possiamo non apprezzare e amare visceralmente, anche lì dove si tratti di mondi per noi lontani, che però si rivelano molto più vicini di quello che immaginiamo.
A questo punto gli altri libri della Evaristo sono già nella mia lista dei desideri.
Voto: 4/5
mercoledì 20 dicembre 2023
Il Ministero della solitudine / lacasadargilla. Teatro Argentina, 25 novembre 2023
Torno al volo da Milano il sabato dopo una trasferta lavorativa per andare a vedere questo spettacolo - prenotato da tempo - al teatro Argentina. In realtà il biglietto lo avevo preso a suo tempo perché mi aveva incuriosito sia il titolo che la locandina dello spettacolo e perché un'amica mi aveva parlato di uno spettacolo precedente de lacasadargilla che aveva molto apprezzato. E, come sapete, io sono sempre alla ricerca di cose nuove e interessanti.
Come si legge nella brochure e su internet sul sito de lacasadargilla, nonché altrove, l'idea dello spettacolo nasce dalla suggestione legata alla creazione qualche anno fa in Gran Bretagna di un ministero così denominato.
Questa notizia diventa l'occasione per riflettere sulla contemporaneità e sulle molteplici amplificazioni di solitudini che la caratterizzano. Lo spettacolo ruota intorno a cinque personaggi: Primo, che di lavoro fa la moderazione dei social network eliminando contenuti non in linea con le policy e che condivide la vita con una Real Doll di nome Marta; F. è un apicoltore sempre a corto di soldi che si rivolge al ministero per avere un finanziamento più volte rifiutato; Alma è una ragazza ossessionata dalla fine delle cose e che vive prevalentemente confinata in casa; sua madre Teresa punta tutto sul romanzo che sta scrivendo e che si aspetta che un giorno venga pubblicato; Simone è la segretaria del Ministero della solitudine che gestisce tutte le pratiche e le relazioni che lo riguardano.
Il tutto si svolge in una scenografia al cui centro troneggia una struttura rotante a tre facce (un distributore di bevande ma anche di oggetti vari, un grande frigorifero in acciaio, una porta con il poster di un atollo), sul palco ci sono alcune sedie e tavoli, e sullo sfondo dominano delle luci al neon che conferiscono all'ambiente un'allure un po' retro, un po' anonima e un po' pop.
Le storie dei singoli personaggi (se vogliamo chiamarle storie) procedono parallelamente, e talvolta anche sovrapponendosi in una cacofonia che a tratti risulta difficile da seguire.
I personaggi hanno modi quasi robotizzati (come emerge fin dalla prima scena in cui attraversano la scena camminando più o meno velocemente e talvolta accennando dei movimenti di danza), e nel loro parlare rivelano sé stessi, ma soprattutto richiamano tutta una serie di questioni della contemporaneità (il disastro ambientale, la violenza, la sopraffazione, i social network e molto altro).
E fin qui potrebbe sembrare qualcosa di interessante. Peccato che il tutto faccia fatica a prendere senso e a decollare sul serio. La sensazione complessiva sul piano della drammaturgia è quella di un insieme di spunti presi qua e là, ma non sviluppati o poco sviluppati, e che a tratti risultano anche piuttosto banali o fintamente intellettualistici. Molti passaggi e molti elementi a me sono risultati poco comprensibili o quantomeno hanno fatto fatica a trovare un senso, e a un certo punto mi sono chiesta dove tutto questo andasse a parare. Ed effettivamente secondo me non andava a parare quasi da nessuna parte.
Alcuni spettatori vanno via durante lo spettacolo (cosa che raramente mi è capitato di vedere a teatro), al termine l'applauso è tiepido e quasi di circostanza, solo pochissime persone del pubblico urlano apprezzamenti, ma risultano poco credibili.
Non so se lo spettacolo è troppo raffinato e io non l'ho compreso, oppure è esattamente quello che mi è arrivato, ossia uno spettacolo un po' pretenzioso ma irrisolto. Poi vedo che ha anche vinto dei premi Ubu, ma - che dire - a me non è piaciuto.
Voto: 2/5
Come si legge nella brochure e su internet sul sito de lacasadargilla, nonché altrove, l'idea dello spettacolo nasce dalla suggestione legata alla creazione qualche anno fa in Gran Bretagna di un ministero così denominato.
Questa notizia diventa l'occasione per riflettere sulla contemporaneità e sulle molteplici amplificazioni di solitudini che la caratterizzano. Lo spettacolo ruota intorno a cinque personaggi: Primo, che di lavoro fa la moderazione dei social network eliminando contenuti non in linea con le policy e che condivide la vita con una Real Doll di nome Marta; F. è un apicoltore sempre a corto di soldi che si rivolge al ministero per avere un finanziamento più volte rifiutato; Alma è una ragazza ossessionata dalla fine delle cose e che vive prevalentemente confinata in casa; sua madre Teresa punta tutto sul romanzo che sta scrivendo e che si aspetta che un giorno venga pubblicato; Simone è la segretaria del Ministero della solitudine che gestisce tutte le pratiche e le relazioni che lo riguardano.
Il tutto si svolge in una scenografia al cui centro troneggia una struttura rotante a tre facce (un distributore di bevande ma anche di oggetti vari, un grande frigorifero in acciaio, una porta con il poster di un atollo), sul palco ci sono alcune sedie e tavoli, e sullo sfondo dominano delle luci al neon che conferiscono all'ambiente un'allure un po' retro, un po' anonima e un po' pop.
Le storie dei singoli personaggi (se vogliamo chiamarle storie) procedono parallelamente, e talvolta anche sovrapponendosi in una cacofonia che a tratti risulta difficile da seguire.
I personaggi hanno modi quasi robotizzati (come emerge fin dalla prima scena in cui attraversano la scena camminando più o meno velocemente e talvolta accennando dei movimenti di danza), e nel loro parlare rivelano sé stessi, ma soprattutto richiamano tutta una serie di questioni della contemporaneità (il disastro ambientale, la violenza, la sopraffazione, i social network e molto altro).
