Giusto la fine del mondo è il titolo del testo teatrale di Jean-Luc Lagarce da cui Xavier Dolan ha tratto il suo film del 2016, uscito in Italia con il titolo È solo la fine del mondo.
Il film di Dolan a suo tempo non mi aveva convinto, ma ho deciso di offrire al testo una seconda possibilità, anche per apprezzarne la resa nel contesto teatrale nel quale è nato. L'adattamento italiano vede alla regia Francesco Frangipane, mentre sono affidati ad Anna Bonaiuto il ruolo della madre, ad Alessandro Tedeschi il ruolo di Louis, ad Angela Curri quello della sorella Suzanne, a Vincenzo De Michele quello del fratello Antoine, e infine a Barbara Ronchi quello di Catherine, la moglie di Antoine.
Sul palco la ricostruzione di una casa circondata dal prato: a sinistra il salotto, a destra la sala da pranzo, dietro, più in alto, da un lato la stanza di Suzanne (che vive ancora con la madre), dall'altro la cucina. Davanti a tutto tre grandi tende veneziane, da cui Suzanne spia, impaziente, l'arrivo del fratello Louis, che sta tornando a casa dopo dodici lunghi anni di assenza per comunicare che sta per morire.
Le veneziane vengono sollevate quando Louis arriva, e da questo momento inizia un faticoso tentativo di comunicazione tra i membri di questa famiglia, ciascuno portatore dei propri ricordi, dei propri rancori e delle proprie idiosincrasie, tutti desiderosi di rovesciare il proprio carico emotivo su colui che è stato assente per troppo tempo, lasciandoli soli e in fondo permettendo che ognuno si costruisse la propria idea e si desse la propria spiegazione. Louis ascolta, confuso e tramortito dalle parole altrui, fa fatica a interloquire, si limita a qualche sorriso, e quando a tavola tenta di parlare di sé e di raccontare quello che ha da dire, di fatto gli viene impedito, forse perché nessuno dei commensali vuole ascoltare la verità durissima che sta per dire.
Nel dramma di Lagarce, che affonda in parte le radici nella storia personale (essendo lo stesso autore morto di AIDS a soli 38 anni), viene messa in scena tutta la complessità delle dinamiche familiari e l'insuperabile incomunicabilità che è propria di quel consesso umano primigenio, in cui tutti i sentimenti risultano amplificati esponenzialmente nel bene e nel male. La famiglia è il luogo dal quale non si può fuggire nemmeno quando ci si allontana e nella quale le frustrazioni individuali e le fragilità affettive non solo non vengono risolte, ma rimangono intrappolate e fossilizzate in una coazione a ripetere infinita, di fronte alla quale nemmeno l'avanzare dell'età e l'aumentare delle esperienze possono nulla. Se la comunicazione con i propri simili e la reciproca comprensione sono uno dei problemi più grossi con cui gli esseri umani devono fare i conti, la famiglia costituisce il primo laboratorio dell'incomunicabilità umana, quello le cui conseguenze ci rimangono appiccicate addosso e che ci condizionerà per tutta la nostra vita.
E a questa incomunicabilità non sembra esserci rimedio.
La messa in scena del dramma di Lagarce da parte di Frangipane è pulita ed efficace, e gli attori sono appropriati e misurati (o senza misure) ciascuno rispetto al proprio ruolo. Non mi pare che la visione a teatro abbia aggiunto molto a quanto visto nell'adattamento cinematografico di Dolan, anche se devo dire che la maggiore essenzialità della resa teatrale e l'assenza di artifici di carattere intellettualistico hanno certamente contribuito a far arrivare il messaggio in maniera molto più chiara e diretta.
Voto: 3,5/5
venerdì 28 febbraio 2020
giovedì 27 febbraio 2020
Family Romance, Llc.
Dopo la non facile esperienza con il documentario dedicato a Bruce Chatwin, torno a sperimentare il cinema di Werner Herzog con la visione di questo suo nuovo documentario, Family Romance, Llc. che è il film di apertura, fuori concorso, della settima edizione dell'On The Road Film Festival, organizzato dal cinema Detour.
Il film mi aveva incuriosita sia per la location, il Giappone, Tokyo in particolare, sia per il soggetto: Family Romance, Llc. è il nome di un'azienda giapponese fondata da Ishii Yuichi che fornisce un tipo di servizi molto particolare, ossia aiuta le persone a realizzare i propri sogni grazie a una schiera di attori - compreso lo stesso Ishii Yuichi - che, a seconda dei casi e delle necessità, possono interpretare il ruolo di amici, genitori, figli, fotografi di moda e qualunque altra figura di cui i clienti sentano la necessità.
In pratica la società offre dei surrogati emotivi in situazioni che le persone non riescono o non vogliono affrontare con le proprie risorse interiori ovvero nel tentativo di modificare la realtà secondo i propri desiderata.
Osserviamo così Ishii Yuichi e i suoi dipendenti-attori in diverse situazioni in cui vengono chiamati a intervenire: una donna che vuole mostrarsi per strada circondata da paparazzi in modo che la sua immagine possa diventare virale e lei famosa, una giovane sposa e sua madre alla ricerca di un padre alternativo che accompagni la figlia all'altare, una signora che ha vinto alla lotteria e vuole riprovare ancora l'emozione di quella notizia. La storia che fa però da asse portante di tutto il documentario è quella di una madre che chiede l'intervento di Ishii per impersonare il padre di sua figlia di 12 anni, con tutte le implicazioni e le complicazioni che un rapporto così delicato può comportare.
Nel seguire da vicino le attività della Family Romance, Llc. si ha la sensazione che il suo fondatore non consideri la sua una pura iniziativa commerciale a scopo di lucro, bensì la ritenga una specie di servizio di valore sociale, una risposta costruita a tavolino alle frustrazioni, alle mancanze affettive, alle infelicità individuali, che in prospettiva non esclude l'utilizzo di robot umanoidi.
Senza dubbio dietro questa iniziativa aziendale ci sono le peculiari caratteristiche della società giapponese e il suo modo originale - e decisamente poco comprensibile per noi occidentali - di vivere le relazioni e i sentimenti; ed è probabilmente per questo che, a più riprese durante la visione del film, si è portati a ridere o sorridere di cose che ci appaiono incredibili e lontanissime da noi. E però, è innegabile che nello spettatore si faccia a poco a poco strada la consapevolezza che quanto vediamo sullo schermo potrebbe non essere così alieno al mondo nel quale viviamo e potrebbe prima o poi prendere piede anche da noi.
La risata si fa dunque sempre più amara, mentre cresce l'angoscia verso un futuro imprevedibile a fronte di un essere umano che via via perde il senso del confine tra vero e falso, tra reale e costruito, e che in fondo è ben disposto ad "accontentarsi" di una recita - per quanto realistica - piuttosto che affrontare la realtà.
Il documentario di Herzog - che dal mio punto di vista conferma cinematograficamente alcune sensazioni che avevo raccolto già nella precedente visione, in particolare rispetto alla tendenza a indugiare nelle situazioni producendo una lentezza narrativa talvolta eccessiva - è però un'occasione di riflessione individuale e sociale di grandissimo rilievo e assolutamente indispensabile.
Voto: 3,5/5
Il film mi aveva incuriosita sia per la location, il Giappone, Tokyo in particolare, sia per il soggetto: Family Romance, Llc. è il nome di un'azienda giapponese fondata da Ishii Yuichi che fornisce un tipo di servizi molto particolare, ossia aiuta le persone a realizzare i propri sogni grazie a una schiera di attori - compreso lo stesso Ishii Yuichi - che, a seconda dei casi e delle necessità, possono interpretare il ruolo di amici, genitori, figli, fotografi di moda e qualunque altra figura di cui i clienti sentano la necessità.
In pratica la società offre dei surrogati emotivi in situazioni che le persone non riescono o non vogliono affrontare con le proprie risorse interiori ovvero nel tentativo di modificare la realtà secondo i propri desiderata.
Osserviamo così Ishii Yuichi e i suoi dipendenti-attori in diverse situazioni in cui vengono chiamati a intervenire: una donna che vuole mostrarsi per strada circondata da paparazzi in modo che la sua immagine possa diventare virale e lei famosa, una giovane sposa e sua madre alla ricerca di un padre alternativo che accompagni la figlia all'altare, una signora che ha vinto alla lotteria e vuole riprovare ancora l'emozione di quella notizia. La storia che fa però da asse portante di tutto il documentario è quella di una madre che chiede l'intervento di Ishii per impersonare il padre di sua figlia di 12 anni, con tutte le implicazioni e le complicazioni che un rapporto così delicato può comportare.
Nel seguire da vicino le attività della Family Romance, Llc. si ha la sensazione che il suo fondatore non consideri la sua una pura iniziativa commerciale a scopo di lucro, bensì la ritenga una specie di servizio di valore sociale, una risposta costruita a tavolino alle frustrazioni, alle mancanze affettive, alle infelicità individuali, che in prospettiva non esclude l'utilizzo di robot umanoidi.
Senza dubbio dietro questa iniziativa aziendale ci sono le peculiari caratteristiche della società giapponese e il suo modo originale - e decisamente poco comprensibile per noi occidentali - di vivere le relazioni e i sentimenti; ed è probabilmente per questo che, a più riprese durante la visione del film, si è portati a ridere o sorridere di cose che ci appaiono incredibili e lontanissime da noi. E però, è innegabile che nello spettatore si faccia a poco a poco strada la consapevolezza che quanto vediamo sullo schermo potrebbe non essere così alieno al mondo nel quale viviamo e potrebbe prima o poi prendere piede anche da noi.
La risata si fa dunque sempre più amara, mentre cresce l'angoscia verso un futuro imprevedibile a fronte di un essere umano che via via perde il senso del confine tra vero e falso, tra reale e costruito, e che in fondo è ben disposto ad "accontentarsi" di una recita - per quanto realistica - piuttosto che affrontare la realtà.
Il documentario di Herzog - che dal mio punto di vista conferma cinematograficamente alcune sensazioni che avevo raccolto già nella precedente visione, in particolare rispetto alla tendenza a indugiare nelle situazioni producendo una lentezza narrativa talvolta eccessiva - è però un'occasione di riflessione individuale e sociale di grandissimo rilievo e assolutamente indispensabile.
Voto: 3,5/5
martedì 25 febbraio 2020
Richard Jewell
Dopo aver visto l'ultimo film di Clint Eastwood io e S. ci siamo dette che ci sarebbe da metterci la firma per arrivare alla sua età (quasi 90 anni) con la stessa lucidità e capacità di riflettere e far riflettere.
In questo caso, il vecchio Clint ritorna agli anni Novanta per raccontare una storia vera che ha molto da dire anche al presente.
Siamo nel 1996, Olimpiadi di Atlanta. Al Centennial Park - dove si tengono concerti e altri eventi di intrattenimento per i convenuti da ogni dove - lavora alla security Richard Jewell (Paul Walter Hauser), un uomo decisamente sovrappeso, che vive ancora con la madre (Kathy Bates) e ha una vera ossessione per la divisa e la sicurezza.
Durante un suo turno, uno zaino viene lasciato vicino a una panchina e Jewell attiva immediatamente le forze dell'ordine e, quando si capisce che si tratta di una bomba, è determinante per allontanare le persone che gravitano in quell'area. Alla fine il bilancio sarà di due morti e di un centinaio di feriti, a fronte di un ordigno che avrebbe potuto uccidere molte più persone.
