Ed eccomi qui al primo appuntamento del 2016 con Unplugged in Monti. Questo anno di concerti inizia con una Church Session, ossia i concerti che si tengono alla Chiesa Metodista di via XX settembre.
Ho fatto il biglietto tanto tempo fa e dunque innanzitutto mi sono aggiudicata il mio poster dell'evento, quello disegnato da mynameisbri (Sabrina Gabrielli) che da quest'anno si occupa solo dei poster della Church Session.
Sono arrivata per tempo e ben satolla, visto che ho deciso di passare prima a mangiare una galette complète e una crepe al caramello salato al piccolo locale Crêpes galettes che il francese Florent ha aperto in via Leonina (e che vi consiglio caldamente! Finalmente una vera galette bretonne con grano saraceno a Roma!).
Così quando arrivo in chiesa mi siedo tranquilla al banco in seconda fila e attendo pazientemente che la chiesa si riempia e i concerti inizino. Sì, perché questa sera in realtà ci sono due concerti in programma ed entrambi i nomi sono di un certo calibro.
I primi ad esibirsi sono The leisure society, che a Roma si presentano in una formazione a tre, composta dai due storici componenti del gruppo, Nick Hemming e Christian Hardy, insieme allo splendido violinista Mike Siddell. Quando nel 2009 era uscito The sleeper, il primo album di The leisure society, il lavoro era stato accolto con grande favore dalla critica e questi ragazzotti inglesi erano stati paragonati a band ben più famose quali i Mumford & sons e i Fleet foxes. Gli album successivi, pur non mantenendo tutte le promesse, hanno confermato le qualità di questi giovani musicisti, raggiungendo anche vertici significativi.
Al concerto si presentano, a parte Mike Siddell, con un taglio di capelli simile e molto alla moda, e ci deliziano per almeno un'oretta con la loro musica alt folk, fatta di chitarre, di violini, di banjo, di tastiera e altro. Il loro perfetto accento inglese è molto gradevole da ascoltare anche quando - tra una canzone e l'altra - intrattengono il pubblico. I tre spaziano nel loro repertorio attingendo a tutti i loro album e proponendo anche una cover. In una canzone si fanno anche accompagnare da una cantante italiana, Beatrice Sanjust, che - ci raccontano - ha cantato con loro molte volte quando viveva in Inghilterra, ma poi è tornata alla sua terra natia a Roma.
Dopo l'ultima canzone vengono richiamati in scena da un pubblico silenzioso, ma attento e ci cantano una canzone unplugged stando davanti al palco.
Il tempo tecnico necessario ad allestire il palco ed ecco che fa la sua comparsa Chantal Acda, con una band formata da un bassista, un batterista e un polistrumentista (veramente eccezionale quest'ultimo!), tutti componenti di altre band che si sono prestati ad accompagnare Chantal in questo tour.
Chantal Acda è una cantante e musicista di origini olandesi che vive in Belgio, e devo dire che per me che ho vissuto a Bruxelles i segni della sua "belgitudine" ci sono tutti: non solo un aspetto parecchio fiammingo, ma anche il fatto che si presenta sul palco con uno scamiciato che sembra una camicia da notte e i capelli arruffati che sembra essersi appena svegliata. L'impatto dunque è abbastanza forte.
Però, quando il concerto inizia la magia della voce di Chantal e degli strepitosi arrangiamenti dei musicisti che la accompagnano fa dimenticare qualunque elemento superficiale e che non abbia a che fare con la musica e ci conduce direttamente nella magia delle sue canzoni.
Il pubblico è silenziosissimo, ma pronto ad esplodere in lunghi applausi alla fine di ogni canzone. Chantal è colpita da tanto religioso silenzio, ma dice anche che la cosa non la turba affatto anzi le fa piacere.
I brani dell'ultimo album The sparkle in our flaws si alternano a quelli del lavoro precedente Let your hand be my guide (il mio preferito!), dal quale ci viene proposta anche una splendida versione di Arms up high.
E così tra una canzone e l'altra, tra una chiacchiera e l'altra siamo già alla fine del concerto, ma il pubblico non è ancora sazio. Dunque Chantal e la sua band tornano sul palco per un bis di un paio di canzoni.
Poi tutti, la stessa Chantal, nonché Nick e Christian, li ritroviamo al banchetto della vendita dei CD e dei gadget che parlano con tutti e regalano sorrisi e abbracci.
Una serata davvero emozionante. Un bel modo di cominciare questo 2016 in musica.
Peccato per il tipo di illuminazione del palco, che con l'eccesso di luci rosse rende le foto quasi impossibili e certamente regala pochi risultati fotografici davvero meritevoli.
Voto: 4/5
sabato 30 gennaio 2016
giovedì 28 gennaio 2016
Che tu sia per me il coltello / David Grossman
Che tu sia per me il coltello / David Grossman; trad. di Alessandra Shomroni. Milano: Mondadori, 2007.
La curiosità per questo libro mi è venuta dopo aver letto una citazione da qualche parte che ora non ricordo. Dopo aver saputo di cosa parla Grossman in Che tu sia per me il coltello mi sono definitivamente convinta che poteva avere senso per me affrontarne la lettura.
Fin da quando ho iniziato a leggere le prime pagine ho avuto quella sensazione che mi avrebbe accompagnata per tutta la durata della lettura. Ossia da un lato una sensazione di estraneità culturale ed emotiva rispetto al racconto del rapporto di Yair e Myriam, dall'altro a tratti e imprevedibilmente una connessione forte, quasi interna, con i sentimenti dei protagonisti.
Effetto forse di quella dimensione "metafisica" che è la cifra dominante di questa storia. Yair è un uomo sposato di circa 35 anni che un giorno vede una donna impegnata in una conversazione con altre persone. Qualcosa nell'atteggiamento di quella donna lo colpisce e lo spinge a mandarle delle lettere e a proporle una relazione solo epistolare la cui fine sia decisa da loro stessi e non sia troppo in là nel tempo, per non sporcare la purezza di questo rapporto.
In questo spazio compresso dal punto di vista temporale, in questa dimensione "astratta" ma profondamente liberante che è il rapporto esclusivamente epistolare, Yair e Myriam rivelano di se stessi e delle proprie vite reciprocamente più di quanto probabilmente abbiano mai fatto con nessun altro.
Per circa due terzi del libro conosciamo solo la voce di Yair attraverso le sue lettere e intuiamo, ma non sempre comprendiamo perfettamente, le risposte di Myriam. Nell'ultima parte leggiamo le lettere/quasi monologo/quasi diario che Myriam scrive a Yair quando quest'ultimo ha smesso di scriverle secondo i patti. Infine nelle ultimissime pagine assistiamo prima al contatto telefonico e - in un crescendo di drammaticità - anche all'incontro tra i due protagonisti.
Personalmente, mentre nelle lettere di Yair mi sono spesso persa, talvolta ho provato una sensazione di estraneità e quasi repulsione, nel monologo/diario di Myriam ho sentito tutto il pathos della donna in un intreccio inestricabile e irrisolvibile tra la propria vita quotidiana e la dimensione altra, ma emotivamente molto concreta e profonda, del rapporto con Yair.
Eppure resta in me la sensazione di una sostanziale irriducibilità tra la poesia di alcuni momenti e la prosaicità (talvolta poco comprensibile) di altri. Ma forse questa è la vita, oppure è l'inevitabile destino di un rapporto che sta dentro la vita e contemporaneamente anche fuori.