E fin qui potrebbe sembrare qualcosa di interessante. Peccato che il tutto faccia fatica a prendere senso e a decollare sul serio. La sensazione complessiva sul piano della drammaturgia è quella di un insieme di spunti presi qua e là, ma non sviluppati o poco sviluppati, e che a tratti risultano anche piuttosto banali o fintamente intellettualistici. Molti passaggi e molti elementi a me sono risultati poco comprensibili o quantomeno hanno fatto fatica a trovare un senso, e a un certo punto mi sono chiesta dove tutto questo andasse a parare. Ed effettivamente secondo me non andava a parare quasi da nessuna parte.
Alcuni spettatori vanno via durante lo spettacolo (cosa che raramente mi è capitato di vedere a teatro), al termine l'applauso è tiepido e quasi di circostanza, solo pochissime persone del pubblico urlano apprezzamenti, ma risultano poco credibili.
Non so se lo spettacolo è troppo raffinato e io non l'ho compreso, oppure è esattamente quello che mi è arrivato, ossia uno spettacolo un po' pretenzioso ma irrisolto. Poi vedo che ha anche vinto dei premi Ubu, ma - che dire - a me non è piaciuto.
Voto: 2/5
lunedì 18 dicembre 2023
El Greco. Milano, Palazzo Reale, 24 novembre 2023
In una breve puntata lavorativa a Milano, decido di fare un salto al Palazzo reale per vedere la mostra in corso dedicata a El Greco, il pittore Domínikos Theotokópoulos, nato a Creta nel 1541, poi vissuto per un periodo in Italia e infine trasferitosi in Spagna, a Toledo, dove realizza il numero maggiore delle sue opere e muore nel 1614.
Personalmente, trovo i dipinti di El Greco - pur essendo i soggetti quasi interamente a carattere religioso (del resto è difficile nella sua epoca e nei contesti nei quali opera immaginare qualcosa di diverso) - estremamente originali e diversi da tutto quello che conosciamo per quel momento storico. Le figure dipinte da El Greco hanno espressioni del volto e movimenti del corpo (oltre che colori dell'incarnato) che fanno pensare a un tratto quasi espressionista, creando una specie di disorientamento in chi guarda.
La mostra di Milano è interessante perché ci permette di comprendere meglio questa e altre caratteristiche della sua pittura, risalendo alle origini della formazione del pittore, ai modelli del suo perfezionamento in Italia e alla sua "poetica" consolidatasi in Spagna, tra l'altro nel periodo centrale della Controriforma.
El Greco nasce come pittore di icone, ma durante la permanenza in Italia - dove si trasferisce per perfezionare la tecnica e alla ricerca di committenti che purtroppo non trova - conosce alcuni maestri dell'epoca, tra cui Tiziano, Tintoretto e Michelangelo, e a loro si ispira per affinare la sua capacità di rappresentazione dei corpi, e non solo. Con il trasferimento in Spagna, dove finalmente El Greco trova dei committenti, il pittore - pur cercando di muoversi all'interno dei rigidi dettami di rappresentazione delle figure religiose previsti dalla Controriforma - sviluppa un linguaggio visivo decisamente originale e certamente molto personale, che non sempre sarà compreso dai suoi contemporanei.
La mostra milanese segue tutto il percorso del maestro e si conclude con una sala dedicata al Laocoonte, opera nella quale El Greco stravolge completamente l'iconografia del mito rappresentato nel famoso gruppo scultoreo, poi reinterpretato in maniera varia ma coerente da molti altri artisti.
Personalmente, della mostra ho apprezzato l'allestimento (con luci appropriate e un percorso chiaro), la scelta dei pezzi (compresi i pochi non di El Greco, che sono strettamente funzionali a comprendere il percorso artistico di quest'ultimo), i pannelli esplicativi completi e ricchi di spunti senza essere prolissi. Sono uscita dalla mostra sapendone certamente di più e avendo potuto apprezzare a pieno l'opera di questo pittore.
Voto: 4/5
Personalmente, trovo i dipinti di El Greco - pur essendo i soggetti quasi interamente a carattere religioso (del resto è difficile nella sua epoca e nei contesti nei quali opera immaginare qualcosa di diverso) - estremamente originali e diversi da tutto quello che conosciamo per quel momento storico. Le figure dipinte da El Greco hanno espressioni del volto e movimenti del corpo (oltre che colori dell'incarnato) che fanno pensare a un tratto quasi espressionista, creando una specie di disorientamento in chi guarda.
La mostra di Milano è interessante perché ci permette di comprendere meglio questa e altre caratteristiche della sua pittura, risalendo alle origini della formazione del pittore, ai modelli del suo perfezionamento in Italia e alla sua "poetica" consolidatasi in Spagna, tra l'altro nel periodo centrale della Controriforma.
El Greco nasce come pittore di icone, ma durante la permanenza in Italia - dove si trasferisce per perfezionare la tecnica e alla ricerca di committenti che purtroppo non trova - conosce alcuni maestri dell'epoca, tra cui Tiziano, Tintoretto e Michelangelo, e a loro si ispira per affinare la sua capacità di rappresentazione dei corpi, e non solo. Con il trasferimento in Spagna, dove finalmente El Greco trova dei committenti, il pittore - pur cercando di muoversi all'interno dei rigidi dettami di rappresentazione delle figure religiose previsti dalla Controriforma - sviluppa un linguaggio visivo decisamente originale e certamente molto personale, che non sempre sarà compreso dai suoi contemporanei.
La mostra milanese segue tutto il percorso del maestro e si conclude con una sala dedicata al Laocoonte, opera nella quale El Greco stravolge completamente l'iconografia del mito rappresentato nel famoso gruppo scultoreo, poi reinterpretato in maniera varia ma coerente da molti altri artisti.
Personalmente, della mostra ho apprezzato l'allestimento (con luci appropriate e un percorso chiaro), la scelta dei pezzi (compresi i pochi non di El Greco, che sono strettamente funzionali a comprendere il percorso artistico di quest'ultimo), i pannelli esplicativi completi e ricchi di spunti senza essere prolissi. Sono uscita dalla mostra sapendone certamente di più e avendo potuto apprezzare a pieno l'opera di questo pittore.