Jewell viene prima portato in trionfo come un eroe, poi però l'approssimazione dell'FBI nelle indagini, il bisogno di scoop di una giornalista, il processo sommario dei media e la conseguente manipolazione dell'opinione pubblica trasformano Jewell da eroe a principale imputato.
Mentre l'analisi del profilo psicologico di Jewell sembra confermare i sospetti, l'unico a credere in lui è l'avvocato Bryant Watson (Sam Rockwell) che decide di avviare una vera battaglia mediatica e giudiziaria per salvare Jewell, nonostante la naiveté di quest'ultimo e i suoi comportamenti controproducenti.
A fronte di quella sensazione di meccanicità che la modalità narrativa di Eastwood sempre mi suscita e di alcune semplificazioni nell'evoluzione di alcuni personaggi (vedi la giornalista), il film merita la visione da numerosi punti di vista. Innanzitutto perché solleva il velo sui meccanismi dello storytelling mediatico, che indipendentemente da qualunque elemento strettamente fattuale è in grado di influenzare pesantemente l'opinione pubblica e sottoporre una persona e i suoi cari a una gogna insopportabile.
In secondo luogo, perché focalizza l'attenzione sulla facilità con cui la diversità individuale (Jewell è sicuramente un po' sociopatico e a tratti borderline rispetto al concetto di normalità sociale generalmente accettato) diventa quasi automaticamente prova di colpevolezza.
Infine, a me pare che Eastwood nei suoi ultimi film stia facendo i conti con lo stesso universo di valori al quale appartiene per denunciarne la degenerazione. Jewell in fondo è un perfetto rappresentante di quell'America repubblicana e conservatrice a cui lo stesso Eastwood appartiene: crede nell'ordine sociale affidato agli uomini in divisa e nella necessità delle armi, nel rispetto dell'autorità e delle regole, valori che sono compatibili con il senso della giustizia e con la difesa dei più deboli. Ma quello che Eastwood sembra volerci dire è che i maggiori esponenti di quell'ordine sociale che Jewell cerca di difendere, il governo, le forze dell'ordine, i media non si muovono più all'interno di un sistema di valori che ne guidi le azioni, bensì sulla base di pregiudizi e semplificazioni. In un certo senso Eastwood parla alla "sua stessa gente", ma al contempo chiama in causa ciascuno di noi e la società tutta.
Voto: 3,5/5
In questo caso, il vecchio Clint ritorna agli anni Novanta per raccontare una storia vera che ha molto da dire anche al presente.
Siamo nel 1996, Olimpiadi di Atlanta. Al Centennial Park - dove si tengono concerti e altri eventi di intrattenimento per i convenuti da ogni dove - lavora alla security Richard Jewell (Paul Walter Hauser), un uomo decisamente sovrappeso, che vive ancora con la madre (Kathy Bates) e ha una vera ossessione per la divisa e la sicurezza.
Durante un suo turno, uno zaino viene lasciato vicino a una panchina e Jewell attiva immediatamente le forze dell'ordine e, quando si capisce che si tratta di una bomba, è determinante per allontanare le persone che gravitano in quell'area. Alla fine il bilancio sarà di due morti e di un centinaio di feriti, a fronte di un ordigno che avrebbe potuto uccidere molte più persone.
Jewell viene prima portato in trionfo come un eroe, poi però l'approssimazione dell'FBI nelle indagini, il bisogno di scoop di una giornalista, il processo sommario dei media e la conseguente manipolazione dell'opinione pubblica trasformano Jewell da eroe a principale imputato.
Mentre l'analisi del profilo psicologico di Jewell sembra confermare i sospetti, l'unico a credere in lui è l'avvocato Bryant Watson (Sam Rockwell) che decide di avviare una vera battaglia mediatica e giudiziaria per salvare Jewell, nonostante la naiveté di quest'ultimo e i suoi comportamenti controproducenti.
A fronte di quella sensazione di meccanicità che la modalità narrativa di Eastwood sempre mi suscita e di alcune semplificazioni nell'evoluzione di alcuni personaggi (vedi la giornalista), il film merita la visione da numerosi punti di vista. Innanzitutto perché solleva il velo sui meccanismi dello storytelling mediatico, che indipendentemente da qualunque elemento strettamente fattuale è in grado di influenzare pesantemente l'opinione pubblica e sottoporre una persona e i suoi cari a una gogna insopportabile.
In secondo luogo, perché focalizza l'attenzione sulla facilità con cui la diversità individuale (Jewell è sicuramente un po' sociopatico e a tratti borderline rispetto al concetto di normalità sociale generalmente accettato) diventa quasi automaticamente prova di colpevolezza.
Infine, a me pare che Eastwood nei suoi ultimi film stia facendo i conti con lo stesso universo di valori al quale appartiene per denunciarne la degenerazione. Jewell in fondo è un perfetto rappresentante di quell'America repubblicana e conservatrice a cui lo stesso Eastwood appartiene: crede nell'ordine sociale affidato agli uomini in divisa e nella necessità delle armi, nel rispetto dell'autorità e delle regole, valori che sono compatibili con il senso della giustizia e con la difesa dei più deboli. Ma quello che Eastwood sembra volerci dire è che i maggiori esponenti di quell'ordine sociale che Jewell cerca di difendere, il governo, le forze dell'ordine, i media non si muovono più all'interno di un sistema di valori che ne guidi le azioni, bensì sulla base di pregiudizi e semplificazioni. In un certo senso Eastwood parla alla "sua stessa gente", ma al contempo chiama in causa ciascuno di noi e la società tutta.
Voto: 3,5/5
lunedì 24 febbraio 2020
Judy
Per completare il mio personale percorso tra i film protagonisti degli Oscar di quest'anno, vado a vedere Judy, il film diretto da Rupert Goold e interpretato da Renée Zellweger, che per questa interpretazione ha vinto sia il Golden Globe che l'Oscar.
Il film è la storia dell'ultimo periodo della vita della cantante e attrice Judy Garland, figlia d'arte, attiva nel mondo dello spettacolo fin da piccolissima e portata al successo internazionale dal film Il mago di Oz in cui interpretava, sedicenne, la protagonista Dorothy.
Nella pellicola di Goold Judy ha quattro matrimoni alle spalle, tre figli (di cui Liza già grande), è piena di debiti e fa fatica a trovare un ingaggio perché è considerata inaffidabile, in quanto spesso sotto l'effetto di alcol e droga (nonché dipendente dai sonniferi che le sono stati somministrati fin dai tempi in cui interpretava Dorothy).
Quando le viene proposto un tour a Londra, Judy decide alla fine di accettare anche se questo significa allontanarsi dagli amatissimi figli, in particolare i due più piccoli che restano con il padre Sid (Rufus Sewell). A Londra Judy sperimenta l'amore intatto del pubblico, ma anche la difficoltà personale a garantire performance sempre all'altezza della sua fama, alternando picchi di entusiasmo e di grande sintonia con il mondo circostante (e in uno di questi momenti si unisce in matrimonio con il giovane Mickey) e fasi depressive in cui affoga la tristezza nell'alcol e calma le ansie con i sonniferi.
Il film si sofferma ampiamente sulle grandi qualità performative della Garland, una cantante sopraffina e una donna di spettacolo a 360°, ma ancora di più prova ad andare in profondità nella sua vita intima e nella sua personalità, mettendone in evidenza la solitudine profonda, le fragilità, il quasi patologico bisogno di essere amata. È struggente a questo proposito - e forse è uno dei passaggi migliori del film - la serata che Judy trascorre dopo un suo spettacolo con una coppia (gay) di suoi fans, che alfine la accolgono a casa come fosse una persona di famiglia, quella famiglia che Judy da sempre cerca e che in fondo non ha mai trovato stabilmente.
Il film di Goold riconduce - forse in maniera un po' meccanica - le fragilità affettive e le dipendenze di Judy al periodo in cui girava Il mago di Oz e il produttore del film, Louis B. Mayer, vero padre e padrone su un set in cui il regista era cambiato 5 volte, la sottoponeva a varie forme di angherie e di pressioni pratiche e psicologiche per garantirsi di portare a casa il risultato. Goold sembra dunque suggerire che la pellicola che l'ha portata al successo è stata anche una condanna per la vita adulta di Judy.
Il risultato cinematografico di questa operazione è dignitoso e a tratti anche commovente e suggestivo, ma senza la recitazione di Renée Zellweger - che personalmente ho apprezzato per l'intensità emotiva, ma non sono in grado di valutare in termini di confronto con il modello - probabilmente finirebbe consegnato alla storia come un biopic ben fatto ma senza picchi di originalità.
Voto: 3/5
Il film è la storia dell'ultimo periodo della vita della cantante e attrice Judy Garland, figlia d'arte, attiva nel mondo dello spettacolo fin da piccolissima e portata al successo internazionale dal film Il mago di Oz in cui interpretava, sedicenne, la protagonista Dorothy.
Nella pellicola di Goold Judy ha quattro matrimoni alle spalle, tre figli (di cui Liza già grande), è piena di debiti e fa fatica a trovare un ingaggio perché è considerata inaffidabile, in quanto spesso sotto l'effetto di alcol e droga (nonché dipendente dai sonniferi che le sono stati somministrati fin dai tempi in cui interpretava Dorothy).
Quando le viene proposto un tour a Londra, Judy decide alla fine di accettare anche se questo significa allontanarsi dagli amatissimi figli, in particolare i due più piccoli che restano con il padre Sid (Rufus Sewell). A Londra Judy sperimenta l'amore intatto del pubblico, ma anche la difficoltà personale a garantire performance sempre all'altezza della sua fama, alternando picchi di entusiasmo e di grande sintonia con il mondo circostante (e in uno di questi momenti si unisce in matrimonio con il giovane Mickey) e fasi depressive in cui affoga la tristezza nell'alcol e calma le ansie con i sonniferi.
Il film si sofferma ampiamente sulle grandi qualità performative della Garland, una cantante sopraffina e una donna di spettacolo a 360°, ma ancora di più prova ad andare in profondità nella sua vita intima e nella sua personalità, mettendone in evidenza la solitudine profonda, le fragilità, il quasi patologico bisogno di essere amata. È struggente a questo proposito - e forse è uno dei passaggi migliori del film - la serata che Judy trascorre dopo un suo spettacolo con una coppia (gay) di suoi fans, che alfine la accolgono a casa come fosse una persona di famiglia, quella famiglia che Judy da sempre cerca e che in fondo non ha mai trovato stabilmente.
Il film di Goold riconduce - forse in maniera un po' meccanica - le fragilità affettive e le dipendenze di Judy al periodo in cui girava Il mago di Oz e il produttore del film, Louis B. Mayer, vero padre e padrone su un set in cui il regista era cambiato 5 volte, la sottoponeva a varie forme di angherie e di pressioni pratiche e psicologiche per garantirsi di portare a casa il risultato. Goold sembra dunque suggerire che la pellicola che l'ha portata al successo è stata anche una condanna per la vita adulta di Judy.
Il risultato cinematografico di questa operazione è dignitoso e a tratti anche commovente e suggestivo, ma senza la recitazione di Renée Zellweger - che personalmente ho apprezzato per l'intensità emotiva, ma non sono in grado di valutare in termini di confronto con il modello - probabilmente finirebbe consegnato alla storia come un biopic ben fatto ma senza picchi di originalità.
Voto: 3/5
venerdì 21 febbraio 2020
Nel tempo degli dei. Il calzolaio di Ulisse / di Marco Paolini. Bologna, Teatro Arena del Sole, 7 febbraio 2020
Dopo qualche anno di assenza dalle scene a causa dei noti problemi di carattere personale che lo hanno coinvolto, Marco Paolini torna finalmente al suo pubblico con un nuovo spettacolo teatrale che vede protagonista l'eroe omerico.