Alla fine della lettura non sono sorpresa di essermi avvicinata a questo libro attraverso una citazione, perché la lettura è spesso catturata e interrotta da passaggi folgoranti per la loro bellezza e universalità:
All'improvviso ho la sensazione che ogni parola sia un grumo di lettere inutili, non trovi anche tu? (p. 8)
[...] con te non mi comporto in modo logico: solo in modo follemente logico. E non voglio nemmeno aspettare, perché il tempo con te è diverso. È circolare, e in ogni momento si trova esattamente alla stessa distanza dal centro. (p. 19)
[...] se ti senti tra parentesi, permettimi allora di infilarmici dentro, e che tutto il mondo ne rimanga fuori, che sia solo l'esponente al di fuori della parentesi e ci moltiplichi al suo interno. (p. 20)
E io so, non c'era bisogno di spiegarlo, che questo tuo "vero io" non ha nulla a che vedere con me, è qualcosa di completamente tuo, e forse addirittura, come hai detto, la "Cosa" più importante per te. Ma io leggo anche quello che hai aggiunto sotto, con una strana grafia: a volte provi un brivido scoprendo come un estraneo riesca a notare, con un solo sguardo, questa "Cosa" e, senza conoscerti, a chiamarla con il suo vero nome. (p. 24)
Mi verrebbe da chiederti che bisogno hai di me quando hai qualcuno con cui puoi sempre parlare, di qualunque umore tu sia, uno che ti sta vicino quando cadi nel tuo pozzo di Giuseppe, abbandonata da tutti. (p. 30)
Aiutami a calmarmi. Tendimi la mano, anche un dito mi basterebbe adesso. Ho bisogno che ora, proprio ora, tu mi faccia da parafulmine. (p. 44)
Un'anima estranea che svolazza libera dentro la mia e io non mi rinchiudo in me stesso, non la sputo fuori come un nocciolo conficcato in gola. Al contrario, la inspiro ancor di più e lei s'aggrappa al mio corpo, dall'interno... (p. 46-47)
Quell'asciugamano ormai logoro che conserva la sporcizia-decisamente-buona della mia vita, una vita che io amo molto ma nella quale, spero ti sia ora comprensibile, la mia anima aspira a qualcosa, sempre. (p. 47)
In momenti come quelli sento qualcosa montarmi dentro, l'hai visto, e al diavolo le leggi della natura e della società, che impongono a un'anima di accontentarsi della propria esistenza racchiusa nella propria pelle. (p. 52)
Dopo aver fatto l'amore, dormiremo abbracciati. La tua schiena contro il mio ventre. E io stringerò le dita dei piedi intorno alle tue caviglie, come delle mollette, perché tu non possa volar via la notte. Saremo come un'immagine su un libro di scienze: un frutto tagliato a metà, tu la buccia e io il torsolo. (p. 67)
So solo che ora ti desidero disperatamente. (p. 80)
Dimmi, per una volta, cosa posso darti io? E cosa ti do? E cosa ti attira verso di me? (p. 91)
Come hai scritto? "Per aiutarci l'un l'altro a essere tutto quello e tutti coloro che siamo." (p. 122)
"Non ce la faccio più così - la lontananza da te, questa astrazione - perché non riesco a contenere tutto quello che sta succedendo: ho veramente bisogno di un contatto diretto. Di un contatto diretto con te. Basta, vieni con il tuo corpo, nella tua interezza, nella tua concretezza, completa o parziale, divisa o moltiplicata. Ma vieni a braccia aperte. [...]" (p. 134)
Non allontanarti. Ho bisogno di te. Abbiamo ancora molto di cui parlare, siamo solo agli inizi. (p. 146)
Guardo all'interno e provo già nostalgia per ciò che un giorno verrà distrutto, non esisterà più per noi e si disgregherà, come succede sempre, soprattutto a me. (p. 154)
Inconsapevolmente, si tiene una contabilità meschina con la persona che si ama di più. (p. 156)
Senti, forse ti cerco già da anni, ti cerco disordinatamente, a casaccio, e continuo a brancolare. (p. 211)
La mia anima voleva tornarsene a casa, e si è raggomitolata dentro di me in silenzio. (p. 220)
Forse potreste essere tanto magnanimi da ordinare alla realtà di aprire un poco le sue tenaglie e di lasciarci liberi, almeno per un momento. Due esseri umani che desiderano essere soli. Che c'è di male? (p. 228)
[...] secondo me, svelare a una persona qualcosa che non sa di se stessa è un grande dono d'amore. Il più grande. (p. 236)
Ma io credo, con tutto il cuore, che ci sia un luogo, forse non il giardino dell'Eden, in cui potremo stare insieme. (p. 244)
"Amore è il fatto che tu sei per me il coltello con cui frugo dentro me stesso". (p. 253)
Non mi accontento più di un viaggio immaginario. Non si può guarire solo con le parole. Ammalarsi sì. Probabilmente non è molto difficile. Ma consolare? Far rivivere? Per questo occorre vedere degli occhi di fronte a sé, toccare delle labbra, delle mani, un corpo che si ribella e strepita contro le tue idee infantili di astrattezza "pura". (p. 253)
Come sei entrato nella mia vita? Com'è possibile che fossi così indifesa? E non sei nemmeno entrato da una finestra, o da un lucernaio. Sei riuscito a trovare una fessura attraverso la quale mi hai trafitto il cuore. (p. 257)
Il mio "ho" è pieno, pieno. Tu stesso hai detto che è persino traboccante...
Ed è proprio il "non ho" a risvegliarsi ora, a diventare così esigente che mi è difficile contenerlo. All'improvviso il mio "non ho" è pieno di vitalità. Cosa ne sarà di lui a questo punto? Cosa ne farò? (p. 258)
[...] bisognerebbe chiarire una volta per tutte perché "un brutto momento" può andare avanti per mesi, mentre un momento di grazia dura sempre e solo un momento. (p. 283)
Ma cosa ti ho dato, poi? Solo parole, e cosa possono le parole? Probabilmente talvolta possono. E forse ci sono dei momenti di grazia in cui il cielo si apre anche sulla terra (p. 323)
Voto: 3,5/5
La curiosità per questo libro mi è venuta dopo aver letto una citazione da qualche parte che ora non ricordo. Dopo aver saputo di cosa parla Grossman in Che tu sia per me il coltello mi sono definitivamente convinta che poteva avere senso per me affrontarne la lettura.
Fin da quando ho iniziato a leggere le prime pagine ho avuto quella sensazione che mi avrebbe accompagnata per tutta la durata della lettura. Ossia da un lato una sensazione di estraneità culturale ed emotiva rispetto al racconto del rapporto di Yair e Myriam, dall'altro a tratti e imprevedibilmente una connessione forte, quasi interna, con i sentimenti dei protagonisti.
Effetto forse di quella dimensione "metafisica" che è la cifra dominante di questa storia. Yair è un uomo sposato di circa 35 anni che un giorno vede una donna impegnata in una conversazione con altre persone. Qualcosa nell'atteggiamento di quella donna lo colpisce e lo spinge a mandarle delle lettere e a proporle una relazione solo epistolare la cui fine sia decisa da loro stessi e non sia troppo in là nel tempo, per non sporcare la purezza di questo rapporto.