Voto: 4/5
venerdì 15 dicembre 2023
Okkervil River / Will Sheff (+ Claudia Buzzetti). Monk, 21 novembre 2023
Ed eccomi di nuovo al Monk, a distanza di meno di una settimana dal concerto di John Grant. Il mio stato d'animo è completamente diverso, perché, mentre di John Grant posso dire di essere una vera appassionata, gli Okkervil River mi risuonano solo perché molti anni fa avevo comprato un paio di CD, ma era davvero da tanto che non li ascoltavo e li avevo anche un po' persi di vista. Scopro infatti, solo in questa serata, che ormai Will Sheff non si presenta con il nome di Okkervil River, sebbene lui stesso confessi di non sapere più dove si situa il confine tra Okkervil River e Will Sheff.
Quando arrivo - direttamente dal lavoro - le porte della sala teatro del Monk sono già aperte e si sta già esibendo Claudia Buzzetti che fa l'opening. In realtà, scopro il suo nome solo a posteriori, ma mentre sono lì la ascolto con interesse crescente. La giovane musicista bergamasca ci propone una parte del suo repertorio che io identifico come appartenente al genere country e americana, e interpreta questo genere in maniera interessante. Scoprirò dopo - cercando notizie su di lei online - che i suoi interessi musicali spaziano dal jazz al folk, e che la Buzzetti ha una solidissima formazione musicale, che si vede e si sente tutta. L'opening è dunque già un bell'ascoltare.
Dopo un breve riallestimento del palco, arriva Will Sheff (fisicamente una via di mezzo tra John Lennon e Gesù) accompagnato da tre musicisti (chitarra elettrica, basso e batteria); lui suona la chitarra acustica, ma anche le tastiere e ovviamente canta.
In sala ci sono evidentemente molti appassionati degli Okkervil River: lo si capisce dal fatto che molti si sono posizionati davanti al palco molto tempo prima che il concerto inizi e, durante il concerto, cantano insieme a Sheff, dopo essere andati in visibilio per l'annuncio di questa o quella canzone.
Io personalmente non ricordo quasi nessuna canzone e devo dire che sono sorpresa anche dalle sonorità rock del gruppo, che ricordavo più intimista. In realtà, le due anime si alternano, quella più dirompente e ritmata, e quella più lo-fi e malinconica.
Alla fine devo dire che - come altre persone nel pubblico che, come me, sono al concerto più per curiosità che per conoscenza approfondita della musica di Will Sheff - mi godo la serata, apprezzo Sheff e i suoi musicisti e soprattutto faccio molte foto, non solo dei cantanti bensì anche del pubblico, visto che stasera sto davvero in vena.
Voto: 3,5/5
Quando arrivo - direttamente dal lavoro - le porte della sala teatro del Monk sono già aperte e si sta già esibendo Claudia Buzzetti che fa l'opening. In realtà, scopro il suo nome solo a posteriori, ma mentre sono lì la ascolto con interesse crescente. La giovane musicista bergamasca ci propone una parte del suo repertorio che io identifico come appartenente al genere country e americana, e interpreta questo genere in maniera interessante. Scoprirò dopo - cercando notizie su di lei online - che i suoi interessi musicali spaziano dal jazz al folk, e che la Buzzetti ha una solidissima formazione musicale, che si vede e si sente tutta. L'opening è dunque già un bell'ascoltare.
Dopo un breve riallestimento del palco, arriva Will Sheff (fisicamente una via di mezzo tra John Lennon e Gesù) accompagnato da tre musicisti (chitarra elettrica, basso e batteria); lui suona la chitarra acustica, ma anche le tastiere e ovviamente canta.
In sala ci sono evidentemente molti appassionati degli Okkervil River: lo si capisce dal fatto che molti si sono posizionati davanti al palco molto tempo prima che il concerto inizi e, durante il concerto, cantano insieme a Sheff, dopo essere andati in visibilio per l'annuncio di questa o quella canzone.
Io personalmente non ricordo quasi nessuna canzone e devo dire che sono sorpresa anche dalle sonorità rock del gruppo, che ricordavo più intimista. In realtà, le due anime si alternano, quella più dirompente e ritmata, e quella più lo-fi e malinconica.
Alla fine devo dire che - come altre persone nel pubblico che, come me, sono al concerto più per curiosità che per conoscenza approfondita della musica di Will Sheff - mi godo la serata, apprezzo Sheff e i suoi musicisti e soprattutto faccio molte foto, non solo dei cantanti bensì anche del pubblico, visto che stasera sto davvero in vena.
Voto: 3,5/5
mercoledì 13 dicembre 2023
Killers of the flower moon
E finalmente pure io riesco a recuperare l'ultimo film di Martin Scorsese che, a questo giro, ha messo davvero alla prova determinazione e pazienza persino per una cinefila come me (tre ore e venti è quasi un sequestro di persona).
La trama ormai la conoscono tutti: Killers of the flower moon racconta la storia degli Osage, nativi americani che, nella seconda metà dell'Ottocento, si spostarono in Oklahoma provenendo da altri stati americani. Acquistarono la terra dai Cherokee e la scelta cadde su un'area a quel tempo poco ambita e dunque anche relativamente poco costosa.
Quando alla fine dell'Ottocento nel territorio degli Osage fu scoperto il petrolio, i componenti della comunità divennero ricchi fino a raggiungere un reddito pro capite tra i più alti degli Stati Uniti: da quel momento gli Osage cambiarono completamente il loro stile di vita, potendosi permettere case, proprietà, automobili e governanti bianche.
L'inaspettata situazione mise in allarme la comunità bianca, che infatti assegnò agli Osage dei tutor per supervisionare la gestione della loro ricchezza, e soprattutto fece emergere gli appetiti di spietati affaristi, tra cui in particolare William Hale (il personaggio interpretato nel film da Robert De Niro) e suo nipote Ernest (il personaggio interpretato da Leonardo Di Caprio). Accadde così che, negli anni Venti, numerosi componenti della comunità Osage morirono in circostanze inspiegabili o sospette, e nonostante l'aumento del numero delle morti nessuna indagine seria venne condotta, anzi tutti coloro che tentarono di far emergere la verità vennero a loro volta ammazzati. Il piano era evidentemente quello di far sì che - attraverso matrimoni con le donne Osage o nel ruolo di tutor - gli americani bianchi potessero ereditare concessioni e ricchezze.