Con la splendida regia di Gabriele Vacis e le magnifiche scenografie (penso agli specchi sospesi sul fondo del palco, che fungono anche da gong, e alla pioggia di luccicanti coperte isotermiche a un certo punto dello spettacolo), Marco Paolini impersona un Ulisse ormai anziano, che con un remo in spalla e seguito da un ragazzo che non apre bocca, è in cammino su un sentiero di montagna diretto non si sa bene dove. Su questo sentiero incontrerà un giovane pastore di capre che gli chiederà di raccontare la sua storia. Ulisse non è incline a rivelare la propria identità - dice infatti di essere "il calzolaio di Ulisse" - ed è reticente al racconto, ma a poco a poco - e a seguito di varie contrattazioni con il giovane - emergono prima frammenti e poi stralci sempre più ampi della vicenda che lo ha portato da Troia alle lunghe peregrinazioni nel Mediterraneo e infine a Itaca.
Si scoprirà solo più avanti che il giovane che lo segue è suo figlio Telemaco, che il pastore di capre è il dio Hermes e che il sentiero che Ulisse sta percorrendo è quello che conduce allo Chalet Olimpo, dove gli dei stanno organizzando una festa.
Sul palco, insieme a questi tre personaggi, un ulteriore, piccolo palco dove una band composta da Saba Anglana, Elisabetta Bosio, Vittorio Cerroni, Lorenzo Monguzzi, Elia Tapognani commenta musicalmente il racconto con musiche originali di Lorenzo Monguzzi e alcune cover, come ad esempio As tears go by dei Rolling Stones. I musicisti e cantanti sono di volta in volta anche interpreti, in particolare Vittorio Cerroni interpreta Hermes, ma a turno anche tutti gli altri interloquiscono con Ulisse: ad esempio Saba Anglana sarà Penelope nell'ultima parte dello spettacolo.
Pur dentro una cornice narrativa che potremmo definire postmoderna e con un testo che mescola antico e moderno e che gioca con le parole, strappando anche qualche risata, la narrazione della vicenda di Odisseo è piuttosto fedele all'originale omerico, sebbene su alcuni episodi ci si soffermi poco o si accenni solo di sfuggita, dedicando invece più spazio e attenzione ad altri, in particolare al ritorno a Itaca. Personalmente ho trovato quest'ultima parte un po' troppo tirata per le lunghe, anche se posso comprendere che ad essa viene affidato un ruolo importante nella trasmissione del messaggio insito nello spettacolo.
Il focus del testo è la demitizzazione dell'eroe omerico, di cui viene più volte sottolineato non solo il coraggio e la tenacia, ma anche la brutalità con cui ha ucciso nel suo viaggio centinaia di persone, e non sempre per necessità. Il culmine di questo climax di violenza lo si raggiunge con l'ecatombe dei Proci e l'impiccagione delle ancelle che si erano loro concesse.
Questa spietatezza, la cui responsabilità non viene certo abbonata a Ulisse, dal momento che - come spesso fanno gli uomini - si è talvolta atteggiato lui stesso a dio decidendo del destino altrui, è però anche e soprattutto attribuita alla superficialità e al capriccio di questi dei infantili e senza scrupoli che si divertono a giocare con la vita degli esseri umani, senza mai pagarne le conseguenze. E dunque forse Ulisse sta percorrendo il sentiero verso lo Chalet Olimpo per chiudere questo conto.
Lo spettacolo di Paolini rispetto ai suoi precedenti contiene sicuramente molti elementi di novità, prima tra tutte la mescolanza del racconto con la musica, nonché una drammaturgia più articolata e parecchio distante dal classico teatro di parola di cui Paolini è uno dei massimi interpreti. Il risultato è affascinante e godibile, sicuramente molto didattico (e non a caso nel pubblico ci sono moltissimi giovani), ma forse meno dirompente di altre sue prove.
Voto: 3,5/5
Con la splendida regia di Gabriele Vacis e le magnifiche scenografie (penso agli specchi sospesi sul fondo del palco, che fungono anche da gong, e alla pioggia di luccicanti coperte isotermiche a un certo punto dello spettacolo), Marco Paolini impersona un Ulisse ormai anziano, che con un remo in spalla e seguito da un ragazzo che non apre bocca, è in cammino su un sentiero di montagna diretto non si sa bene dove. Su questo sentiero incontrerà un giovane pastore di capre che gli chiederà di raccontare la sua storia. Ulisse non è incline a rivelare la propria identità - dice infatti di essere "il calzolaio di Ulisse" - ed è reticente al racconto, ma a poco a poco - e a seguito di varie contrattazioni con il giovane - emergono prima frammenti e poi stralci sempre più ampi della vicenda che lo ha portato da Troia alle lunghe peregrinazioni nel Mediterraneo e infine a Itaca.
Si scoprirà solo più avanti che il giovane che lo segue è suo figlio Telemaco, che il pastore di capre è il dio Hermes e che il sentiero che Ulisse sta percorrendo è quello che conduce allo Chalet Olimpo, dove gli dei stanno organizzando una festa.
Sul palco, insieme a questi tre personaggi, un ulteriore, piccolo palco dove una band composta da Saba Anglana, Elisabetta Bosio, Vittorio Cerroni, Lorenzo Monguzzi, Elia Tapognani commenta musicalmente il racconto con musiche originali di Lorenzo Monguzzi e alcune cover, come ad esempio As tears go by dei Rolling Stones. I musicisti e cantanti sono di volta in volta anche interpreti, in particolare Vittorio Cerroni interpreta Hermes, ma a turno anche tutti gli altri interloquiscono con Ulisse: ad esempio Saba Anglana sarà Penelope nell'ultima parte dello spettacolo.
Pur dentro una cornice narrativa che potremmo definire postmoderna e con un testo che mescola antico e moderno e che gioca con le parole, strappando anche qualche risata, la narrazione della vicenda di Odisseo è piuttosto fedele all'originale omerico, sebbene su alcuni episodi ci si soffermi poco o si accenni solo di sfuggita, dedicando invece più spazio e attenzione ad altri, in particolare al ritorno a Itaca. Personalmente ho trovato quest'ultima parte un po' troppo tirata per le lunghe, anche se posso comprendere che ad essa viene affidato un ruolo importante nella trasmissione del messaggio insito nello spettacolo.
Il focus del testo è la demitizzazione dell'eroe omerico, di cui viene più volte sottolineato non solo il coraggio e la tenacia, ma anche la brutalità con cui ha ucciso nel suo viaggio centinaia di persone, e non sempre per necessità. Il culmine di questo climax di violenza lo si raggiunge con l'ecatombe dei Proci e l'impiccagione delle ancelle che si erano loro concesse.
Questa spietatezza, la cui responsabilità non viene certo abbonata a Ulisse, dal momento che - come spesso fanno gli uomini - si è talvolta atteggiato lui stesso a dio decidendo del destino altrui, è però anche e soprattutto attribuita alla superficialità e al capriccio di questi dei infantili e senza scrupoli che si divertono a giocare con la vita degli esseri umani, senza mai pagarne le conseguenze. E dunque forse Ulisse sta percorrendo il sentiero verso lo Chalet Olimpo per chiudere questo conto.
Lo spettacolo di Paolini rispetto ai suoi precedenti contiene sicuramente molti elementi di novità, prima tra tutte la mescolanza del racconto con la musica, nonché una drammaturgia più articolata e parecchio distante dal classico teatro di parola di cui Paolini è uno dei massimi interpreti. Il risultato è affascinante e godibile, sicuramente molto didattico (e non a caso nel pubblico ci sono moltissimi giovani), ma forse meno dirompente di altre sue prove.
Voto: 3,5/5
mercoledì 19 febbraio 2020
La commedia della vanità / di Elias Canetti. Teatro Argentina, 4 febbraio 2020
La messa in scena dell'opera di Elias Canetti La commedia della vanità da parte del regista Claudio Longhi è un lavoro imponente da tutti i punti di vista. Dura quasi tre ore e mezza (articolandosi su tre atti), porta sul palco 23 attori, capeggiati dal bravissimo Fausto Russo Alesi, più 2 musicisti, si avvale di una scenografia sontuosa che fa pensare a un circo al cui centro c'è una specie di gabbia di metallo, nonché di video realizzati appositamente per lo spettacolo e costumi studiati con grande attenzione e realizzati con grande originalità. Inoltre la rappresentazione prevede non solo l'utilizzo del palco, bensì anche della platea e dei palchetti ai vari piani, tutti spazi che in vari momenti dello spettacolo vengono utilizzati dagli attori durante l'azione.
All'interno di questa confezione così importante, grande è anche il lavoro fatto per l'adattamento del testo di Elias Canetti che racconta di un mondo distopico, nel quale chi governa emana un editto per bandire specchi, fotografie e opere d'arte che rimandino agli esseri umani l'immagine di sé stessi allo scopo di combattere il grande male della vanità.
La prima parte dello spettacolo vede l'entrata in scena, a uno a uno o in piccoli gruppi, di tutti i personaggi, come fossero davvero gli attori freak di un circo Barnum. L'atmosfera è festosa ma grottesca, e tutta l'azione ruota intorno al fuoco verso il quale tutti convergono per bruciare fotografie e specchi. In un certo senso, alla fine di questa prima parte si ha l'impressione di aver assistito a una festa macabra, ma pur sempre a una festa.
Nella seconda parte, l'atmosfera cambia: la dittatura della lotta alla vanità ha portato con sé effetti distorsivi e conseguenze emotive sui protagonisti, che diventeranno espliciti nella terza parte dello spettacolo in cui questi uomini e queste donne avranno completamente perso la propria identità e saranno costretti a ricorrere a un sanatorio fatto solo di specchi.
Sul piano dei contenuti mi fermo qui, perché - devo essere sincera - mentre ho seguito bene e con attenzione la prima parte dello spettacolo, sulla seconda e la terza ho avuto sempre maggiori difficoltà a seguire dialoghi e discorsi sempre più complessi e alienanti (oltre che alienati), cosicché è diventato complicato star dietro al turbinio dell'azione (in cui tra l'altro gli attori interpretano personaggi diversi).
A un certo punto, durante la terza parte, in un momento in cui la platea era parzialmente illuminata mi sono guardata intorno, e - oltre alle numerose poltrone svuotate delle persone che erano andate via prima - ho visto molte teste ripiegate su sé stesse e facce stravolte. E pure io e F. non abbiamo potuto sfuggire a momenti di crollo che hanno reso ancora più difficile seguire un racconto di per sé stesso complesso e denso.
Non mi è sfuggito il senso complessivo del testo di Canetti (che ovviamente può facilmente essere messo in relazione con il presente e con gli onnipresenti selfie), né la sontuosità dello spettacolo di Longhi e la bravura degli attori nell'interpretare questi personaggi un po' estremi e talvolta disturbanti o disturbati, ma non posso certo dire di essere riuscita a tenere viva l'attenzione per l'intera durata dello spettacolo.
Cosicché molte cose mi si sono chiarite solo l'indomani quando mi sono letta il programma di scena, molto interessante e molto ricco di approfondimenti, e un po' di recensioni. Per onestà intellettuale, evito dunque di dare un voto a qualcosa che forse sta al di là della mia capacità di valutazione. Quello che posso dire è che forse si tratta di uno spettacolo che pecca un po' di ambizione.