In questo spazio compresso dal punto di vista temporale, in questa dimensione "astratta" ma profondamente liberante che è il rapporto esclusivamente epistolare, Yair e Myriam rivelano di se stessi e delle proprie vite reciprocamente più di quanto probabilmente abbiano mai fatto con nessun altro.
Per circa due terzi del libro conosciamo solo la voce di Yair attraverso le sue lettere e intuiamo, ma non sempre comprendiamo perfettamente, le risposte di Myriam. Nell'ultima parte leggiamo le lettere/quasi monologo/quasi diario che Myriam scrive a Yair quando quest'ultimo ha smesso di scriverle secondo i patti. Infine nelle ultimissime pagine assistiamo prima al contatto telefonico e - in un crescendo di drammaticità - anche all'incontro tra i due protagonisti.
Personalmente, mentre nelle lettere di Yair mi sono spesso persa, talvolta ho provato una sensazione di estraneità e quasi repulsione, nel monologo/diario di Myriam ho sentito tutto il pathos della donna in un intreccio inestricabile e irrisolvibile tra la propria vita quotidiana e la dimensione altra, ma emotivamente molto concreta e profonda, del rapporto con Yair.
Eppure resta in me la sensazione di una sostanziale irriducibilità tra la poesia di alcuni momenti e la prosaicità (talvolta poco comprensibile) di altri. Ma forse questa è la vita, oppure è l'inevitabile destino di un rapporto che sta dentro la vita e contemporaneamente anche fuori.
Alla fine della lettura non sono sorpresa di essermi avvicinata a questo libro attraverso una citazione, perché la lettura è spesso catturata e interrotta da passaggi folgoranti per la loro bellezza e universalità:
All'improvviso ho la sensazione che ogni parola sia un grumo di lettere inutili, non trovi anche tu? (p. 8)
[...] con te non mi comporto in modo logico: solo in modo follemente logico. E non voglio nemmeno aspettare, perché il tempo con te è diverso. È circolare, e in ogni momento si trova esattamente alla stessa distanza dal centro. (p. 19)
[...] se ti senti tra parentesi, permettimi allora di infilarmici dentro, e che tutto il mondo ne rimanga fuori, che sia solo l'esponente al di fuori della parentesi e ci moltiplichi al suo interno. (p. 20)
E io so, non c'era bisogno di spiegarlo, che questo tuo "vero io" non ha nulla a che vedere con me, è qualcosa di completamente tuo, e forse addirittura, come hai detto, la "Cosa" più importante per te. Ma io leggo anche quello che hai aggiunto sotto, con una strana grafia: a volte provi un brivido scoprendo come un estraneo riesca a notare, con un solo sguardo, questa "Cosa" e, senza conoscerti, a chiamarla con il suo vero nome. (p. 24)
Mi verrebbe da chiederti che bisogno hai di me quando hai qualcuno con cui puoi sempre parlare, di qualunque umore tu sia, uno che ti sta vicino quando cadi nel tuo pozzo di Giuseppe, abbandonata da tutti. (p. 30)
Aiutami a calmarmi. Tendimi la mano, anche un dito mi basterebbe adesso. Ho bisogno che ora, proprio ora, tu mi faccia da parafulmine. (p. 44)
Un'anima estranea che svolazza libera dentro la mia e io non mi rinchiudo in me stesso, non la sputo fuori come un nocciolo conficcato in gola. Al contrario, la inspiro ancor di più e lei s'aggrappa al mio corpo, dall'interno... (p. 46-47)
Quell'asciugamano ormai logoro che conserva la sporcizia-decisamente-buona della mia vita, una vita che io amo molto ma nella quale, spero ti sia ora comprensibile, la mia anima aspira a qualcosa, sempre. (p. 47)
In momenti come quelli sento qualcosa montarmi dentro, l'hai visto, e al diavolo le leggi della natura e della società, che impongono a un'anima di accontentarsi della propria esistenza racchiusa nella propria pelle. (p. 52)
Dopo aver fatto l'amore, dormiremo abbracciati. La tua schiena contro il mio ventre. E io stringerò le dita dei piedi intorno alle tue caviglie, come delle mollette, perché tu non possa volar via la notte. Saremo come un'immagine su un libro di scienze: un frutto tagliato a metà, tu la buccia e io il torsolo. (p. 67)
So solo che ora ti desidero disperatamente. (p. 80)
Dimmi, per una volta, cosa posso darti io? E cosa ti do? E cosa ti attira verso di me? (p. 91)
Come hai scritto? "Per aiutarci l'un l'altro a essere tutto quello e tutti coloro che siamo." (p. 122)
"Non ce la faccio più così - la lontananza da te, questa astrazione - perché non riesco a contenere tutto quello che sta succedendo: ho veramente bisogno di un contatto diretto. Di un contatto diretto con te. Basta, vieni con il tuo corpo, nella tua interezza, nella tua concretezza, completa o parziale, divisa o moltiplicata. Ma vieni a braccia aperte. [...]" (p. 134)
Non allontanarti. Ho bisogno di te. Abbiamo ancora molto di cui parlare, siamo solo agli inizi. (p. 146)
Guardo all'interno e provo già nostalgia per ciò che un giorno verrà distrutto, non esisterà più per noi e si disgregherà, come succede sempre, soprattutto a me. (p. 154)
Inconsapevolmente, si tiene una contabilità meschina con la persona che si ama di più. (p. 156)
Senti, forse ti cerco già da anni, ti cerco disordinatamente, a casaccio, e continuo a brancolare. (p. 211)
La mia anima voleva tornarsene a casa, e si è raggomitolata dentro di me in silenzio. (p. 220)
Forse potreste essere tanto magnanimi da ordinare alla realtà di aprire un poco le sue tenaglie e di lasciarci liberi, almeno per un momento. Due esseri umani che desiderano essere soli. Che c'è di male? (p. 228)
[...] secondo me, svelare a una persona qualcosa che non sa di se stessa è un grande dono d'amore. Il più grande. (p. 236)
Ma io credo, con tutto il cuore, che ci sia un luogo, forse non il giardino dell'Eden, in cui potremo stare insieme. (p. 244)
"Amore è il fatto che tu sei per me il coltello con cui frugo dentro me stesso". (p. 253)
Non mi accontento più di un viaggio immaginario. Non si può guarire solo con le parole. Ammalarsi sì. Probabilmente non è molto difficile. Ma consolare? Far rivivere? Per questo occorre vedere degli occhi di fronte a sé, toccare delle labbra, delle mani, un corpo che si ribella e strepita contro le tue idee infantili di astrattezza "pura". (p. 253)
Come sei entrato nella mia vita? Com'è possibile che fossi così indifesa? E non sei nemmeno entrato da una finestra, o da un lucernaio. Sei riuscito a trovare una fessura attraverso la quale mi hai trafitto il cuore. (p. 257)
Il mio "ho" è pieno, pieno. Tu stesso hai detto che è persino traboccante...