Questa è la storia raccontata da Scorsese che si concentra in particolare sulla figura di Ernest, il nipote di Bill Hale, il quale - tornato dalla guerra - viene spinto dallo zio a diventare uno degli esecutori di questo ingegnoso ed efferato piano, iniziando dal matrimonio con Mollie (Lily Gladstone), una delle numerose figlie di una famiglia Osage. In questa vicenda in cui Ernest sarà alla fine condannato all'ergastolo per il coinvolgimento diretto in numerosi omicidi, la sua figura è certamente quella più ambigua, in quanto oscilla tra quello che sembra un affetto sincero verso moglie e figli e una mancanza di scrupoli dettata da una avidità senza fine, il tutto accompagnato a una intelligenza non certo sopraffina e a una sostanziale sottomissione allo zio. La figura di Mollie, pur protagonista, rimane piuttosto silenziosa nonostante sia centrale nella svolta che porterà il Bureau of Investigation (FBI) a indagare sul caso degli Osage; Mollie sembra essere consapevole di tutto, ma non è chiaro perché continui in qualche modo ad assecondare Ernest.
In generale, nonostante l'intento di Scorsese sia certamente quello di portare allo scoperto l'enorme ingiustizia e la terribile azione che i bianchi hanno compiuto nei confronti di questa comunità, a monito delle numerose forme di razzismo e colonialismo che caratterizzano ancora la società contemporanea, a me la rappresentazione che viene fatta degli Osage non è risultata molto lusinghiera nei loro riguardi. I componenti della comunità risultano in buona parte ingenui e/o ignari di fronte agli eventi, in un modo che appare eccessivo anche rispetto a una comunità che certamente soffriva di un vero e proprio commissariamento. Insomma, pur nelle buone intenzioni a me è sembrato che il film non abbia reso completamente giustizia agli Osage, tanto più che alcuni elementi storici che sarebbero stati necessari per comprendere meglio le dinamiche interne a questa società non vengono né spiegati né chiariti, dando per scontato che lo spettatore li intuisca o si informi.
Non posso poi tacere della lunghezza davvero insostenibile del film, e lo dice una che di film lunghi e lentissimi ne vede tantissimi senza problemi. Qui a me è sembrato davvero che Scorsese non abbia voluto fare alcuno sforzo di sintesi, sebbene la narrazione non avrebbe perso una virgola della sua intensità e comprensibilità con una quarantina di minuti di meno. In questo senso il film mi è apparso proprio come il film di un vecchio e famoso regista, che fa fatica ormai a guardare al di fuori di sé stesso e a percepire la necessità di un autocontenimento.
È chiaro che parliamo di un film di Scorsese - e dunque di un film di alta qualità cinematografica - però personalmente non è un film che ho amato particolarmente.
Voto: 3/5
La trama ormai la conoscono tutti: Killers of the flower moon racconta la storia degli Osage, nativi americani che, nella seconda metà dell'Ottocento, si spostarono in Oklahoma provenendo da altri stati americani. Acquistarono la terra dai Cherokee e la scelta cadde su un'area a quel tempo poco ambita e dunque anche relativamente poco costosa.
Quando alla fine dell'Ottocento nel territorio degli Osage fu scoperto il petrolio, i componenti della comunità divennero ricchi fino a raggiungere un reddito pro capite tra i più alti degli Stati Uniti: da quel momento gli Osage cambiarono completamente il loro stile di vita, potendosi permettere case, proprietà, automobili e governanti bianche.
L'inaspettata situazione mise in allarme la comunità bianca, che infatti assegnò agli Osage dei tutor per supervisionare la gestione della loro ricchezza, e soprattutto fece emergere gli appetiti di spietati affaristi, tra cui in particolare William Hale (il personaggio interpretato nel film da Robert De Niro) e suo nipote Ernest (il personaggio interpretato da Leonardo Di Caprio). Accadde così che, negli anni Venti, numerosi componenti della comunità Osage morirono in circostanze inspiegabili o sospette, e nonostante l'aumento del numero delle morti nessuna indagine seria venne condotta, anzi tutti coloro che tentarono di far emergere la verità vennero a loro volta ammazzati. Il piano era evidentemente quello di far sì che - attraverso matrimoni con le donne Osage o nel ruolo di tutor - gli americani bianchi potessero ereditare concessioni e ricchezze.
Questa è la storia raccontata da Scorsese che si concentra in particolare sulla figura di Ernest, il nipote di Bill Hale, il quale - tornato dalla guerra - viene spinto dallo zio a diventare uno degli esecutori di questo ingegnoso ed efferato piano, iniziando dal matrimonio con Mollie (Lily Gladstone), una delle numerose figlie di una famiglia Osage. In questa vicenda in cui Ernest sarà alla fine condannato all'ergastolo per il coinvolgimento diretto in numerosi omicidi, la sua figura è certamente quella più ambigua, in quanto oscilla tra quello che sembra un affetto sincero verso moglie e figli e una mancanza di scrupoli dettata da una avidità senza fine, il tutto accompagnato a una intelligenza non certo sopraffina e a una sostanziale sottomissione allo zio. La figura di Mollie, pur protagonista, rimane piuttosto silenziosa nonostante sia centrale nella svolta che porterà il Bureau of Investigation (FBI) a indagare sul caso degli Osage; Mollie sembra essere consapevole di tutto, ma non è chiaro perché continui in qualche modo ad assecondare Ernest.