Voto: ?/5
All'interno di questa confezione così importante, grande è anche il lavoro fatto per l'adattamento del testo di Elias Canetti che racconta di un mondo distopico, nel quale chi governa emana un editto per bandire specchi, fotografie e opere d'arte che rimandino agli esseri umani l'immagine di sé stessi allo scopo di combattere il grande male della vanità.
La prima parte dello spettacolo vede l'entrata in scena, a uno a uno o in piccoli gruppi, di tutti i personaggi, come fossero davvero gli attori freak di un circo Barnum. L'atmosfera è festosa ma grottesca, e tutta l'azione ruota intorno al fuoco verso il quale tutti convergono per bruciare fotografie e specchi. In un certo senso, alla fine di questa prima parte si ha l'impressione di aver assistito a una festa macabra, ma pur sempre a una festa.
Nella seconda parte, l'atmosfera cambia: la dittatura della lotta alla vanità ha portato con sé effetti distorsivi e conseguenze emotive sui protagonisti, che diventeranno espliciti nella terza parte dello spettacolo in cui questi uomini e queste donne avranno completamente perso la propria identità e saranno costretti a ricorrere a un sanatorio fatto solo di specchi.
Sul piano dei contenuti mi fermo qui, perché - devo essere sincera - mentre ho seguito bene e con attenzione la prima parte dello spettacolo, sulla seconda e la terza ho avuto sempre maggiori difficoltà a seguire dialoghi e discorsi sempre più complessi e alienanti (oltre che alienati), cosicché è diventato complicato star dietro al turbinio dell'azione (in cui tra l'altro gli attori interpretano personaggi diversi).
A un certo punto, durante la terza parte, in un momento in cui la platea era parzialmente illuminata mi sono guardata intorno, e - oltre alle numerose poltrone svuotate delle persone che erano andate via prima - ho visto molte teste ripiegate su sé stesse e facce stravolte. E pure io e F. non abbiamo potuto sfuggire a momenti di crollo che hanno reso ancora più difficile seguire un racconto di per sé stesso complesso e denso.
Non mi è sfuggito il senso complessivo del testo di Canetti (che ovviamente può facilmente essere messo in relazione con il presente e con gli onnipresenti selfie), né la sontuosità dello spettacolo di Longhi e la bravura degli attori nell'interpretare questi personaggi un po' estremi e talvolta disturbanti o disturbati, ma non posso certo dire di essere riuscita a tenere viva l'attenzione per l'intera durata dello spettacolo.
Cosicché molte cose mi si sono chiarite solo l'indomani quando mi sono letta il programma di scena, molto interessante e molto ricco di approfondimenti, e un po' di recensioni. Per onestà intellettuale, evito dunque di dare un voto a qualcosa che forse sta al di là della mia capacità di valutazione. Quello che posso dire è che forse si tratta di uno spettacolo che pecca un po' di ambizione.
Voto: ?/5
lunedì 17 febbraio 2020
Annie Leibovitz: life through lens
In occasione della mostra Metropoli dedicata al lavoro fotografico di Gabriele Basilico (e che conto di vedere al più presto), il Palazzo delle Esposizioni ha organizzato un ciclo di incontri e di proiezioni intitolato "La democrazia dello sguardo". Il programma è molto interessante, ma - considerati tutti gli altri impegni - io riesco ad andare solo alla proiezione del documentario dedicato alla fotografa americana Annie Leibovitz, Life through lens.
Il documentario racconta la vita della fotografa attraverso la sua carriera, dall'esordio con la rivista "Rolling Stone" alla fama internazionale legata soprattutto ai ritratti ambientati di personaggi famosi e star di varia provenienza. In questo percorso non manca il richiamo agli eventi importanti della sua vita personale: la numerosa famiglia di provenienza, la dipendenza dalla droga e la successiva disintossicazione, l'incontro con Susan Sontag e la lunga storia con lei, i tre figli.
L'idea che passa attraverso il film - e che la stessa Leibovitz per prima avalla - è che non esiste una vera separazione nella sua vita tra la persona e la fotografa, perché tutto della sua vita è passato attraverso la macchina fotografica. Non a caso il film è anche l'occasione per guardare alla sua produzione fotografica in maniera più ampia, al di là dei confini della fotografia di moda e di quella dello star system, per conoscere da un lato i suoi reportage più impegnati, dall'altro le sue attività fotografiche più private e intime.
Belle anche le interviste ai numerosi cantanti, attori, politici, ballerini da lei fotografati, che ne raccontano lo stile relazionale e fotografico, in particolare la sua straordinaria capacità di entrare nella loro quotidianità rendendo praticamente invisibile la sua macchina fotografica e facendo dimenticare la presenza dell'obiettivo. Molto interessanti anche le storie che si nascondono dietro alcune delle sue fotografie più famose, come ad esempio quella dell'abbraccio tra sul letto tra Yoko Ono e un John Lennon nudo e rannicchiato.
Dal punto di vista cinematografico, il documentario - diretto dalla sorella di Annie, Barbara - non mi ha molto convinto con il suo montaggio nervoso e un po' disordinato. La visione è però consigliabile a tutti coloro che abbiano un qualche interesse nella fotografia e vogliano approfondire un personaggio importante della storia fotografica recente qual è Annie Leibovitz.
Voto: 3/5
Il documentario racconta la vita della fotografa attraverso la sua carriera, dall'esordio con la rivista "Rolling Stone" alla fama internazionale legata soprattutto ai ritratti ambientati di personaggi famosi e star di varia provenienza. In questo percorso non manca il richiamo agli eventi importanti della sua vita personale: la numerosa famiglia di provenienza, la dipendenza dalla droga e la successiva disintossicazione, l'incontro con Susan Sontag e la lunga storia con lei, i tre figli.
L'idea che passa attraverso il film - e che la stessa Leibovitz per prima avalla - è che non esiste una vera separazione nella sua vita tra la persona e la fotografa, perché tutto della sua vita è passato attraverso la macchina fotografica. Non a caso il film è anche l'occasione per guardare alla sua produzione fotografica in maniera più ampia, al di là dei confini della fotografia di moda e di quella dello star system, per conoscere da un lato i suoi reportage più impegnati, dall'altro le sue attività fotografiche più private e intime.
Belle anche le interviste ai numerosi cantanti, attori, politici, ballerini da lei fotografati, che ne raccontano lo stile relazionale e fotografico, in particolare la sua straordinaria capacità di entrare nella loro quotidianità rendendo praticamente invisibile la sua macchina fotografica e facendo dimenticare la presenza dell'obiettivo. Molto interessanti anche le storie che si nascondono dietro alcune delle sue fotografie più famose, come ad esempio quella dell'abbraccio tra sul letto tra Yoko Ono e un John Lennon nudo e rannicchiato.
Dal punto di vista cinematografico, il documentario - diretto dalla sorella di Annie, Barbara - non mi ha molto convinto con il suo montaggio nervoso e un po' disordinato. La visione è però consigliabile a tutti coloro che abbiano un qualche interesse nella fotografia e vogliano approfondire un personaggio importante della storia fotografica recente qual è Annie Leibovitz.
Voto: 3/5
sabato 15 febbraio 2020
La ragazza d'autunno
Dopo il notevole Tesnota, Kantemir Balagov, regista russo giovanissimo, allievo di Sokurov, torna al cinema con questo nuovo dramma, ambientato a Leningrado nel 1945.
La guerra è finita, ma la città porta i segni visibili del lungo assedio che ha vissuto e che l'ha lasciata nella povertà e nella fame, mentre i reduci del fronte tornano feriti e menomati.
Iya (Viktoria Miroshnichenko), una ragazza altissima e un po' impacciata nei movimenti, lavora in ospedale dopo essere tornata dalla guerra a causa di un disturbo post-traumatico, e si occupa di Pashka, che - come scopriremo - non è suo figlio, ma il figlio di Masha (Vasilisa Perelygina), una sua amica che è ancora al fronte.
La prima parte del film racconta il mondo di Iya con un punto di vista relativamente largo gettando lo sguardo sulla realtà che la circonda; poi, dopo il drammatico punto di svolta della morte di Pashka e del ritorno dalla guerra di Masha, anche lei traumatizzata dall'esperienza e determinata a far nascere una nuova vita anche se lei non può procreare, lo sguardo si fa sempre più claustrofobico e concentrato sulle due protagoniste. Man mano si delinea un punto di vista duale che oscilla cromaticamente tra il verde smeraldo (colore che caratterizza Iya) e il rosso (il colore di Masha, a partire dai capelli), colori che - oltre ad avere un forte impatto visivo (grande merito va attribuito alla giovanissima fotografa Ksenia Sereda e allo scenografo Sergei Ivanov) - ha certamente un forte valore simbolico per la cultura russa e non a caso sono due dei colori caratteristici delle icone: il rosso è il sangue, la vita e la morte, il verde è la rinascita e la fertilità. Si tratta peraltro di colori che richiamano molte associazioni mentali e significati per il pubblico di qualunque cultura e provenienza.
Man mano che il rapporto tra le due donne si fa sempre più morboso e manipolatorio, la sensazione dello spettatore è che un cerchio si stringa sempre di più intorno a loro, determinando una forma di osmosi quasi malata che si manifesta visivamente attraverso il transitare, a poco a poco e per gradi, del rosso da Masha a Iya e del verde da Iya a Masha.
Il mondo raccontato da Balagov è un mondo in macerie dal punto di vista materiale e psicologico. Né le due ragazze né alcuno dei personaggi che ruotano intorno a loro può sfuggire alla devastazione fisica ed emotiva che la guerra si è portata dietro.
Forse c'è un po' di maniera nella ricostruzione degli ambienti e nella rappresentazione di questo mondo del passato, ma Balagov conferma di possedere un'arte registica sopraffina, e riesce a incastonare in una realtà che appartiene al passato temi che oggi consideriamo contemporanei, ma che invece il regista ci dimostra appartenere all'umanità in quanto tale e alla sua storia.
Il film di Balagov è anche un modo diverso di raccontare la guerra, non parlando o mostrando quello che avviene al fronte, ma spostando l'obiettivo su quello che la guerra, una volta terminata, lascia dietro di sé.
La visione de La ragazza d'autunno è - come si può immaginare - impegnativa sul piano intellettuale ed emotivo, e forse potrà non essere apprezzata da tutti. Ma i cinefili non possono assolutamente perdere questo appuntamento.
Voto: 4/5
La guerra è finita, ma la città porta i segni visibili del lungo assedio che ha vissuto e che l'ha lasciata nella povertà e nella fame, mentre i reduci del fronte tornano feriti e menomati.
Iya (Viktoria Miroshnichenko), una ragazza altissima e un po' impacciata nei movimenti, lavora in ospedale dopo essere tornata dalla guerra a causa di un disturbo post-traumatico, e si occupa di Pashka, che - come scopriremo - non è suo figlio, ma il figlio di Masha (Vasilisa Perelygina), una sua amica che è ancora al fronte.
La prima parte del film racconta il mondo di Iya con un punto di vista relativamente largo gettando lo sguardo sulla realtà che la circonda; poi, dopo il drammatico punto di svolta della morte di Pashka e del ritorno dalla guerra di Masha, anche lei traumatizzata dall'esperienza e determinata a far nascere una nuova vita anche se lei non può procreare, lo sguardo si fa sempre più claustrofobico e concentrato sulle due protagoniste. Man mano si delinea un punto di vista duale che oscilla cromaticamente tra il verde smeraldo (colore che caratterizza Iya) e il rosso (il colore di Masha, a partire dai capelli), colori che - oltre ad avere un forte impatto visivo (grande merito va attribuito alla giovanissima fotografa Ksenia Sereda e allo scenografo Sergei Ivanov) - ha certamente un forte valore simbolico per la cultura russa e non a caso sono due dei colori caratteristici delle icone: il rosso è il sangue, la vita e la morte, il verde è la rinascita e la fertilità. Si tratta peraltro di colori che richiamano molte associazioni mentali e significati per il pubblico di qualunque cultura e provenienza.
