Giusto la fine del mondo è il titolo del testo teatrale di Jean-Luc Lagarce da cui Xavier Dolan ha tratto il suo film del 2016, uscito in Italia con il titolo È solo la fine del mondo.
Il film di Dolan a suo tempo non mi aveva convinto, ma ho deciso di offrire al testo una seconda possibilità, anche per apprezzarne la resa nel contesto teatrale nel quale è nato. L'adattamento italiano vede alla regia Francesco Frangipane, mentre sono affidati ad Anna Bonaiuto il ruolo della madre, ad Alessandro Tedeschi il ruolo di Louis, ad Angela Curri quello della sorella Suzanne, a Vincenzo De Michele quello del fratello Antoine, e infine a Barbara Ronchi quello di Catherine, la moglie di Antoine.
Sul palco la ricostruzione di una casa circondata dal prato: a sinistra il salotto, a destra la sala da pranzo, dietro, più in alto, da un lato la stanza di Suzanne (che vive ancora con la madre), dall'altro la cucina. Davanti a tutto tre grandi tende veneziane, da cui Suzanne spia, impaziente, l'arrivo del fratello Louis, che sta tornando a casa dopo dodici lunghi anni di assenza per comunicare che sta per morire.
Le veneziane vengono sollevate quando Louis arriva, e da questo momento inizia un faticoso tentativo di comunicazione tra i membri di questa famiglia, ciascuno portatore dei propri ricordi, dei propri rancori e delle proprie idiosincrasie, tutti desiderosi di rovesciare il proprio carico emotivo su colui che è stato assente per troppo tempo, lasciandoli soli e in fondo permettendo che ognuno si costruisse la propria idea e si desse la propria spiegazione. Louis ascolta, confuso e tramortito dalle parole altrui, fa fatica a interloquire, si limita a qualche sorriso, e quando a tavola tenta di parlare di sé e di raccontare quello che ha da dire, di fatto gli viene impedito, forse perché nessuno dei commensali vuole ascoltare la verità durissima che sta per dire.
Nel dramma di Lagarce, che affonda in parte le radici nella storia personale (essendo lo stesso autore morto di AIDS a soli 38 anni), viene messa in scena tutta la complessità delle dinamiche familiari e l'insuperabile incomunicabilità che è propria di quel consesso umano primigenio, in cui tutti i sentimenti risultano amplificati esponenzialmente nel bene e nel male. La famiglia è il luogo dal quale non si può fuggire nemmeno quando ci si allontana e nella quale le frustrazioni individuali e le fragilità affettive non solo non vengono risolte, ma rimangono intrappolate e fossilizzate in una coazione a ripetere infinita, di fronte alla quale nemmeno l'avanzare dell'età e l'aumentare delle esperienze possono nulla. Se la comunicazione con i propri simili e la reciproca comprensione sono uno dei problemi più grossi con cui gli esseri umani devono fare i conti, la famiglia costituisce il primo laboratorio dell'incomunicabilità umana, quello le cui conseguenze ci rimangono appiccicate addosso e che ci condizionerà per tutta la nostra vita.
E a questa incomunicabilità non sembra esserci rimedio.
La messa in scena del dramma di Lagarce da parte di Frangipane è pulita ed efficace, e gli attori sono appropriati e misurati (o senza misure) ciascuno rispetto al proprio ruolo. Non mi pare che la visione a teatro abbia aggiunto molto a quanto visto nell'adattamento cinematografico di Dolan, anche se devo dire che la maggiore essenzialità della resa teatrale e l'assenza di artifici di carattere intellettualistico hanno certamente contribuito a far arrivare il messaggio in maniera molto più chiara e diretta.
Voto: 3,5/5
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