In generale, nonostante l'intento di Scorsese sia certamente quello di portare allo scoperto l'enorme ingiustizia e la terribile azione che i bianchi hanno compiuto nei confronti di questa comunità, a monito delle numerose forme di razzismo e colonialismo che caratterizzano ancora la società contemporanea, a me la rappresentazione che viene fatta degli Osage non è risultata molto lusinghiera nei loro riguardi. I componenti della comunità risultano in buona parte ingenui e/o ignari di fronte agli eventi, in un modo che appare eccessivo anche rispetto a una comunità che certamente soffriva di un vero e proprio commissariamento. Insomma, pur nelle buone intenzioni a me è sembrato che il film non abbia reso completamente giustizia agli Osage, tanto più che alcuni elementi storici che sarebbero stati necessari per comprendere meglio le dinamiche interne a questa società non vengono né spiegati né chiariti, dando per scontato che lo spettatore li intuisca o si informi.
Non posso poi tacere della lunghezza davvero insostenibile del film, e lo dice una che di film lunghi e lentissimi ne vede tantissimi senza problemi. Qui a me è sembrato davvero che Scorsese non abbia voluto fare alcuno sforzo di sintesi, sebbene la narrazione non avrebbe perso una virgola della sua intensità e comprensibilità con una quarantina di minuti di meno. In questo senso il film mi è apparso proprio come il film di un vecchio e famoso regista, che fa fatica ormai a guardare al di fuori di sé stesso e a percepire la necessità di un autocontenimento.
È chiaro che parliamo di un film di Scorsese - e dunque di un film di alta qualità cinematografica - però personalmente non è un film che ho amato particolarmente.
Voto: 3/5
lunedì 11 dicembre 2023
Don McCullin a Roma; Boris Mikhailov: Ukrainian Diary. Palazzo delle esposizioni, 18 novembre 2023
Approfitto di una domenica pomeriggio in cui sono già in giro per altri motivi per andare a vedere la mostra di Don McCullin al Palazzo delle esposizioni, e con l'occasione vedo anche l'altra mostra in corso, quella dedicata al fotografo ucraino Boris Mikhailov.
Personalmente non conoscevo McCullin: scopro solo grazie alla mostra che il fotografo ha ottantotto anni e vive con la moglie nella campagna del Sormerset, e che nella sua lunga carriera è stato uno dei grandi fotografi documentaristi e di guerra. Dagli esordi e nel corso degli anni ha raccontato - con sguardo attento e soprattutto empatico - sia la realtà a lui più vicina (il quartiere nel quale viveva quando era ragazzo e altri luoghi della Gran Bretagna che hanno attraversato fasi di impoverimento, come ad esempio l'East End di Londra), sia mondi lontani e meno lontani, soprattutto in occasione di guerre (il Vietnam, la Cambogia, il Biafra, l'Irlanda del Nord e molti altri). Negli ultimi anni Mc Cullin ha deciso di ritirarsi nel Somerset dedicandosi a progetti più elegiaci, come ad esempio le foto della campagna inglese e quelle dei resti archeologici sul confine meridionale dell'ex impero romano, nelle quali però il fotografo non riesce a voltare completamente pagina rispetto alle brutture della guerra e mantiene uno sguardo in qualche modo tragico e critico.
Le oltre 250 fotografie in mostra (tutte in bianco e nero e quasi tutte stampate con le gelatine ai sali d'argento) rappresentano una straordinaria retrospettiva della sua carriera e, oltre a farci apprezzare le sue notevoli qualità tecniche, ci aiutano a entrare nella mente di un fotografo di guerra, con tutti i traumi e gli interrogativi etici che caratterizzano questo ruolo.
Attraverso le parole dello stesso McCullin - che a più riprese arricchiscono la visione delle foto - seguiamo i sentimenti contrastanti dello stesso fotografo, il quale ci dice di aver sempre ricercato l'empatia con i soggetti delle sue foto e di aver sempre scattato le foto per restituire dignità e voce a persone che spesso non ne hanno. È però evidente che, nonostante le buone intenzioni, McCullin non è uscito indenne da una carriera di fotografo di guerra, e credo non a caso abbia cercato evasione nella fotografia di paesaggio, senza però riuscire davvero a superare i traumi interiori.
Mostra bellissima, in parte rovinata - se posso dire la mia opinione - da luci non perfette che non consentono di guardare le foto nel migliore dei modi possibili.
Per quanto riguarda la mostra su Boris Mikhailov, si tratta di una sorpresa totale. Mikhailov - che ovviamente non conoscevo minimamente - è un fotografo autodidatta, ma anche un artista ucraino, che ha documentato, in modo del tutto personale e originale, i cambiamenti intervenuti nel suo paese con la fine dell'Unione Sovietica. Nel caso di Mikhailov non siamo di fronte a fotografie che puntano alla qualità tecnica ed estetica, bensì il mezzo fotografico è utilizzato in modo ironico o critico, o entrambi, a seconda dei casi. Ne vengono fuori progetti fotografici certamente anomali, in cui le foto sono spesso modificate mediante filtri, ovvero colorate a posteriori, anche a mano, e talvolta si tratta di progetti realizzati in modi forse eticamente discutibili. Del resto, Mikhailov - cresciuto in un paese nel quale la propaganda era onnipresente e la libertà di espressione praticamente inesistente - ha escogitato nel tempo modi originali per veicolare, attraverso i suoi progetti, messaggi che probabilmente sarebbero stati censurati, e più avanti ha continuato ad affinare questo suo linguaggio fino a farne una propria cifra distintiva.
Interessante scoperta, anche se sul piano fotografico non è esattamente quello che mi appassiona.
Voto: 3,5/5
Personalmente non conoscevo McCullin: scopro solo grazie alla mostra che il fotografo ha ottantotto anni e vive con la moglie nella campagna del Sormerset, e che nella sua lunga carriera è stato uno dei grandi fotografi documentaristi e di guerra. Dagli esordi e nel corso degli anni ha raccontato - con sguardo attento e soprattutto empatico - sia la realtà a lui più vicina (il quartiere nel quale viveva quando era ragazzo e altri luoghi della Gran Bretagna che hanno attraversato fasi di impoverimento, come ad esempio l'East End di Londra), sia mondi lontani e meno lontani, soprattutto in occasione di guerre (il Vietnam, la Cambogia, il Biafra, l'Irlanda del Nord e molti altri). Negli ultimi anni Mc Cullin ha deciso di ritirarsi nel Somerset dedicandosi a progetti più elegiaci, come ad esempio le foto della campagna inglese e quelle dei resti archeologici sul confine meridionale dell'ex impero romano, nelle quali però il fotografo non riesce a voltare completamente pagina rispetto alle brutture della guerra e mantiene uno sguardo in qualche modo tragico e critico.