Man mano che il rapporto tra le due donne si fa sempre più morboso e manipolatorio, la sensazione dello spettatore è che un cerchio si stringa sempre di più intorno a loro, determinando una forma di osmosi quasi malata che si manifesta visivamente attraverso il transitare, a poco a poco e per gradi, del rosso da Masha a Iya e del verde da Iya a Masha.
Il mondo raccontato da Balagov è un mondo in macerie dal punto di vista materiale e psicologico. Né le due ragazze né alcuno dei personaggi che ruotano intorno a loro può sfuggire alla devastazione fisica ed emotiva che la guerra si è portata dietro.
Forse c'è un po' di maniera nella ricostruzione degli ambienti e nella rappresentazione di questo mondo del passato, ma Balagov conferma di possedere un'arte registica sopraffina, e riesce a incastonare in una realtà che appartiene al passato temi che oggi consideriamo contemporanei, ma che invece il regista ci dimostra appartenere all'umanità in quanto tale e alla sua storia.
Il film di Balagov è anche un modo diverso di raccontare la guerra, non parlando o mostrando quello che avviene al fronte, ma spostando l'obiettivo su quello che la guerra, una volta terminata, lascia dietro di sé.
La visione de La ragazza d'autunno è - come si può immaginare - impegnativa sul piano intellettuale ed emotivo, e forse potrà non essere apprezzata da tutti. Ma i cinefili non possono assolutamente perdere questo appuntamento.
Voto: 4/5
mercoledì 12 febbraio 2020
Le braci / con Renato Carpentieri e Stefano Jotti. Teatro Piccolo Eliseo, 26 gennaio 2020
Ho amato molto a suo tempo il libro di Sàndor Màrai, tanto da aver deciso di leggere anche altri romanzi dello scrittore ungherese. Cosicché quando ho saputo della trasposizione teatrale de Le braci non mi sono lasciata sfuggire l'occasione di andare a vedere lo spettacolo diretto da Laura Angiulli e interpretato da Renato Carpentieri e Stefano Jotti.
La scenografia è interessante: l'angolo di una stanza primonovecentesca con quattro poltroncine, un tavolino, una stufa a legna. Su una parete, appoggiata al muro, una grande cornice vuota, che - si capirà più avanti - rappresenta il terzo personaggio della storia, assente; su un'altra parete, una porta che si spalanca per far entrare Henrik, il padrone di casa, il quale ha ricevuto una lettera che gli annuncia il ritorno dell'amico Konrad che non vede da quarant'anni e con cui ci sono dei nodi irrisolti.
Nel romanzo molta parte della narrazione avviene nella mente e nei ricordi di Henrik che, mentre attende il suo ospite, passa in rassegna quello che è accaduto in quel lontano passato e che ha condizionato la vita di tutti, una vicenda in cui una parte importante l'ha avuta la moglie di Henrik, Krisztina, morta ormai da molto tempo.
L'incontro tra i due avviene dunque solo alla fine del romanzo, quando Henrik ha già fatto il proprio scavo interiore e ha sottoposto il passato a un bilancio rispetto al quale il confronto con Konrad diventa quasi superfluo.
La scelta della regista - probabilmente anche per rendere la messa in scena più dialogica e movimentata - è quella di far entrare nell'azione Konrad quasi subito, trasformando un flusso di ricordi e un dialogo interiore in una conversazione vera e propria. L'esito, dal mio punto di vista, è poco convincente e credo che le cause siano diverse: da un lato, l'inevitabile semplificazione linguistica che ne deriva e che in parte toglie potenza alla scrittura di Màrai (in cui le parole sono ben più importanti delle trame), dall'altro, una recitazione per me non del tutto efficace, in particolare da parte di Stefano Jotti, che interpreta Konrad in un modo che oscilla tra l'ingessato e l'ammiccante.
Alla fine dello spettacolo - che dura circa un'ora - mi rendo conto di averci ritrovato poco delle emozioni che il libro di Màrai mi aveva trasmesso, e confrontandomi con le altre amiche che hanno letto il romanzo, constato che si tratta di una sensazione condivisa. Dunque, è molto probabile che l'operazione di trasposizione, certo non facile, sia riuscita solo in piccola parte.
Voto: 2/5
La scenografia è interessante: l'angolo di una stanza primonovecentesca con quattro poltroncine, un tavolino, una stufa a legna. Su una parete, appoggiata al muro, una grande cornice vuota, che - si capirà più avanti - rappresenta il terzo personaggio della storia, assente; su un'altra parete, una porta che si spalanca per far entrare Henrik, il padrone di casa, il quale ha ricevuto una lettera che gli annuncia il ritorno dell'amico Konrad che non vede da quarant'anni e con cui ci sono dei nodi irrisolti.
Nel romanzo molta parte della narrazione avviene nella mente e nei ricordi di Henrik che, mentre attende il suo ospite, passa in rassegna quello che è accaduto in quel lontano passato e che ha condizionato la vita di tutti, una vicenda in cui una parte importante l'ha avuta la moglie di Henrik, Krisztina, morta ormai da molto tempo.
L'incontro tra i due avviene dunque solo alla fine del romanzo, quando Henrik ha già fatto il proprio scavo interiore e ha sottoposto il passato a un bilancio rispetto al quale il confronto con Konrad diventa quasi superfluo.
La scelta della regista - probabilmente anche per rendere la messa in scena più dialogica e movimentata - è quella di far entrare nell'azione Konrad quasi subito, trasformando un flusso di ricordi e un dialogo interiore in una conversazione vera e propria. L'esito, dal mio punto di vista, è poco convincente e credo che le cause siano diverse: da un lato, l'inevitabile semplificazione linguistica che ne deriva e che in parte toglie potenza alla scrittura di Màrai (in cui le parole sono ben più importanti delle trame), dall'altro, una recitazione per me non del tutto efficace, in particolare da parte di Stefano Jotti, che interpreta Konrad in un modo che oscilla tra l'ingessato e l'ammiccante.
Alla fine dello spettacolo - che dura circa un'ora - mi rendo conto di averci ritrovato poco delle emozioni che il libro di Màrai mi aveva trasmesso, e confrontandomi con le altre amiche che hanno letto il romanzo, constato che si tratta di una sensazione condivisa. Dunque, è molto probabile che l'operazione di trasposizione, certo non facile, sia riuscita solo in piccola parte.
Voto: 2/5
lunedì 10 febbraio 2020
Santa subito
Alessandro Piva è un regista (mio conterraneo, e lo dico con orgoglio) che ha dimostrato - durante la sua ormai piuttosto lunga carriera cinematografica - di essere estremamente versatile: oltre ad aver realizzato film molto diversi tra loro (da Mio cognato a I milionari per esempio), Piva ha confermato nel tempo di essere anche in grado di passare dal cinema di finzione al documentario, mantenendo intatta la sua maestria.
Il suo ultimo lavoro, Santa subito, che ha vinto il Premio del pubblico alla Festa del cinema di Roma del 2019, appartiene appunto al genere del documentario, in quanto racconta la storia vera di Santa Scorese, una giovane che la sera del 15 marzo del 1991 fu pugnalata a Palo del Colle, il paese dove viveva con i genitori, da un ragazzo più grande di lei, con problemi psichiatrici, che la perseguitava da oltre tre anni, morendo durante la notte a soli 23 anni.
Piva, che è presente in sala all'Apollo 11 per presentare il suo film, ci dice che si è imbattuto in questa storia per caso, ma che la vicenda di Santa lo ha colpito così tanto - anche grazie al racconto della sorella Rosa Maria Scorese, presente essa stessa in sala - da aver deciso di raccontarla in un lungometraggio.
Il film è costruito soprattutto attraverso interviste: innanzitutto ai suoi familiari, i genitori di Santa e appunto sua sorella Rosa Maria, in secondo luogo agli amici e conoscenti che Santa ha frequentato durante la sua vita. Accanto alle interviste il racconto dà voce anche alle parole di Santa, grazie al diario e alle lettere che sua sorella Rosa Maria ha deciso di rendere pubbliche. Ne viene fuori il ritratto di una ragazza piena di vitalità e di forza che, giovanissima, aveva intrapreso un cammino di fede che l'aveva portata alla decisione di voler prendere i voti. Il contesto è quello della città di Bari e della provincia barese negli anni Ottanta, che poi è quello in cui anche io sono nata e cresciuta (Santa oggi avrebbe avuto pochi anni più di me).
Dunque nel film di Piva io personalmente riconosco tanti elementi che appartengono anche alla mia storia nonché una specie di sentimento collettivo e un modo di vivere la religiosità con cui a quel tempo sono entrata in contatto anche io, e che penso sia particolarmente tipica di quello specifico contesto.
Ci sono poi invece nella storia di Santa fattori che trascendono ampiamente il contesto nel quale viveva e che rendono la sua storia emblematica della difficoltà - invero ancora oggi niente affatto superata nonostante i progressi legislativi - della società e dello Stato nel proteggere una donna dalla persecuzione e dalla violenza di un uomo.
C'è sicuramente nel film di Piva questa denuncia, come è evidente dalla dedica che recita "a chi sopravvive", ma c'è molto di più, ossia l'adesione emotiva e l'empatia verso il dolore - dignitoso ma inestirpabile - di chi ha amato Santa e ha cercato di difenderla con tutti i mezzi che aveva a disposizione, in primis i suoi genitori, nonché il riconoscimento della forza d'animo che ha spinto Rosa Maria a diventare una testimone attiva della storia di sua sorella e a farne un monito e uno strumento per lavorare sul cambiamento di una società in cui la violenza sulle donne è purtroppo ancora una ferita costantemente aperta.
Una nota infine di apprezzamento anche per le musiche del film, del giovane compositore Mattia Vlad Morleo, e per la fotografia (meravigliosa una delle inquadrature iniziali su un terrazzo dipinto di calce bianca con i comignoli sullo sfondo di un cielo nero e gravido di pioggia su cui compaiono a uno a uno i componenti della famiglia Scorese).
Voto: 3,5/5
Il suo ultimo lavoro, Santa subito, che ha vinto il Premio del pubblico alla Festa del cinema di Roma del 2019, appartiene appunto al genere del documentario, in quanto racconta la storia vera di Santa Scorese, una giovane che la sera del 15 marzo del 1991 fu pugnalata a Palo del Colle, il paese dove viveva con i genitori, da un ragazzo più grande di lei, con problemi psichiatrici, che la perseguitava da oltre tre anni, morendo durante la notte a soli 23 anni.
Piva, che è presente in sala all'Apollo 11 per presentare il suo film, ci dice che si è imbattuto in questa storia per caso, ma che la vicenda di Santa lo ha colpito così tanto - anche grazie al racconto della sorella Rosa Maria Scorese, presente essa stessa in sala - da aver deciso di raccontarla in un lungometraggio.