Ed è proprio il "non ho" a risvegliarsi ora, a diventare così esigente che mi è difficile contenerlo. All'improvviso il mio "non ho" è pieno di vitalità. Cosa ne sarà di lui a questo punto? Cosa ne farò? (p. 258)
[...] bisognerebbe chiarire una volta per tutte perché "un brutto momento" può andare avanti per mesi, mentre un momento di grazia dura sempre e solo un momento. (p. 283)
Ma cosa ti ho dato, poi? Solo parole, e cosa possono le parole? Probabilmente talvolta possono. E forse ci sono dei momenti di grazia in cui il cielo si apre anche sulla terra (p. 323)
Voto: 3,5/5
domenica 24 gennaio 2016
Little sister
La storia - come spesso accade nei film giapponesi - è decisamente minimale. Tre sorelle, Sachi (Haruka Ayase), Yoshino (Masami Nagasawa) e Chika (Kaho), vivono in una vecchia casa con giardino nella città di Kamakura. Sachi, la più grande, fa un po' da mamma alle altre da quando il padre è andato via di casa con un'altra donna e la madre si è trasferita in un’altra città lasciandole da sole. Quando muore il padre, le tre sorelle vanno al suo funerale, dove incontrano Suzu (Suzu Hirose), la sorellastra nata dal secondo matrimonio del padre, e decidono di chiederle di andare a vivere con loro. Da qui in poi il film è un racconto - delicato e senza grandi scossoni - della vita di queste quattro ragazze, dei rapporti tra di loro e con i genitori, del loro modo di stare nel mondo, un racconto attraverso il quale vengono fuori i loro caratteri e modi di essere, ma anche una rappresentazione molto affascinante dello stile di vita giapponese, delle loro tradizioni culturali, delle dinamiche sociali e personali.
Per qualcuno queste due ore di film in cui - per i nostri parametri occidentali - non succede niente di eclatante se non la vita che scorre e i rapporti che si approfondiscono e talvolta cambiano potrebbero essere troppe. Personalmente invece ho apprezzato sia questo racconto di vita senza colpi di scena (che poi la vita non è per la maggior parte fatta così?) sia la possibilità di cogliere le differenze con una realtà che - per quanto per molti versi fortemente occidentalizzata - resta invece profondamente diversa dalla nostra.
Gli interni e gli esterni della bellissima casa giapponese dove vivono le quattro ragazze, la preparazione dei cibi e del liquore di prugne, gli scorci su questi panorami in cui la natura riesce ancora a prevalere sugli abitati urbani, le stradine di queste città in cui il treno passa vicinissimo alle case, i trenini con una sola carrozza che attraversano i boschi e le montagne, tutto ci restituisce quell'idea della provincia giapponese che ci è lontana, ma non estranea grazie ai manga e ai cartoni giapponesi.
E infatti scopro che questo film di Hirokazu Kore-Eda è liberamente ispirato appunto a un manga, Umimachi Diary (di cui vedete qui qualche tavola), che dal mio punto di vista spiega anche perché alcuni personaggi (ad esempio Chika e il suo fidanzato) e alcune situazioni sembrano la traduzione vivente di personaggi e scene disegnate.
Che poi mi chiedo sempre: ma sono i manga che imitano l'essenza più profonda del Giappone oppure sono i giapponesi che imitano i manga? Talvolta ho la sensazione che il Giappone abbia talmente introiettato il linguaggio dei manga che è diventato ormai difficile capire cosa è nato prima, come con l'uovo e la gallina.
Little sister è dunque un gradevole viaggio attraverso il Giappone, con i pochi sussulti che un treno con una sola carrozza può produrre, alla scoperta di quattro donne diversissime, che sarà difficile non amare e non voler abbracciare alla fine del film. Ma attenzione! Perché in tutto il film i contatti fisici tra le persone sono praticamente inesistenti, pur essendo forti le dinamiche emotive che si innescano tra i personaggi.
Anche questo è il Giappone.
Voto: 3/5
Per qualcuno queste due ore di film in cui - per i nostri parametri occidentali - non succede niente di eclatante se non la vita che scorre e i rapporti che si approfondiscono e talvolta cambiano potrebbero essere troppe. Personalmente invece ho apprezzato sia questo racconto di vita senza colpi di scena (che poi la vita non è per la maggior parte fatta così?) sia la possibilità di cogliere le differenze con una realtà che - per quanto per molti versi fortemente occidentalizzata - resta invece profondamente diversa dalla nostra.
Gli interni e gli esterni della bellissima casa giapponese dove vivono le quattro ragazze, la preparazione dei cibi e del liquore di prugne, gli scorci su questi panorami in cui la natura riesce ancora a prevalere sugli abitati urbani, le stradine di queste città in cui il treno passa vicinissimo alle case, i trenini con una sola carrozza che attraversano i boschi e le montagne, tutto ci restituisce quell'idea della provincia giapponese che ci è lontana, ma non estranea grazie ai manga e ai cartoni giapponesi.
E infatti scopro che questo film di Hirokazu Kore-Eda è liberamente ispirato appunto a un manga, Umimachi Diary (di cui vedete qui qualche tavola), che dal mio punto di vista spiega anche perché alcuni personaggi (ad esempio Chika e il suo fidanzato) e alcune situazioni sembrano la traduzione vivente di personaggi e scene disegnate.
Che poi mi chiedo sempre: ma sono i manga che imitano l'essenza più profonda del Giappone oppure sono i giapponesi che imitano i manga? Talvolta ho la sensazione che il Giappone abbia talmente introiettato il linguaggio dei manga che è diventato ormai difficile capire cosa è nato prima, come con l'uovo e la gallina.
Little sister è dunque un gradevole viaggio attraverso il Giappone, con i pochi sussulti che un treno con una sola carrozza può produrre, alla scoperta di quattro donne diversissime, che sarà difficile non amare e non voler abbracciare alla fine del film. Ma attenzione! Perché in tutto il film i contatti fisici tra le persone sono praticamente inesistenti, pur essendo forti le dinamiche emotive che si innescano tra i personaggi.
Anche questo è il Giappone.
Voto: 3/5
giovedì 21 gennaio 2016
Povere nullità / Baru; Pierre Pélot
Povere nullità / Baru; Pierre Pélot. Bologna: Coconino Press, 2010.
Sono un'estimatrice di Baru (al secolo Hervé Barulea) e mi sono molto piaciuti alcuni suoi lavori precedenti, come ad esempio Pompa i bassi, Bruno! e Gli anni dello Sputnik.
Trovo affascinanti la sintesi e nello stesso tempo la forza del tratto di Baru, così come apprezzo la sua capacità di raccontare storie scavando nei ricordi ovvero osservando l'universo circostante.
Così quando ho visto in libreria questo albo, non ho esitato ad acquistarlo. In questo caso Baru presta i suoi disegni alla sceneggiatura scritta da un famoso romanziere francese Pierre Pélot.
Ne viene fuori una storia nerissima, al centro della quale c'è un imprecisato paesino di periferia che diventa un vero e proprio teatro degli orrori e palcoscenico delle pulsioni più basse e terribili dell'animo umano.
Il protagonista è Anastase Brémont, una povera nullità, con un'esistenza squallida che si sostanzia di cattive amicizie e di espedienti, fino a quando la sparizione di un bambino down durante una gita non sembrerà aprirgli l'occasione di un riscatto.
Ma in questa storia non c'è catarsi, non c'è spiraglio di speranza e di bellezza.
C'è invece una condanna definitiva per un'umanità che è capace di indicibili brutture per cattiveria o stupidità.