Le oltre 250 fotografie in mostra (tutte in bianco e nero e quasi tutte stampate con le gelatine ai sali d'argento) rappresentano una straordinaria retrospettiva della sua carriera e, oltre a farci apprezzare le sue notevoli qualità tecniche, ci aiutano a entrare nella mente di un fotografo di guerra, con tutti i traumi e gli interrogativi etici che caratterizzano questo ruolo.
Attraverso le parole dello stesso McCullin - che a più riprese arricchiscono la visione delle foto - seguiamo i sentimenti contrastanti dello stesso fotografo, il quale ci dice di aver sempre ricercato l'empatia con i soggetti delle sue foto e di aver sempre scattato le foto per restituire dignità e voce a persone che spesso non ne hanno. È però evidente che, nonostante le buone intenzioni, McCullin non è uscito indenne da una carriera di fotografo di guerra, e credo non a caso abbia cercato evasione nella fotografia di paesaggio, senza però riuscire davvero a superare i traumi interiori.
Mostra bellissima, in parte rovinata - se posso dire la mia opinione - da luci non perfette che non consentono di guardare le foto nel migliore dei modi possibili.
Per quanto riguarda la mostra su Boris Mikhailov, si tratta di una sorpresa totale. Mikhailov - che ovviamente non conoscevo minimamente - è un fotografo autodidatta, ma anche un artista ucraino, che ha documentato, in modo del tutto personale e originale, i cambiamenti intervenuti nel suo paese con la fine dell'Unione Sovietica. Nel caso di Mikhailov non siamo di fronte a fotografie che puntano alla qualità tecnica ed estetica, bensì il mezzo fotografico è utilizzato in modo ironico o critico, o entrambi, a seconda dei casi. Ne vengono fuori progetti fotografici certamente anomali, in cui le foto sono spesso modificate mediante filtri, ovvero colorate a posteriori, anche a mano, e talvolta si tratta di progetti realizzati in modi forse eticamente discutibili. Del resto, Mikhailov - cresciuto in un paese nel quale la propaganda era onnipresente e la libertà di espressione praticamente inesistente - ha escogitato nel tempo modi originali per veicolare, attraverso i suoi progetti, messaggi che probabilmente sarebbero stati censurati, e più avanti ha continuato ad affinare questo suo linguaggio fino a farne una propria cifra distintiva.
Interessante scoperta, anche se sul piano fotografico non è esattamente quello che mi appassiona.
Voto: 3,5/5
martedì 5 dicembre 2023
Rumba. L'asino e il bue del presepe di San Francesco nel parcheggio del supermercato / Ascanio Celestini. Romaeuropa Festival, Auditorium Parco della musica, 17 novembre 2023
Da molti anni ormai seguo con affetto Ascanio Celestini e quando vedo un suo spettacolo in programmazione a Roma non perdo mai l'occasione di andare ad ascoltarlo. Ad aprile di quest'anno ero rimasta un po' delusa dal suo spettacolo Parassiti. Un diario nei giorni del Covid-19, ma in altre circostanze avevo apprezzato moltissimo i suoi racconti (vedi, tra gli ultimi, Museo Pasolini).
Questa volta Celestini torna al pubblico con la sua formula ormai ampiamente rodata - e forse a questo punto un pochino ripetitiva - che vede la sua narrazione inserita all'interno di una scenografia minimale e accompagnata dalla fisarmonica di Gianluca Casadei, che gli fa anche da interlocutore (di fatto muto, ma che mima quanto viene pronunciato da una voce registrata).
L'oggetto dello spettacolo Rumba è innanzitutto la figura di Francesco d'Assisi, sulla cui vita il narratore vuole mettere in piedi uno spettacolo in un grande parcheggio. La storia di San Francesco è però inframmezzata dalle storie di una serie di persone che ruotano intorno a questo parcheggio: Giobbe, il magazziniere analfabeta, l'immigrato Joseph che è arrivato attraverso il deserto e il mare e che in Italia ha finito per diventare un barbone, lo zingaro che gironzola intorno al bar, tutte figure ai margini della nostra società, che in qualche modo sono idealmente collegate al giovane che lasciò tutto per vivere povero tra i poveri.
Lo spettacolo parte molto bene, e soprattutto nelle parti in cui si focalizza sulla vita di Francesco funziona, mentre invece quando la narrazione si sposta sulle vite delle persone che ruotano intorno al parcheggio del supermercato l'intensità scema per lasciare il posto a un approccio un po' troppo buonista e a contenuti già sentiti.
Uscendo dall'Auditorium rifletto sul fatto che Ascanio Celestini riesce a dare il meglio di sé quando ci racconta eventi o personaggi storici: in questo ambito il suo teatro di parola arriva potente e colpisce nel segno, perché Celestini è in grado di rendere interessanti e umanamente coinvolgenti le storie che racconta.
Quando invece i suoi testi si spostano sulla finzione e raccontano storie di persone, ho la sensazione che la retorica e il luogo comune prendano il sopravvento, cosicché anche il suo stile narrativo ne risente in negativo.
Capisco che dopo tanti anni di teatro ci sia anche il tema di mantenere viva la creatività e di continuare a essere originali, però dal mio punto di vista è indubbio che il Celestini divulgatore di eventi storici, piccoli e grandi, è capace di catturare qualunque auditorium e di sorprendere anche quando racconta una storia piuttosto nota, come quella di San Francesco, mentre il Celestini portavoce di personaggi da lui stesso creati (sebbene evidentemente ispirati alla realtà) risulti più piatto, ripetitivo e meno convincente.
Personalmente consiglierei a Celestini di tornare a indagare nella storia per portare al pubblico il suo racconto di vicende importanti ma più o meno dimenticate. Io lo andrei ad ascoltare più volentieri.