Il film è costruito soprattutto attraverso interviste: innanzitutto ai suoi familiari, i genitori di Santa e appunto sua sorella Rosa Maria, in secondo luogo agli amici e conoscenti che Santa ha frequentato durante la sua vita. Accanto alle interviste il racconto dà voce anche alle parole di Santa, grazie al diario e alle lettere che sua sorella Rosa Maria ha deciso di rendere pubbliche. Ne viene fuori il ritratto di una ragazza piena di vitalità e di forza che, giovanissima, aveva intrapreso un cammino di fede che l'aveva portata alla decisione di voler prendere i voti. Il contesto è quello della città di Bari e della provincia barese negli anni Ottanta, che poi è quello in cui anche io sono nata e cresciuta (Santa oggi avrebbe avuto pochi anni più di me).
Dunque nel film di Piva io personalmente riconosco tanti elementi che appartengono anche alla mia storia nonché una specie di sentimento collettivo e un modo di vivere la religiosità con cui a quel tempo sono entrata in contatto anche io, e che penso sia particolarmente tipica di quello specifico contesto.
Ci sono poi invece nella storia di Santa fattori che trascendono ampiamente il contesto nel quale viveva e che rendono la sua storia emblematica della difficoltà - invero ancora oggi niente affatto superata nonostante i progressi legislativi - della società e dello Stato nel proteggere una donna dalla persecuzione e dalla violenza di un uomo.
C'è sicuramente nel film di Piva questa denuncia, come è evidente dalla dedica che recita "a chi sopravvive", ma c'è molto di più, ossia l'adesione emotiva e l'empatia verso il dolore - dignitoso ma inestirpabile - di chi ha amato Santa e ha cercato di difenderla con tutti i mezzi che aveva a disposizione, in primis i suoi genitori, nonché il riconoscimento della forza d'animo che ha spinto Rosa Maria a diventare una testimone attiva della storia di sua sorella e a farne un monito e uno strumento per lavorare sul cambiamento di una società in cui la violenza sulle donne è purtroppo ancora una ferita costantemente aperta.
Una nota infine di apprezzamento anche per le musiche del film, del giovane compositore Mattia Vlad Morleo, e per la fotografia (meravigliosa una delle inquadrature iniziali su un terrazzo dipinto di calce bianca con i comignoli sullo sfondo di un cielo nero e gravido di pioggia su cui compaiono a uno a uno i componenti della famiglia Scorese).
Voto: 3,5/5
venerdì 7 febbraio 2020
Si nota all’imbrunire / con Silvio Orlando. Teatro Quirino, 24 gennaio 2020
Silvio (Orlando) è un vedovo che si è ritirato a vivere in una casa di campagna in un paesino di pochi abitanti. La sua è diventata un’esistenza prevalentemente statica (Silvio sta per la maggior parte del tempo seduto) e costruita intorno a specifiche abitudini e piccole manie, che nella maggior parte dei casi non contemplano, anzi escludono l’interazione con altre persone.
In occasione però del suo compleanno e dell’anniversario della morte della moglie, arrivano a casa i figli, Maria (Maria Laura Rondanini), Alice (Redini) e Riccardo (Vincenzo Nemolato), nonché il fratello Roberto (Nobile).
Questa convivenza (più o meno forzata) porta alla luce tutte le dinamiche familiari, quella relativa al rapporto tra padre e figli, quella tra i fratelli Silvio e Roberto e, infine, quella tra i figli, ormai adulti, ognuno con la propria vita e le proprie complessità. Maria è pedante e depressa, convinta di poter salvare il mondo, Alice ha ambizioni da poetessa ma è frustrata da una sostanziale mancanza di creatività e si rifugia in un atteggiamento un po’ infantile, Riccardo vuole fare i soldi facilmente e senza lavorare; ognuno di loro alterna momenti di sintonia e altri di conflittualità con gli altri componenti della famiglia, a tratti rifugge e poi ritorna all’alveo familiare in una danza infinita che oscilla tra autonomia e dipendenza. Tutti hanno qualcosa da dire al loro padre, di cui non condividono la scelta di isolamento, esattamente come il fratello di lui, Roberto, sempre pronto a rintuzzare Silvio.
Lo spettacolo – in perfetto stile dramedy - si muove tra momenti leggeri e ironici, che fanno ridere e sorridere (anche grazie alla bella interpretazione di Silvio Orlando), e momenti drammatici e malinconici, che fanno riflettere e in cui tutti potranno riconoscere dinamiche familiari note e personali.
Il testo di Lucia Calamaro (che è anche la regista dello spettacolo) ha vinto il premio Ubu come miglior testo o nuovo progetto drammaturgico ed è anche una pubblicazione di Marsilio con il titolo Si nota all’imbrunire (Solitudine da paese spopolato).
La sua forza si gioca, oltre che sull’equilibrio tra ironia e malinconia, sul colpo di scena finale che in parte ribalta l’interpretazione della storia raccontata e conferisce a quanto visto e ascoltato un significato forse più complesso e sicuramente meno consolatorio, puntando l’attenzione sui rischi dell’isolamento sociale delle persone che si trovano nella condizione di Silvio.
A me il testo è piaciuto però molto di più nelle parti dedicate alla disamina dei rapporti familiari, agli approfondimenti dei profili psicologici individuali e ai rischi prodotti sugli equilibri familiari dall’irrisolutezza individuale e dal mancato rispetto verso le scelte altrui. La frase che a un certo punto Silvio dice in merito al fatto che bisognerebbe smettere di essere genitori e figli quando questi ultimi hanno 30-40 anni e diventare semmai parenti alla lontana o conoscenti è qualcosa di profondamente vero e su cui forse non si è ancora riflettuto abbastanza.
Molto meno mi sono piaciute le digressioni diciamo “di puro intrattenimento”, in particolare alcuni piccoli monologhi affidati al fratello Roberto, fors’anche perché non amo la recitazione molto spinta sulla macchietta di Roberto Nobile (già visto insieme a Silvio Orlando nella messa in scena di Lacci di Starnone).
Nel complesso un testo per me un po’ discontinuo, ma con diversi punti forti e vette narrative non certo scontate, e con una messa in scena pulita e registicamente efficace.
Osservo con F. che deve esserci in questo periodo la moda delle scenografie con le quinte (delle pareti semitrasparenti su cui si aprono porte e che simulano ambienti diversi e livelli narrativi a volte differenti), perché ultimamente ne abbiamo viste a teatro almeno tre (in questo spettacolo, in Zero e in Ditegli sempre di sì): belle, ma magari meglio non esagerare ;-)
Voto: 3,5/5
In occasione però del suo compleanno e dell’anniversario della morte della moglie, arrivano a casa i figli, Maria (Maria Laura Rondanini), Alice (Redini) e Riccardo (Vincenzo Nemolato), nonché il fratello Roberto (Nobile).
Questa convivenza (più o meno forzata) porta alla luce tutte le dinamiche familiari, quella relativa al rapporto tra padre e figli, quella tra i fratelli Silvio e Roberto e, infine, quella tra i figli, ormai adulti, ognuno con la propria vita e le proprie complessità. Maria è pedante e depressa, convinta di poter salvare il mondo, Alice ha ambizioni da poetessa ma è frustrata da una sostanziale mancanza di creatività e si rifugia in un atteggiamento un po’ infantile, Riccardo vuole fare i soldi facilmente e senza lavorare; ognuno di loro alterna momenti di sintonia e altri di conflittualità con gli altri componenti della famiglia, a tratti rifugge e poi ritorna all’alveo familiare in una danza infinita che oscilla tra autonomia e dipendenza. Tutti hanno qualcosa da dire al loro padre, di cui non condividono la scelta di isolamento, esattamente come il fratello di lui, Roberto, sempre pronto a rintuzzare Silvio.
Lo spettacolo – in perfetto stile dramedy - si muove tra momenti leggeri e ironici, che fanno ridere e sorridere (anche grazie alla bella interpretazione di Silvio Orlando), e momenti drammatici e malinconici, che fanno riflettere e in cui tutti potranno riconoscere dinamiche familiari note e personali.
Il testo di Lucia Calamaro (che è anche la regista dello spettacolo) ha vinto il premio Ubu come miglior testo o nuovo progetto drammaturgico ed è anche una pubblicazione di Marsilio con il titolo Si nota all’imbrunire (Solitudine da paese spopolato).
La sua forza si gioca, oltre che sull’equilibrio tra ironia e malinconia, sul colpo di scena finale che in parte ribalta l’interpretazione della storia raccontata e conferisce a quanto visto e ascoltato un significato forse più complesso e sicuramente meno consolatorio, puntando l’attenzione sui rischi dell’isolamento sociale delle persone che si trovano nella condizione di Silvio.
A me il testo è piaciuto però molto di più nelle parti dedicate alla disamina dei rapporti familiari, agli approfondimenti dei profili psicologici individuali e ai rischi prodotti sugli equilibri familiari dall’irrisolutezza individuale e dal mancato rispetto verso le scelte altrui. La frase che a un certo punto Silvio dice in merito al fatto che bisognerebbe smettere di essere genitori e figli quando questi ultimi hanno 30-40 anni e diventare semmai parenti alla lontana o conoscenti è qualcosa di profondamente vero e su cui forse non si è ancora riflettuto abbastanza.
Molto meno mi sono piaciute le digressioni diciamo “di puro intrattenimento”, in particolare alcuni piccoli monologhi affidati al fratello Roberto, fors’anche perché non amo la recitazione molto spinta sulla macchietta di Roberto Nobile (già visto insieme a Silvio Orlando nella messa in scena di Lacci di Starnone).
Nel complesso un testo per me un po’ discontinuo, ma con diversi punti forti e vette narrative non certo scontate, e con una messa in scena pulita e registicamente efficace.
Osservo con F. che deve esserci in questo periodo la moda delle scenografie con le quinte (delle pareti semitrasparenti su cui si aprono porte e che simulano ambienti diversi e livelli narrativi a volte differenti), perché ultimamente ne abbiamo viste a teatro almeno tre (in questo spettacolo, in Zero e in Ditegli sempre di sì): belle, ma magari meglio non esagerare ;-)
Voto: 3,5/5
giovedì 6 febbraio 2020
Marsiglia e la luce del Mediterraneo (II parte)
Marsiglia: il mercato del pesce al Vieux-Port |
5. Le Vieux-Port, Noailles e Cours Julien
Il secondo giorno della nostra vacanza marsigliese la dedichiamo alla scoperta di un'altra parte di Marsiglia, per avere uno sguardo più ampio e più completo su una città sfaccettata e dalle tante anime. Prima scendiamo al porto per vedere i banchetti della vendita del pesce. In realtà è già tardi, e ormai di banchetti ne sono rimasti pochi e sono più a vantaggio dei turisti e delle loro macchine fotografiche che degli abitanti della città, però la passeggiata resta comunque caratteristica.
Ci fermiamo poi sotto l'Ombrière-Miroir, la grande copertura a specchio di Norman Foster che crea curiosi riflessi e rifrazioni, e dove è affascinante anche solo trascorrere un po' di tempo e osservare e osservarsi in questo gioco di capovolgimenti e di integrazioni tra realtà e riflesso della stessa.
Marsiglia: l'Ombrière-Miroir |
Marsiglia: scendendo da Notre Dame de la Garde |
Marsiglia: mangiare all'Anse de la Fausse Monnaie |
6. Notre Dame de la Garde e la passeggiata lungo la Corniche e le anse
Dal vecchio porto, con il comodissimo autobus n. 60 (grazie Google maps!), raggiungiamo Notre Dame de la Garde, la chiesa che domina e protegge la città ed è visibile praticamente da ogni sua parte. Da qui è possibile godere di una spettacolare vista a 360° sulla città e sul paesaggio circostante (in particolare Chateau d'If e Isole del Frioul), anche perché è una giornata limpidissima.