Sappiate che non si esce dalla lettura di questo albo con l'animo sollevato. Anzi il carico emotivo resta per un po' pesante sul cuore.
La vena affettuosa che Baru mostrava negli albi precedenti verso l'umanità risulta schiacciata e annullata dall'incontro con la scrittura di Pélot. E la cosa sinceramente mi è dispiaciuta.
Voto: 2,5/5
Sono un'estimatrice di Baru (al secolo Hervé Barulea) e mi sono molto piaciuti alcuni suoi lavori precedenti, come ad esempio Pompa i bassi, Bruno! e Gli anni dello Sputnik.
Trovo affascinanti la sintesi e nello stesso tempo la forza del tratto di Baru, così come apprezzo la sua capacità di raccontare storie scavando nei ricordi ovvero osservando l'universo circostante.
Così quando ho visto in libreria questo albo, non ho esitato ad acquistarlo. In questo caso Baru presta i suoi disegni alla sceneggiatura scritta da un famoso romanziere francese Pierre Pélot.
Ne viene fuori una storia nerissima, al centro della quale c'è un imprecisato paesino di periferia che diventa un vero e proprio teatro degli orrori e palcoscenico delle pulsioni più basse e terribili dell'animo umano.
Il protagonista è Anastase Brémont, una povera nullità, con un'esistenza squallida che si sostanzia di cattive amicizie e di espedienti, fino a quando la sparizione di un bambino down durante una gita non sembrerà aprirgli l'occasione di un riscatto.
Ma in questa storia non c'è catarsi, non c'è spiraglio di speranza e di bellezza.
C'è invece una condanna definitiva per un'umanità che è capace di indicibili brutture per cattiveria o stupidità.
Sappiate che non si esce dalla lettura di questo albo con l'animo sollevato. Anzi il carico emotivo resta per un po' pesante sul cuore.
La vena affettuosa che Baru mostrava negli albi precedenti verso l'umanità risulta schiacciata e annullata dall'incontro con la scrittura di Pélot. E la cosa sinceramente mi è dispiaciuta.
Voto: 2,5/5
lunedì 18 gennaio 2016
Dies irae / Giuseppe Genna
Dies irae / Giuseppe Genna. Milano: Mondadori, 2014.
“La sua vita è soffocante e priva d’aria” (p. 764). Così dice la psichiatra Manuela a Giuseppe Genna nelle ultimissime pagine del libro. Ebbene, questa stessa frase a mio modo di vedere può essere utilizzata per descrivere le quasi 800 pagine di questo libro.
La sensazione claustrofobica e senza via d’uscita che esso trasmette è infatti direttamente proporzionale all’animo livido e senza speranza del protagonista e narratore, ossia lo stesso Genna.
D’altra parte, il leitmotiv del libro è una vicenda fortemente claustrofobica, che ha segnato la memoria e gli incubi di tutti quelli della mia generazione (e non solo), che erano bambini quando assistettero in diretta televisiva all’agonia e alla morte di Alfredino Rampi, caduto nel pozzo artesiano nella campagna di Vermicino agli inizi degli anni Ottanta.
Il bambino nel pozzo non solo diventa metafora di tutte le cadute, di tutti gli incubi, di tutte le situazioni di incastro psicologico che caratterizzano i protagonisti di questo libro, ma è anche il punto di partenza di un racconto politico e sociale della storia italiana degli anni Ottanta e Novanta, quella che – secondo Genna – ha gettato le fondamenta di ciò che siamo diventati.
Difficile definire questo libro, che è un romanzo, ma ha anche tanta verità storica all’interno, che è un’autobiografia, ma anche no, e che dentro ha anche un po’ di thriller, di fantascienza e di horror; che parla di persone realmente vissute, ma collega anche le vite individuali alla storia di un Paese in un modo in cui solo un romanzo può fare.
Dies irae non è una lettura facile, né pacifica, né pacificante.
La scrittura di Genna è profondamente disturbante, a tratti allucinata, attraversata da un’angoscia che non lascia spiragli al lettore, costringendolo a seguirlo negli abissi del suo dolore, della disperazione sua e di quella degli altri protagonisti del romanzo (Paola e Monica in particolare).
Una specie di ininterrotto flusso di coscienza, in cui si toccano abissi di dolore e di disperazione da cui il lettore non riesce in alcun modo a scappare. Eppure resta attaccato alle pagine di questo libro facendosi condurre dallo scrittore in questo viaggio allucinato ma a tratti illuminante, questo viaggio folle e lucidissimo al contempo, capace di togliere il velo da vicende, sensazioni, percezioni che hanno fatto parte delle nostre vite.
Insomma, il punto è: se volete affrontare il libro di Genna, armatevi di coraggio, corazzatevi ben bene, chiamate a raccolta tutta l’energia positiva che possedete e solo dopo buttatevi a capofitto in queste pagine. Ne sarete in qualche modo stregati.
Ma se lascerete che l’angoscia si faccia strada dentro di voi ne uscirete devastati e senza speranza. Da ogni singola pagina. Da ogni singola parola.
Non dite che non vi avevo avvertiti.
Voto: 3/5
“La sua vita è soffocante e priva d’aria” (p. 764). Così dice la psichiatra Manuela a Giuseppe Genna nelle ultimissime pagine del libro. Ebbene, questa stessa frase a mio modo di vedere può essere utilizzata per descrivere le quasi 800 pagine di questo libro.
La sensazione claustrofobica e senza via d’uscita che esso trasmette è infatti direttamente proporzionale all’animo livido e senza speranza del protagonista e narratore, ossia lo stesso Genna.
D’altra parte, il leitmotiv del libro è una vicenda fortemente claustrofobica, che ha segnato la memoria e gli incubi di tutti quelli della mia generazione (e non solo), che erano bambini quando assistettero in diretta televisiva all’agonia e alla morte di Alfredino Rampi, caduto nel pozzo artesiano nella campagna di Vermicino agli inizi degli anni Ottanta.
Il bambino nel pozzo non solo diventa metafora di tutte le cadute, di tutti gli incubi, di tutte le situazioni di incastro psicologico che caratterizzano i protagonisti di questo libro, ma è anche il punto di partenza di un racconto politico e sociale della storia italiana degli anni Ottanta e Novanta, quella che – secondo Genna – ha gettato le fondamenta di ciò che siamo diventati.
Difficile definire questo libro, che è un romanzo, ma ha anche tanta verità storica all’interno, che è un’autobiografia, ma anche no, e che dentro ha anche un po’ di thriller, di fantascienza e di horror; che parla di persone realmente vissute, ma collega anche le vite individuali alla storia di un Paese in un modo in cui solo un romanzo può fare.
Dies irae non è una lettura facile, né pacifica, né pacificante.
La scrittura di Genna è profondamente disturbante, a tratti allucinata, attraversata da un’angoscia che non lascia spiragli al lettore, costringendolo a seguirlo negli abissi del suo dolore, della disperazione sua e di quella degli altri protagonisti del romanzo (Paola e Monica in particolare).
Una specie di ininterrotto flusso di coscienza, in cui si toccano abissi di dolore e di disperazione da cui il lettore non riesce in alcun modo a scappare. Eppure resta attaccato alle pagine di questo libro facendosi condurre dallo scrittore in questo viaggio allucinato ma a tratti illuminante, questo viaggio folle e lucidissimo al contempo, capace di togliere il velo da vicende, sensazioni, percezioni che hanno fatto parte delle nostre vite.