Voto: 3/5
Questa volta Celestini torna al pubblico con la sua formula ormai ampiamente rodata - e forse a questo punto un pochino ripetitiva - che vede la sua narrazione inserita all'interno di una scenografia minimale e accompagnata dalla fisarmonica di Gianluca Casadei, che gli fa anche da interlocutore (di fatto muto, ma che mima quanto viene pronunciato da una voce registrata).
L'oggetto dello spettacolo Rumba è innanzitutto la figura di Francesco d'Assisi, sulla cui vita il narratore vuole mettere in piedi uno spettacolo in un grande parcheggio. La storia di San Francesco è però inframmezzata dalle storie di una serie di persone che ruotano intorno a questo parcheggio: Giobbe, il magazziniere analfabeta, l'immigrato Joseph che è arrivato attraverso il deserto e il mare e che in Italia ha finito per diventare un barbone, lo zingaro che gironzola intorno al bar, tutte figure ai margini della nostra società, che in qualche modo sono idealmente collegate al giovane che lasciò tutto per vivere povero tra i poveri.
Lo spettacolo parte molto bene, e soprattutto nelle parti in cui si focalizza sulla vita di Francesco funziona, mentre invece quando la narrazione si sposta sulle vite delle persone che ruotano intorno al parcheggio del supermercato l'intensità scema per lasciare il posto a un approccio un po' troppo buonista e a contenuti già sentiti.
Uscendo dall'Auditorium rifletto sul fatto che Ascanio Celestini riesce a dare il meglio di sé quando ci racconta eventi o personaggi storici: in questo ambito il suo teatro di parola arriva potente e colpisce nel segno, perché Celestini è in grado di rendere interessanti e umanamente coinvolgenti le storie che racconta.
Quando invece i suoi testi si spostano sulla finzione e raccontano storie di persone, ho la sensazione che la retorica e il luogo comune prendano il sopravvento, cosicché anche il suo stile narrativo ne risente in negativo.
Capisco che dopo tanti anni di teatro ci sia anche il tema di mantenere viva la creatività e di continuare a essere originali, però dal mio punto di vista è indubbio che il Celestini divulgatore di eventi storici, piccoli e grandi, è capace di catturare qualunque auditorium e di sorprendere anche quando racconta una storia piuttosto nota, come quella di San Francesco, mentre il Celestini portavoce di personaggi da lui stesso creati (sebbene evidentemente ispirati alla realtà) risulti più piatto, ripetitivo e meno convincente.
Personalmente consiglierei a Celestini di tornare a indagare nella storia per portare al pubblico il suo racconto di vicende importanti ma più o meno dimenticate. Io lo andrei ad ascoltare più volentieri.
Voto: 3/5
lunedì 4 dicembre 2023
Il caftano blu
Halim (Saleh Bakri) gestisce una sartoria artigianale insieme a sua moglie Mina (Lubna Azabal) nella Medina di Salé dove i due vivono. Poiché il lavoro è tanto e Mina non sta bene nella bottega arriva come apprendista Youssef (Ayoub Missioui), un giovane che sembra amare molto il mestiere.
Tra Halim e Youssef si crea immediatamente un feeling che si trasforma presto in attrazione alla quale Halim cerca di resistere e Mina reagisce con forme di gelosia più o meno evidenti.
Il cuore della narrazione si svolge tutto in poche settimane, quelle durante le quali Halim deve terminare la realizzazione di un elegantissimo caftano blu tutto ricamato che gli è stato commissionato e le condizioni di salute di Mina si aggravano costringendola a casa. È in questa contingenza delicata che i sentimenti tra Halim, Mina e Youssef sono chiamati a rivelarsi e che ognuno di loro sceglie come interpretare l'amore e in che direzione farlo sbocciare. È di fronte all'irrerversibilità del destino che si mostra in particolare la consapevolezza e la grandezza di Mina, donna profondamente religiosa ma anche fortemente anticonvenzionale, con la mente aperta e il cuore grande.
Nonostante una condizione contraria alla sua natura (che lo porta a soddisfare i propri bisogni nei bagni pubblici), Halim ama sinceramente e intensamente Mina, e quest'ultima pur consapevole dell'orientamento di suo marito ne riconosce la generosità e la purezza d'animo, e per questo si fa artefice di un avvicinamento definitivo tra Halim e Youssef lasciando a quest'ultimo l'eredità del suo amore per il marito.
Un film visivamente bellissimo, delicato nei sentimenti, capace di trasmettere un'infinità di sfumature e di moti dell'animo attraverso piccoli gesti e espressioni del volto, prima ancora che attraverso le parole.
Peccato per il doppiaggio, ormai per me piuttosto fastidioso.
Però Maryam Touzani si dimostra autrice di grande levatura e capacità da seguire con grande attenzione.
Voto: 4/5
Tra Halim e Youssef si crea immediatamente un feeling che si trasforma presto in attrazione alla quale Halim cerca di resistere e Mina reagisce con forme di gelosia più o meno evidenti.
Il cuore della narrazione si svolge tutto in poche settimane, quelle durante le quali Halim deve terminare la realizzazione di un elegantissimo caftano blu tutto ricamato che gli è stato commissionato e le condizioni di salute di Mina si aggravano costringendola a casa. È in questa contingenza delicata che i sentimenti tra Halim, Mina e Youssef sono chiamati a rivelarsi e che ognuno di loro sceglie come interpretare l'amore e in che direzione farlo sbocciare. È di fronte all'irrerversibilità del destino che si mostra in particolare la consapevolezza e la grandezza di Mina, donna profondamente religiosa ma anche fortemente anticonvenzionale, con la mente aperta e il cuore grande.
Nonostante una condizione contraria alla sua natura (che lo porta a soddisfare i propri bisogni nei bagni pubblici), Halim ama sinceramente e intensamente Mina, e quest'ultima pur consapevole dell'orientamento di suo marito ne riconosce la generosità e la purezza d'animo, e per questo si fa artefice di un avvicinamento definitivo tra Halim e Youssef lasciando a quest'ultimo l'eredità del suo amore per il marito.