Marsiglia: Tramonto alla Plage des Catalans |
L'Estaque |
L'ultimo giorno di permanenza a Marsiglia lo dedichiamo alle "gite fuori porta". Prendiamo la macchina e prima andiamo a L'Estaque, il villaggio di pescatori ora inglobato nella città reso celebre dai pittori che ci andavano per dipingere (Cezanne, Braque). Diciamo che non è rimasto molto di quello che era il villaggio, se non le stradine più interne, mentre sul lungomare c'è ormai un porto affollatissimo di barche e subito a ridosso delle zone semindustriali.
Marsiglia: la Friche de la Belle de Mai |
Da qui in macchina ci dirigiamo prima nel quartiere Belle de Mai, dove ci fermiamo a vedere l'area della Friche, una vecchia fabbrica di tabacco che è stata trasformata in un luogo di arte, cultura e aggregazione. L'edificio è piuttosto spaventoso nelle sue dimensioni che sono difficilmente recuperabili nella loro interezza, ma le aree dello skatepark - completamente ricoperta di graffiti -, del treno trasformato in giostra per bambini, della terrazza con i tavolini a disposizione e del grande ristorante/pub (chiuso quando ci siamo state noi) sono parecchio affascinanti. Un'operazione interessante soprattutto perché inserita in un quartiere popolare e in parte un po' degradato.
Da qui non è molto distante il Palais Longchamp, un enorme (e il termine non rende l'enormità, soprattutto rispetto a quanto visto finora a Marsiglia) palazzo ottocentesco realizzato su un serbatoio dell'acqua (da cui sono state ricavate fontane e cascate), dove sono ospitati il Museo di Belle Arti e quello di Storia Naturale, ma i cui giardini sono pieni di gente che passeggia, legge e prende il sole.
Marsiglia: l'Unité d'Habitation |
La tappa successiva di questa giornata è l'Unité d'Habitation progettata da Le Corbusier come una struttura quasi autarchica, una specie di utopia urbanistica che nasce dal pensiero razionalista e che purtroppo - soprattutto in alcune realizzazioni successive - ha prodotto molti mostri e ghetti urbani. In realtà, quello di Le Corbusier non è un palazzo enorme come ci saremmo aspettate ed esteticamente non è affatto sgradevole. Entriamo e scopriamo che è possibile visitare alcuni piani (il terzo e il quarto in particolare) e le terrazze.
Marsiglia: terrazza dell'Unité d'Habitation |
Les Goudes: Ile Maïre |
L'ultima tappa della giornata è il parco nazionale dei Calanchi, verso Est. Ci dirigiamo in particolare a Les Goudes, il paesino di mare dove si rifugia spesso il protagonista dei romanzi di Izzo. Si tratta di un paese costruito nella striscia di terra tra la parete di un calanco e un'insenatura sul mare, molto caratteristico. È pieno di gente che passeggia e prende un caffè, noi riusciamo a farci dare da mangiare in uno dei ristoranti sul porto, anche se sono le 16.
Dopo pranzo facciamo una passeggiata a piedi sui calanchi per vedere anche oggi il tramonto dietro il profilo dell'Ile Maïre e godere del panorama sull'Île de Riou. Purtroppo la foschia non consente di vedere il sole scendere in acqua ma l'atmosfera è comunque affascinante e il cielo spettacolare.
Île de Riou |
11. Sensazioni e riflessioni
Il giorno seguente (dopo una notte funestata purtroppo dal virus intestinale) è già il momento di partire. Ma ci portiamo nel cuore la strepitosa luce di questa città, le sue tante anime, la sua attitudine al cambiamento, la sua - in fondo - ancora refrattarietà al turismo di massa (nonostante sia stata Capitale della Cultura), i suoi panorami sempre bellissimi, il suo essere una città da vivere e non dove inseguire cose da vedere imperdibili, la sua allure letteraria e cinematografica (ci hanno accompagnato i ricordi dei libri di Izzo, ma anche della de Kerangal, nonché le immagini dei film di Guédiguian).
Insomma un luogo da gustare e fare proprio.
Per un reportage fotografico più completo del viaggio si veda qui.
mercoledì 5 febbraio 2020
Wasted / di Kate Tempest. Teatro India, 21 gennaio 2020
Dopo aver proposto al pubblico romano nella scorsa stagione teatrale Settimo cielo di Caryl Churchill, Giorgina Pi mette in scena, sempre al Teatro India, il testo di un'altra autrice inglese, Kate Tempest, trentacinquenne figlia di un rappresentante della classe operaia londinese, lei rapper, poetessa, drammaturga e molto altro.
Wasted è un testo che racconta di tre amici: Ted (Gabriele Portoghese), Danny (Xhulio Petushi) e Charlie, i.e. Charlotte (Sylvia De Fanti). I tre si conoscono da quando erano bambini e hanno trascorso tutta l'adolescenza e la giovinezza insieme, tra eccessi, sogni, autenticità e divertimenti. Insieme a un quarto amico comune, formavano una band, come ci viene mostrato fin da subito con un video in bianco e nero in cui la band canta The end of the world, una canzone eseguita da Skeeter Davis nei primi anni Sessanta. Da allora però è passato parecchio tempo: le loro strade si sono in parte separate e le loro vite hanno preso direzioni che non sempre hanno coinciso con i sogni della giovinezza.
Ted, Danny e Charlie si rincontrano in una sala prove per ricordare il loro vecchio amico morto (non viene mai precisato in quali circostanze), e questa diventa per ciascuno di loro l'occasione di fare un bilancio della propria esistenza. Ted, che Portoghese interpreta in una forma quasi allucinata, è sposato e ha un lavoro fisso, che non ama ma che gli dà una tranquillità economica; Charlie insegna a scuola, ma alterna momenti di entusiasmo a fasi in cui vorrebbe abbandonare tutto; Danny invece ha continuato a suonare senza grande successo e si propone a più riprese di mettere la testa a posto. Tra l'altro tra Charlie e Danny c'è una relazione che affonda le radici nel passato ma che non ha mai fatto il salto verso qualcosa di serio e stabile.
Il testo originale di Kate Tempest ha una specifica connotazione dal punto di vista generazionale e culturale: i protagonisti del suo racconto sono dei venticinquenni che si muovono nel contesto della periferia londinese. Giorgina Pi ha però scelto di affidare i tre personaggi ad attori poco più che trentenni e ha adattato il testo in modo da sganciarlo da un contesto geografico specifico, per accentuarne i contenuti universali applicabili a qualunque realtà metropolitana.
Nella rilettura della Pi non si perde dunque la connotazione generazionale del resto, però - e secondo me anche giustamente - le riflessioni dei tre personaggi e la loro disillusione sulla vita vengono applicate a quella generazione che negli ultimi anni è stata oggetto di molti studi sociologici, e che in Italia è stata variamente definita come "generazione perduta" o anche "generazione galleggiante".
Resta intatto nella messa in scena della Pi il ruolo centrale che nel testo di Kate Tempest ha la musica, in quanto collante del rapporto tra i tre protagonisti, ma anche strumento di comunicazione: parti del testo sono recitate quasi fossero un "rap" corale e non mancano esecuzioni musicali dal vivo nel corso dello spettacolo (la Pi inserisce anche l'esecuzione della Donna cannone da parte di Gabriele Portoghese). A ulteriore rafforzamento del ruolo dell'elemento musicale la Pi sceglie di ambientare lo spettacolo e i dialoghi tra i protagonisti in una specie di sala prove, dove ci sono strumenti musicali e microfoni.
Lo spettacolo risulta nel complesso di grande impatto dal punto di vista visivo, grazie a un sapiente uso delle luci e ad alcune scelte registiche interessanti. Devo però dire che resto un po' allergica agli adattamenti di testi stranieri in cui si rimane a metà strada tra l'originale e la trasposizione (a me per esempio la Donna cannone è risultata totalmente decontestualizzata, anche se posso comprendere la scelta registica).
Infine, devo anche ammettere una mia crescente resistenza ai testi generazionali che raccontano quell'età in cui si guarda al passato come l'epoca in cui tutto poteva succedere e al presente come il momento della disillusione, per poi concluderne immancabilmente che non bisogna arrendersi a questo e continuare anche da adulti a coltivare i propri sogni. Ovviamente sto semplificando, ma a tratti il testo che ho ascoltato suona un po' così e sinceramente è un tipo di approccio che a me appare un po' abusato o forse è solo che io sono in un'età della vita in cui questa contrapposizione si è riconciliata e i sogni hanno trovato declinazioni meno grandiose ma tutto sommato più soddisfacenti.
Voto: 3/5
Wasted è un testo che racconta di tre amici: Ted (Gabriele Portoghese), Danny (Xhulio Petushi) e Charlie, i.e. Charlotte (Sylvia De Fanti). I tre si conoscono da quando erano bambini e hanno trascorso tutta l'adolescenza e la giovinezza insieme, tra eccessi, sogni, autenticità e divertimenti. Insieme a un quarto amico comune, formavano una band, come ci viene mostrato fin da subito con un video in bianco e nero in cui la band canta The end of the world, una canzone eseguita da Skeeter Davis nei primi anni Sessanta. Da allora però è passato parecchio tempo: le loro strade si sono in parte separate e le loro vite hanno preso direzioni che non sempre hanno coinciso con i sogni della giovinezza.
Ted, Danny e Charlie si rincontrano in una sala prove per ricordare il loro vecchio amico morto (non viene mai precisato in quali circostanze), e questa diventa per ciascuno di loro l'occasione di fare un bilancio della propria esistenza. Ted, che Portoghese interpreta in una forma quasi allucinata, è sposato e ha un lavoro fisso, che non ama ma che gli dà una tranquillità economica; Charlie insegna a scuola, ma alterna momenti di entusiasmo a fasi in cui vorrebbe abbandonare tutto; Danny invece ha continuato a suonare senza grande successo e si propone a più riprese di mettere la testa a posto. Tra l'altro tra Charlie e Danny c'è una relazione che affonda le radici nel passato ma che non ha mai fatto il salto verso qualcosa di serio e stabile.
Il testo originale di Kate Tempest ha una specifica connotazione dal punto di vista generazionale e culturale: i protagonisti del suo racconto sono dei venticinquenni che si muovono nel contesto della periferia londinese. Giorgina Pi ha però scelto di affidare i tre personaggi ad attori poco più che trentenni e ha adattato il testo in modo da sganciarlo da un contesto geografico specifico, per accentuarne i contenuti universali applicabili a qualunque realtà metropolitana.
Nella rilettura della Pi non si perde dunque la connotazione generazionale del resto, però - e secondo me anche giustamente - le riflessioni dei tre personaggi e la loro disillusione sulla vita vengono applicate a quella generazione che negli ultimi anni è stata oggetto di molti studi sociologici, e che in Italia è stata variamente definita come "generazione perduta" o anche "generazione galleggiante".
Resta intatto nella messa in scena della Pi il ruolo centrale che nel testo di Kate Tempest ha la musica, in quanto collante del rapporto tra i tre protagonisti, ma anche strumento di comunicazione: parti del testo sono recitate quasi fossero un "rap" corale e non mancano esecuzioni musicali dal vivo nel corso dello spettacolo (la Pi inserisce anche l'esecuzione della Donna cannone da parte di Gabriele Portoghese). A ulteriore rafforzamento del ruolo dell'elemento musicale la Pi sceglie di ambientare lo spettacolo e i dialoghi tra i protagonisti in una specie di sala prove, dove ci sono strumenti musicali e microfoni.