Insomma, il punto è: se volete affrontare il libro di Genna, armatevi di coraggio, corazzatevi ben bene, chiamate a raccolta tutta l’energia positiva che possedete e solo dopo buttatevi a capofitto in queste pagine. Ne sarete in qualche modo stregati.
Ma se lascerete che l’angoscia si faccia strada dentro di voi ne uscirete devastati e senza speranza. Da ogni singola pagina. Da ogni singola parola.
Non dite che non vi avevo avvertiti.
Voto: 3/5
venerdì 15 gennaio 2016
Noi siamo infinito / Stephen Chbosky
Noi siamo infinito / Stephen Chbosky; trad. di Chiara Brovelli. Segrate (MI): Sperling & Kupfer, 2014.
Avevo visto il film tratto dal libro di Stephen Chbosky, The perks of being a wallflower (distribuito in Italia con il titolo Noi siamo infinito, che è poi traghettato anche alla nuova edizione del romanzo) pochissimo tempo fa e lo avevo adorato.
Quando nella piccola libreria di Conversano (di cui sono ormai una cliente affezionata) mi è caduto l'occhio sul romanzo, ho pensato che non potevo perdere l'occasione di leggerlo.
Ed eccomi quindi a leggere le lettere che il sedicenne Charlie scrive ad un amico immaginario per combattere lo stress dell'inizio del college e che lo accompagneranno per un intero anno, un anno che si rivelerà determinante nella vita del ragazzo.
Dei contenuti narrativi mi ricordavo praticamente tutto anche perché il film è estremamente fedele al romanzo e direi ne riproduce splendidamente le atmosfere anche grazie ai tre bravissimi e giovanissimi attori che ne interpretano i ruoli principali.
Charlie è un ragazzino sensibile e introverso che - come dice il titolo del romanzo - incarna perfettamente il topos del ragazzo da parete, ossia quello di cui nessuno si accorge, un po' imbranato, che non parla con nessuno alle feste e che le ragazze scelgono come amico ma non vedono mai come fidanzato.
L'anno scolastico comincia con la notizia del suicidio di un compagno di scuola, su cui il nostro antieroe si interrogherà a lungo.
Dopo un anno difficile ma decisivo il mondo di Charlie si sarà popolato di un insegnante che - capendo le potenzialità del ragazzo - lo aiuterà a fare un vero e proprio percorso formativo attraverso la letteratura, e soprattutto di due amici, Patrick, un gay dichiarato che ha una storia clandestina con il giocatore più in vista della squadra di baseball della scuola, e Sam, la sua sorellastra, di cui Charlie si innamorerà di un amore puro e destinato a non trovare realizzazione.
Durante questo anno, Charlie farà alcune di quelle prime esperienze importanti della vita che lo metteranno di fronte a se stesso e a quanto ha vissuto fino a quel momento: il rapporto con la sua famiglia e quell'episodio dell'infanzia che lo ha segnato per sempre, ma che non riesce a far emergere dal suo subconscio.
Noi siamo infinito è un libro sull'adolescenza, sull'amicizia, sull'amore, sulla famiglia e sul fatto che sapersi aprire all'amore degli altri è il risultato del proprio percorso volto ad amare noi stessi, un percorso che ha nell'adolescenza un momento determinante.
Detto così sembrerebbe una di quelle storie già sentite, già lette, già viste, e invece Chbosky dimostra di avere la capacità di rendere appieno la tenerezza, la dolcezza, l'insicurezza e la durezza di un'età della vita che è speciale perché è difficile e straordinaria al tempo stesso.
Vi ritroverete anche voi a sorridere e intenerirvi di fronte ad alcune uscite del protagonista che colpiscono per la loro semplicità, ma anche freschezza e profondità.
Un libro che fa bene al cuore e riempie di luce le aridità dell'età adulta, ricordandoci l'importanza di sentimenti che troppe volte diamo per scontati.
Voto: 4/5
Avevo visto il film tratto dal libro di Stephen Chbosky, The perks of being a wallflower (distribuito in Italia con il titolo Noi siamo infinito, che è poi traghettato anche alla nuova edizione del romanzo) pochissimo tempo fa e lo avevo adorato.
Quando nella piccola libreria di Conversano (di cui sono ormai una cliente affezionata) mi è caduto l'occhio sul romanzo, ho pensato che non potevo perdere l'occasione di leggerlo.
Ed eccomi quindi a leggere le lettere che il sedicenne Charlie scrive ad un amico immaginario per combattere lo stress dell'inizio del college e che lo accompagneranno per un intero anno, un anno che si rivelerà determinante nella vita del ragazzo.
Dei contenuti narrativi mi ricordavo praticamente tutto anche perché il film è estremamente fedele al romanzo e direi ne riproduce splendidamente le atmosfere anche grazie ai tre bravissimi e giovanissimi attori che ne interpretano i ruoli principali.
Charlie è un ragazzino sensibile e introverso che - come dice il titolo del romanzo - incarna perfettamente il topos del ragazzo da parete, ossia quello di cui nessuno si accorge, un po' imbranato, che non parla con nessuno alle feste e che le ragazze scelgono come amico ma non vedono mai come fidanzato.
L'anno scolastico comincia con la notizia del suicidio di un compagno di scuola, su cui il nostro antieroe si interrogherà a lungo.
Dopo un anno difficile ma decisivo il mondo di Charlie si sarà popolato di un insegnante che - capendo le potenzialità del ragazzo - lo aiuterà a fare un vero e proprio percorso formativo attraverso la letteratura, e soprattutto di due amici, Patrick, un gay dichiarato che ha una storia clandestina con il giocatore più in vista della squadra di baseball della scuola, e Sam, la sua sorellastra, di cui Charlie si innamorerà di un amore puro e destinato a non trovare realizzazione.
Durante questo anno, Charlie farà alcune di quelle prime esperienze importanti della vita che lo metteranno di fronte a se stesso e a quanto ha vissuto fino a quel momento: il rapporto con la sua famiglia e quell'episodio dell'infanzia che lo ha segnato per sempre, ma che non riesce a far emergere dal suo subconscio.
Noi siamo infinito è un libro sull'adolescenza, sull'amicizia, sull'amore, sulla famiglia e sul fatto che sapersi aprire all'amore degli altri è il risultato del proprio percorso volto ad amare noi stessi, un percorso che ha nell'adolescenza un momento determinante.
Detto così sembrerebbe una di quelle storie già sentite, già lette, già viste, e invece Chbosky dimostra di avere la capacità di rendere appieno la tenerezza, la dolcezza, l'insicurezza e la durezza di un'età della vita che è speciale perché è difficile e straordinaria al tempo stesso.
Vi ritroverete anche voi a sorridere e intenerirvi di fronte ad alcune uscite del protagonista che colpiscono per la loro semplicità, ma anche freschezza e profondità.
Un libro che fa bene al cuore e riempie di luce le aridità dell'età adulta, ricordandoci l'importanza di sentimenti che troppe volte diamo per scontati.