Un film visivamente bellissimo, delicato nei sentimenti, capace di trasmettere un'infinità di sfumature e di moti dell'animo attraverso piccoli gesti e espressioni del volto, prima ancora che attraverso le parole.
Peccato per il doppiaggio, ormai per me piuttosto fastidioso.
Però Maryam Touzani si dimostra autrice di grande levatura e capacità da seguire con grande attenzione.
Voto: 4/5
venerdì 1 dicembre 2023
John Grant. Monk, 15 novembre 2023
John Grant per me è sempre un appuntamento da non perdere. Anni fa per sentirlo e vederlo cantare (non solo lui a dire la verità!) ero andata fino a Londra all'All Points Festival, ma lì si era in un grande parco e Grant si esibiva su un palco dove era allestita una significativa scenografia e lui stesso avevo scelto la performance istrionica. Mi era piaciuto anche allora, ma certo al Monk già pregustavo quell'atmosfera intima che caratterizza i concerti che si tengono in questa location.
D'altra, parte, dal momento che l'ultimo album di John Grant, Boy from Michigan, risale ormai al 2021, era difficile prevedere come il musicista americano - ma ormai quasi trapiantato in Islanda - avrebbe impostato questo concerto. Certo, a me personalmente piace di più il John Grant delle ballate e delle melodie che quello dell'elettronica, ma ero preparata a qualunque cosa e contenta del solo fatto di poterlo vedere dal vivo e così da vicino. Ero infatti in prima fila e ho potuto ammirare questo omone con le mani grandi e la barbona, che nella sua musica come nel suo modo di porsi oscilla tra un'estrema delicatezza e l'energia di un panzer.
Quando però Grant canta la prima canzone, TC and the honeybear, capisco che questa sera ci sta per fare un bellissimo regalo, proponendoci un concerto che alla fine si configurerà come una specie di "best of" della sua discografia, tra l'altro con un arrangiamento intimo e potente al contempo, che vede protagonisti lui stesso (alle tastiere e al synthetizer) e il bravissimo musicista (e seconda voce) Chris Pemberton (anche lui alle tastiere e al synthetizer, alternativamente rispetto a Grant).
Il concerto inizia puntualissimo, alle 21.45, e la scaletta attraversa tutta la discografia di Grant:
TC and honeybear, The cruise room, Where dreams go to die, Grey tickles, black pressure, Touch and go, Is he strange, Outer space, Zeitgeist (un inedito che sarà contenuto nel nuovo disco che ci dice in uscita a maggio: evviva!), Marz, Glacier, Queen of Denmark, Sigourney Weaver, Global warming, Drug, e poi nel bis reclamato dal pubblico Caramel e GMF.
L'atmosfera è di religioso ascolto per questo musicista la cui voce riempie l'aria e rapisce gli ascoltatori (tutti appassionati, moltissimi muovono le labbra cantando silenziosamente tutte le parole delle sue canzoni), ma Grant è anche un gran intrattenitore e durante il concerto, oltre a presentarci quasi ogni canzone, ci racconta aneddoti e scherza col pubblico, dicendoci ad esempio quali parole ed espressioni italiane ha imparato durante questo tour, oltre a non perdere occasione per fare dell'ironia sugli americani e sulla deriva conservatrice e fascista dell'America e del mondo.
Man mano che il concerto va avanti l'emozione dell'ascolto cresce, l'atmosfera si fa sempre più calda e il rapporto con John Grant sempre più intimo.
Quando Grant ci saluta, ce ne andiamo felici e soprattutto grati di aver partecipato a questo bellissimo concerto.
Voto: 4/5
D'altra, parte, dal momento che l'ultimo album di John Grant, Boy from Michigan, risale ormai al 2021, era difficile prevedere come il musicista americano - ma ormai quasi trapiantato in Islanda - avrebbe impostato questo concerto. Certo, a me personalmente piace di più il John Grant delle ballate e delle melodie che quello dell'elettronica, ma ero preparata a qualunque cosa e contenta del solo fatto di poterlo vedere dal vivo e così da vicino. Ero infatti in prima fila e ho potuto ammirare questo omone con le mani grandi e la barbona, che nella sua musica come nel suo modo di porsi oscilla tra un'estrema delicatezza e l'energia di un panzer.
Quando però Grant canta la prima canzone, TC and the honeybear, capisco che questa sera ci sta per fare un bellissimo regalo, proponendoci un concerto che alla fine si configurerà come una specie di "best of" della sua discografia, tra l'altro con un arrangiamento intimo e potente al contempo, che vede protagonisti lui stesso (alle tastiere e al synthetizer) e il bravissimo musicista (e seconda voce) Chris Pemberton (anche lui alle tastiere e al synthetizer, alternativamente rispetto a Grant).
Il concerto inizia puntualissimo, alle 21.45, e la scaletta attraversa tutta la discografia di Grant:
TC and honeybear, The cruise room, Where dreams go to die, Grey tickles, black pressure, Touch and go, Is he strange, Outer space, Zeitgeist (un inedito che sarà contenuto nel nuovo disco che ci dice in uscita a maggio: evviva!), Marz, Glacier, Queen of Denmark, Sigourney Weaver, Global warming, Drug, e poi nel bis reclamato dal pubblico Caramel e GMF.
L'atmosfera è di religioso ascolto per questo musicista la cui voce riempie l'aria e rapisce gli ascoltatori (tutti appassionati, moltissimi muovono le labbra cantando silenziosamente tutte le parole delle sue canzoni), ma Grant è anche un gran intrattenitore e durante il concerto, oltre a presentarci quasi ogni canzone, ci racconta aneddoti e scherza col pubblico, dicendoci ad esempio quali parole ed espressioni italiane ha imparato durante questo tour, oltre a non perdere occasione per fare dell'ironia sugli americani e sulla deriva conservatrice e fascista dell'America e del mondo.
Man mano che il concerto va avanti l'emozione dell'ascolto cresce, l'atmosfera si fa sempre più calda e il rapporto con John Grant sempre più intimo.
Quando Grant ci saluta, ce ne andiamo felici e soprattutto grati di aver partecipato a questo bellissimo concerto.
Voto: 4/5