Lo spettacolo risulta nel complesso di grande impatto dal punto di vista visivo, grazie a un sapiente uso delle luci e ad alcune scelte registiche interessanti. Devo però dire che resto un po' allergica agli adattamenti di testi stranieri in cui si rimane a metà strada tra l'originale e la trasposizione (a me per esempio la Donna cannone è risultata totalmente decontestualizzata, anche se posso comprendere la scelta registica).
Infine, devo anche ammettere una mia crescente resistenza ai testi generazionali che raccontano quell'età in cui si guarda al passato come l'epoca in cui tutto poteva succedere e al presente come il momento della disillusione, per poi concluderne immancabilmente che non bisogna arrendersi a questo e continuare anche da adulti a coltivare i propri sogni. Ovviamente sto semplificando, ma a tratti il testo che ho ascoltato suona un po' così e sinceramente è un tipo di approccio che a me appare un po' abusato o forse è solo che io sono in un'età della vita in cui questa contrapposizione si è riconciliata e i sogni hanno trovato declinazioni meno grandiose ma tutto sommato più soddisfacenti.
Voto: 3/5
lunedì 3 febbraio 2020
1917
Il film di Sam Mendes (che per me rimarrà sempre e soprattutto il regista di American Beauty) ha già vinto due Golden Globe (miglior film drammatico e miglior regista) e ha ben 10 candidature agli Oscar, dunque arriva al botteghino in Italia carico di riconoscimenti, e in un certo senso già premasticato da una critica che ha già avuto modo ampiamente di esprimersi su di esso, spaccandosi più o meno a metà tra coloro che gridano al capolavoro e coloro che lo considerano un freddo esercizio di stile.
Non potevo dunque farmi sfuggire l'occasione di andare a vederlo (in lingua originale) per potermene fare un'idea personale. La storia è presto detta (ed è basata - come ha dichiarato il regista - sui racconti di suo nonno): due caporali britannici, Blake (Dean-Charles Chapman) e Schofield (George MacKay, visto in Captain Fantastic), vengono chiamati dal generale per una delicata missione: devo consegnare una lettera a un altro plotone di 1600 uomini che si appresta a sferrare un attacco ai tedeschi apparentemente in ritirata, ma che in realtà si sono riorganizzati con più armi e più forze e hanno attirato gli inglesi in un tranello.
Da questo momento è solo questione di tempo: Blake e Schofield devo uscire dalla trincea, attraversare la "terra di nessuno" e, a seguire, il territorio (prima?) occupato dal nemico e poi raggiungere il colonnello dell'altro plotone prima dell'attacco. La missione assume anche un significato personale perché in quel plotone c'è anche il tenente Blake, fratello del caporale.
Come avrete già letto, la particolarità e anche la grandiosità del film (e il motivo per cui va assolutamente visto sul grande schermo!) consiste nel fatto che è girato come fosse un unico piano-sequenza, apparentemente senza montaggio né cesure (se non in un paio di occasioni, in cui però lo schermo che si oscura è funzionale a quanto avviene nella storia, come nel caso della caduta di Schofield dalle scale a seguito della quale perde i sensi risvegliandosi quando è ormai notte). La scelta è di sicuro effetto perché crea questa incredibile illusione che le poco meno di 24 ore in cui si svolge la storia corrispondano - per qualche arcana magia - alle circa due ore in cui siamo seduti in poltrona. A questo si aggiunga che la telecamera che segue i due soldati si muove quasi sempre alla loro altezza, come se fosse un terzo personaggio dell'azione che osserva da vicino - direi meglio dall'interno - quello che accade ai due protagonisti, poggiando lo sguardo su di loro, intorno a loro e oltre loro. Com'è stato da più parti osservato, Sam Mendes sembra ispirarsi al tipo di visione che caratterizza videogiochi di guerra come Battlefield e Call of Duty, cosa che molti hanno interpretato come un elemento svilente, ma che a mio parere dimostra una capacità di padroneggiare linguaggi differenti e di utilizzarli mettendoli al servizio delle proprie finalità narrative.
Certo è che Sam Mendes riesce nella non certo facile impresa di trasformare una guerra di posizione e di attesa come la prima guerra mondiale, una guerra difficilissima da rappresentare al cinema anche per la minore portata emotiva e simbolica che la caratterizza rispetto alla seconda guerra mondiale, in un racconto teso e vibrante, immersivo - come è stato detto -, trascinando lo spettatore nel fango, tra i topi, sotto le macerie, nel mirino di un cecchino. A rafforzare tutto questo una fotografia di altissimo livello che rende davvero epiche alcune scene, anche se talvolta a scapito di una piena credibilità. E alcuni momenti, vedi la scena del soldato che canta Wayfaring stranger in piedi con tutti i suoi commilitoni intorno seduti a terra tra gli alberi, sono anche particolarmente poetici.
Sul piano dunque della confezione cinematografica siamo decisamente ad altissimi livelli, dalle parti di altri grandi film di guerra, non lontani dalle vette del Dunkirk di Nolan.
Qualcuno però ha sottolineato che questa perfezione stilistica manca di pathos e di empatia, e che il film, una volta spogliato della sua confezione, mette in evidenza l'esilità dei suoi contenuti e rivela l'inconsistenza del suo messaggio. Anche su questo però non sono del tutto d'accordo. Sam Mendes utilizza un elemento narrativo tipico dei film di guerra, quello dell'eroe che sacrifica sé stesso per salvare altre vite, ma a poco a poco ne rivela l'insensatezza. Quando siamo pronti finalmente a celebrare l'eroe e a portarlo in trionfo al compimento della sua impresa, il colonnello MacKenzie (che come altri alti gradi dell'esercito è interpretato da un attore famoso, Benedict Cumberbatch, ma dice pochissime battute ed è assolutamente marginale e forse anche estraneo all'azione) con una semplice frase rivela l'inutilità di questo eroismo perché le vite umane salvate sono destinate a essere sacrificate al prossimo ordine di attacco. Emerge così in tutta la sua dirompenza l'orrore di una guerra che Mendes mostra sì attraverso le immagini, ma soprattutto ci suggerisce, facendoci riflettere sul sacrificio insensato di milioni di giovani in una ripetizione di massacri e morte fino alla consunzione delle forze in campo, lasciando un intero continente devastato materialmente e moralmente. Rispetto ad altri film in cui la retorica dell'eroe in battaglia viene portata fino in fondo e mai messa in discussione, mi pare che Mendes si assuma la responsabilità - dopo averla cavalcata - di metterla in crisi e capovolgerla, assestandole dunque un duro colpo.
Voto: 4/5
Non potevo dunque farmi sfuggire l'occasione di andare a vederlo (in lingua originale) per potermene fare un'idea personale. La storia è presto detta (ed è basata - come ha dichiarato il regista - sui racconti di suo nonno): due caporali britannici, Blake (Dean-Charles Chapman) e Schofield (George MacKay, visto in Captain Fantastic), vengono chiamati dal generale per una delicata missione: devo consegnare una lettera a un altro plotone di 1600 uomini che si appresta a sferrare un attacco ai tedeschi apparentemente in ritirata, ma che in realtà si sono riorganizzati con più armi e più forze e hanno attirato gli inglesi in un tranello.
Da questo momento è solo questione di tempo: Blake e Schofield devo uscire dalla trincea, attraversare la "terra di nessuno" e, a seguire, il territorio (prima?) occupato dal nemico e poi raggiungere il colonnello dell'altro plotone prima dell'attacco. La missione assume anche un significato personale perché in quel plotone c'è anche il tenente Blake, fratello del caporale.
Come avrete già letto, la particolarità e anche la grandiosità del film (e il motivo per cui va assolutamente visto sul grande schermo!) consiste nel fatto che è girato come fosse un unico piano-sequenza, apparentemente senza montaggio né cesure (se non in un paio di occasioni, in cui però lo schermo che si oscura è funzionale a quanto avviene nella storia, come nel caso della caduta di Schofield dalle scale a seguito della quale perde i sensi risvegliandosi quando è ormai notte). La scelta è di sicuro effetto perché crea questa incredibile illusione che le poco meno di 24 ore in cui si svolge la storia corrispondano - per qualche arcana magia - alle circa due ore in cui siamo seduti in poltrona. A questo si aggiunga che la telecamera che segue i due soldati si muove quasi sempre alla loro altezza, come se fosse un terzo personaggio dell'azione che osserva da vicino - direi meglio dall'interno - quello che accade ai due protagonisti, poggiando lo sguardo su di loro, intorno a loro e oltre loro. Com'è stato da più parti osservato, Sam Mendes sembra ispirarsi al tipo di visione che caratterizza videogiochi di guerra come Battlefield e Call of Duty, cosa che molti hanno interpretato come un elemento svilente, ma che a mio parere dimostra una capacità di padroneggiare linguaggi differenti e di utilizzarli mettendoli al servizio delle proprie finalità narrative.
Certo è che Sam Mendes riesce nella non certo facile impresa di trasformare una guerra di posizione e di attesa come la prima guerra mondiale, una guerra difficilissima da rappresentare al cinema anche per la minore portata emotiva e simbolica che la caratterizza rispetto alla seconda guerra mondiale, in un racconto teso e vibrante, immersivo - come è stato detto -, trascinando lo spettatore nel fango, tra i topi, sotto le macerie, nel mirino di un cecchino. A rafforzare tutto questo una fotografia di altissimo livello che rende davvero epiche alcune scene, anche se talvolta a scapito di una piena credibilità. E alcuni momenti, vedi la scena del soldato che canta Wayfaring stranger in piedi con tutti i suoi commilitoni intorno seduti a terra tra gli alberi, sono anche particolarmente poetici.
Sul piano dunque della confezione cinematografica siamo decisamente ad altissimi livelli, dalle parti di altri grandi film di guerra, non lontani dalle vette del Dunkirk di Nolan.
Qualcuno però ha sottolineato che questa perfezione stilistica manca di pathos e di empatia, e che il film, una volta spogliato della sua confezione, mette in evidenza l'esilità dei suoi contenuti e rivela l'inconsistenza del suo messaggio. Anche su questo però non sono del tutto d'accordo. Sam Mendes utilizza un elemento narrativo tipico dei film di guerra, quello dell'eroe che sacrifica sé stesso per salvare altre vite, ma a poco a poco ne rivela l'insensatezza. Quando siamo pronti finalmente a celebrare l'eroe e a portarlo in trionfo al compimento della sua impresa, il colonnello MacKenzie (che come altri alti gradi dell'esercito è interpretato da un attore famoso, Benedict Cumberbatch, ma dice pochissime battute ed è assolutamente marginale e forse anche estraneo all'azione) con una semplice frase rivela l'inutilità di questo eroismo perché le vite umane salvate sono destinate a essere sacrificate al prossimo ordine di attacco. Emerge così in tutta la sua dirompenza l'orrore di una guerra che Mendes mostra sì attraverso le immagini, ma soprattutto ci suggerisce, facendoci riflettere sul sacrificio insensato di milioni di giovani in una ripetizione di massacri e morte fino alla consunzione delle forze in campo, lasciando un intero continente devastato materialmente e moralmente. Rispetto ad altri film in cui la retorica dell'eroe in battaglia viene portata fino in fondo e mai messa in discussione, mi pare che Mendes si assuma la responsabilità - dopo averla cavalcata - di metterla in crisi e capovolgerla, assestandole dunque un duro colpo.
Voto: 4/5