Voto: 4/5
mercoledì 13 gennaio 2016
Macbeth
La serata inizia con una lunghissima coda davanti al cinema dove danno Macbeth in lingua originale (e d’ora in poi prometto che pronuncerò sempre Mek’bef), nella quale davanti a noi c’è un gruppo di tre signore che si sono addirittura portato dietro il libro, mentre dietro di noi ci sono dei ragazzi e uno chiede se si tratta di una “commedia” di Shakespeare…
Io non ricordo se ho mai letto l’opera shakespeariana, né sono sicura di averla mai vista rappresentata; non mi sono d’altro canto neppure premurata di andarmi a riguardare la storia, cosicché arrivo – e forse per fortuna – quasi totalmente digiuna. A dire la verità la decisione di vedere questo film è stata stimolata più dalla presenza di Michael Fassbender e Marion Cotillard che da Shakespeare.
Devo dire però che il film di Justin Kurzel mi conquista nel suo complesso, e non solo per gli attori che mette in campo.
Innanzitutto, da un punto di vista visivo: la bellezza selvaggia, aspra e respingente delle Highlands fa da sfondo visivamente straordinario della storia di Macbeth. Dentro questo scenario che di per sé vale già l’intero film, il regista gioca due carte principali: la fedeltà linguistica al testo letterario (particolarmente apprezzabile in lingua originale) e la traduzione in immagini di un testo cupo e cruento qual è Macbeth.
Il racconto per immagini è infatti letteralmente intriso di sangue, di terra, di fuoco, di carne lacerata, di sporcizia, cui corrispondono sentimenti di ambizione, di crudeltà, di dolore, di lealtà, di follia, di pentimento. E questi uomini e donne così a contatto con le proprie viscere in senso letterale e metaforico sono in realtà burattini nelle mani di un destino (sotto le spoglie delle soprannaturali tre sorelle) che si fa beffe di loro.
Macbeth (Michael Fassbender) è un uomo valoroso, ma debole di fronte alle lusinghe del destino e alle provocazioni della moglie. Lady Macbeth (Marion Cotillard, che sfoggia un bell'accento inglese) è una donna rosa dall’ambizione, vera anima nera della storia, motore primo dell’omicidio efferato del re Duncan, impotente di fronte alla follia sempre più estrema del marito, infine perseguitata fino alla morte dalla scia di sangue che ha provocato.
Il film, anche in questo fedele all’originale shakespeariano, conserva nella narrazione elementi di ambiguità e incertezza, legati sia al ruolo del soprannaturale nell’intreccio sia al non perfetto realismo dei personaggi, che vanno interpretati come tali.
È indubbio che la versione di Justin Kurzel – per quanto fedele allo spirito shakespeariano – si nutra dell’immaginario con cui moltissima cinematografia e letteratura recente (non ultimo la saga de Il trono di spade) hanno alimentato il pubblico, cosicché in alcuni momenti il rischio di straniamento è dietro l’angolo. A me sembra però che questa versione moderna – senza essere modernista – di Macbeth non sarebbe dispiaciuta al grande Bardo. Ma forse è solo che ultimamente sono particolarmente buona.
Voto: 3,5/5
Io non ricordo se ho mai letto l’opera shakespeariana, né sono sicura di averla mai vista rappresentata; non mi sono d’altro canto neppure premurata di andarmi a riguardare la storia, cosicché arrivo – e forse per fortuna – quasi totalmente digiuna. A dire la verità la decisione di vedere questo film è stata stimolata più dalla presenza di Michael Fassbender e Marion Cotillard che da Shakespeare.
Devo dire però che il film di Justin Kurzel mi conquista nel suo complesso, e non solo per gli attori che mette in campo.
Innanzitutto, da un punto di vista visivo: la bellezza selvaggia, aspra e respingente delle Highlands fa da sfondo visivamente straordinario della storia di Macbeth. Dentro questo scenario che di per sé vale già l’intero film, il regista gioca due carte principali: la fedeltà linguistica al testo letterario (particolarmente apprezzabile in lingua originale) e la traduzione in immagini di un testo cupo e cruento qual è Macbeth.
Il racconto per immagini è infatti letteralmente intriso di sangue, di terra, di fuoco, di carne lacerata, di sporcizia, cui corrispondono sentimenti di ambizione, di crudeltà, di dolore, di lealtà, di follia, di pentimento. E questi uomini e donne così a contatto con le proprie viscere in senso letterale e metaforico sono in realtà burattini nelle mani di un destino (sotto le spoglie delle soprannaturali tre sorelle) che si fa beffe di loro.
Macbeth (Michael Fassbender) è un uomo valoroso, ma debole di fronte alle lusinghe del destino e alle provocazioni della moglie. Lady Macbeth (Marion Cotillard, che sfoggia un bell'accento inglese) è una donna rosa dall’ambizione, vera anima nera della storia, motore primo dell’omicidio efferato del re Duncan, impotente di fronte alla follia sempre più estrema del marito, infine perseguitata fino alla morte dalla scia di sangue che ha provocato.
Il film, anche in questo fedele all’originale shakespeariano, conserva nella narrazione elementi di ambiguità e incertezza, legati sia al ruolo del soprannaturale nell’intreccio sia al non perfetto realismo dei personaggi, che vanno interpretati come tali.
È indubbio che la versione di Justin Kurzel – per quanto fedele allo spirito shakespeariano – si nutra dell’immaginario con cui moltissima cinematografia e letteratura recente (non ultimo la saga de Il trono di spade) hanno alimentato il pubblico, cosicché in alcuni momenti il rischio di straniamento è dietro l’angolo. A me sembra però che questa versione moderna – senza essere modernista – di Macbeth non sarebbe dispiaciuta al grande Bardo. Ma forse è solo che ultimamente sono particolarmente buona.
Voto: 3,5/5
lunedì 11 gennaio 2016
Barbecue a dicembre. Villa Moltini e le colline picene
Ok, è arrivato proprio il momento di parlare di Villa Moltini, la casa-vacanze, agriturismo o come dir si voglia che il mio amico olandese M. ha preso in gestione, ristrutturato e aperto al pubblico qualche anno fa.
In realtà ci ero già stata circa un anno fa, ma questa volta la permanenza per ben quattro giorni ci ha consentito di godere a pieno di questo bellissimo posto.
Venerdì sera io e C. arriviamo dai due poli opposti dell’Italia convergendo sulla “metropoli” di Cupra Marittima. C. si è ricordata troppo tardi di fare il biglietto del treno e non ha trovato posto, così ha dovuto ripiegare su Bla Bla Car, che comunque si è rivelata un’ottima soluzione. Io arrivo invece in corriera direttamente da Roma con la comodissima linea Roma-Marche.
A Cupra, M. ci fa trovare la macchina, un Fiorino, in stazione, perché lui è a fare scorta di prosecco nel trevigiano.
Prima di andare verso Villa Moltini mangiamo un antipasto e un primo di pesce all’Osteria del Pescatore, poi seguendo le indicazioni che ci ha dato M. imbocchiamo la strada verso l’agriturismo e – anche aiutati da Google Maps – arriviamo a destinazione. M. ci ha riservato il grande appartamento del piano terra, dove brilla una stella di Natale accesa.
Il giorno seguente, dopo colazione, andiamo prima a Offida, paese del tombolo e del vino pecorino, e qui facciamo una seconda colazione e una passeggiata nel centro storico, senza farci mancare una visita all’Enoteca regionale che ci consente di farci un’idea dei vini del territorio.
Da Offida andiamo poi verso Ascoli Piceno, il cui centro storico ci affascina e per le cui stradine, piazze, chiostri, ci perdiamo volentieri. Dopo una breve sosta al Caffè Meletti che sembra uscito – anche con i suoi avventori – direttamente dai primi del Novecento, visto che è ora di pranzo cogliamo il suggerimento di M. e andiamo alla gastronomia Migliori, dove, dopo un certo numero di frittini e olive ascolane buonissime, non ci facciamo mancare delle costolette di agnello, nonché qualche buon bicchiere di rosso piceno. Torniamo poi verso il mare per fare un po’ di spesa e una passeggiata sul lungomare di San Benedetto del Tronto, non quello del molo di cemento, bensì quello dei bagni. Sta piovigginando e la spiaggia è abitata solo da qualche isolato gabbiano, ma è molto affascinante.
Intanto M. ci fa sapere che è tornato a casa, così ci dirigiamo anche noi verso Villa Moltini, dove ci accoglie una festante Tara, il bellissimo border collie di M.
Andiamo a visitare l’ecolodge dove M. vive e che lui stesso ha fatto realizzare nella proprietà dove si trova Villa Moltini, una casetta di circa 28 mq, che però ha tutto l’essenziale per viverci ed è perfettamente integrata nel contesto (tutta in legno e con il tetto giardino).
Beviamo la prima bottiglia di prosecco di questa tre giorni e poi M. dice di volerci portare a cena in una pizzeria napoletana a Ortezzano, Mamma Rosa, il cui pizzaiolo ha vinto il campionato mondiale della pizza. C’è un po’ da attendere ma lo facciamo volentieri anche perché ci aspetta una pizza napoletana veramente strepitosa e, prima, la cameriera ci ha anche portato dei pezzi di pasta di pizza fritti che sono buonissimi.
Andiamo a dormire felici.
L’indomani andiamo a fare una passeggiata a piedi a Carassai, il paesino che sta poco più in alto di Villa Moltini e ha un piccolo ma grazioso centro storico. Al ritorno sono attesa in cucina per preparare la pasta con i ceci neri con cui inizierà il nostro pranzo domenicale che vede ospiti anche due amici di M. La pasta e ceci trova l’apprezzamento di tutti; seguono del radicchio trevigiano con lo speck al forno e delle patate e peperoni al forno. Infine la torta di mele preparata dalla nostra ospite.
Dopo le chiacchiere decidiamo di andare a fare una passeggiata, prima per vedere il campo che M. sta per comprare in zona, poi per portare Tara a sfogarsi in spiaggia, dove la vedremo sfrecciare dentro e fuori dall’acqua per quasi un’ora.
La sera abbiamo solo la forza di un micropasto, un filmetto, e poi a nanna.
Il giorno dopo ci svegliamo in mezzo a una nuvola oltre la quale si vede il sole e l’atmosfera è immediatamente magica.
La mattina passa ancora una volta tra colline, campagne e paesini (ad esempio Petritoli) e quando torniamo a casa siamo pronti per il barbecue. Fuori fa freddo ma noi facciamo finta che sia luglio mentre grigliamo braciole e costine di maiale e prepariamo una grossa insalata con il cavolo cappuccio rosso dell’orto. Ed è subito festa.
Man mano che scende il buio sale una nebbia pazzesca, ma decidiamo lo stesso di andare prima a fare un giro a Ripatransone poi a fare visita alla cantina dell’azienda agricola Le Caniette, dove il proprietario ci fa assaggiare tutti i loro vini e ci racconta la filosofia che governa il loro modo di lavorare. Non possiamo andare via senza una cassa da sei bottiglie di vino.
Arrivati a casa prepariamo insieme a M. una tarte tatin che diventerà la nostra cena e colazione per l’indomani mattina.
Il giorno dopo, il sole ha lasciato il posto a una fitta nebbia e al cielo griglio, ma io e C. decidiamo lo stesso di fare una passeggiata a piedi in Val Menocchia. Imbocchiamo la stradina di campagna che ci porta di là del Menocchia e attraversiamo campagne e casette fino al punto in cui vediamo Villa Moltini dall’altra parte della valle, quindi torniamo indietro sazie di vedute e foto.
Oggi a pranzo ci aspetta “La bionda”, un posto assolutamente da locali a Pedaso, dove si mangia soprattutto pesce e la bionda non è decisamente come ve l’aspettate. Prendiamo un abbondante sauté di cozze e poi spaghetti allo scoglio e alle vongole, buonissimi!
Dopo aver accompagnato C. alla stazione di Pedaso, non può mancare per me, M. e Tara la passeggiata sulla spiaggia di Grottammare. Io e M. parliamo così fittamente che sto quasi per perdere la mia corriera, che alla fine prendo al volo da Grottammare anziché da Cupra.
Eccomi di nuovo nella città rutilante di luci e di vita, che oggi – e almeno per un po’ – mi fanno venire tanta nostalgia del silenzio e del cielo stellato di villa Moltini.
In realtà ci ero già stata circa un anno fa, ma questa volta la permanenza per ben quattro giorni ci ha consentito di godere a pieno di questo bellissimo posto.
Venerdì sera io e C. arriviamo dai due poli opposti dell’Italia convergendo sulla “metropoli” di Cupra Marittima. C. si è ricordata troppo tardi di fare il biglietto del treno e non ha trovato posto, così ha dovuto ripiegare su Bla Bla Car, che comunque si è rivelata un’ottima soluzione. Io arrivo invece in corriera direttamente da Roma con la comodissima linea Roma-Marche.
A Cupra, M. ci fa trovare la macchina, un Fiorino, in stazione, perché lui è a fare scorta di prosecco nel trevigiano.
Prima di andare verso Villa Moltini mangiamo un antipasto e un primo di pesce all’Osteria del Pescatore, poi seguendo le indicazioni che ci ha dato M. imbocchiamo la strada verso l’agriturismo e – anche aiutati da Google Maps – arriviamo a destinazione. M. ci ha riservato il grande appartamento del piano terra, dove brilla una stella di Natale accesa.
Il giorno seguente, dopo colazione, andiamo prima a Offida, paese del tombolo e del vino pecorino, e qui facciamo una seconda colazione e una passeggiata nel centro storico, senza farci mancare una visita all’Enoteca regionale che ci consente di farci un’idea dei vini del territorio.
Da Offida andiamo poi verso Ascoli Piceno, il cui centro storico ci affascina e per le cui stradine, piazze, chiostri, ci perdiamo volentieri. Dopo una breve sosta al Caffè Meletti che sembra uscito – anche con i suoi avventori – direttamente dai primi del Novecento, visto che è ora di pranzo cogliamo il suggerimento di M. e andiamo alla gastronomia Migliori, dove, dopo un certo numero di frittini e olive ascolane buonissime, non ci facciamo mancare delle costolette di agnello, nonché qualche buon bicchiere di rosso piceno. Torniamo poi verso il mare per fare un po’ di spesa e una passeggiata sul lungomare di San Benedetto del Tronto, non quello del molo di cemento, bensì quello dei bagni. Sta piovigginando e la spiaggia è abitata solo da qualche isolato gabbiano, ma è molto affascinante.
Intanto M. ci fa sapere che è tornato a casa, così ci dirigiamo anche noi verso Villa Moltini, dove ci accoglie una festante Tara, il bellissimo border collie di M.
Andiamo a visitare l’ecolodge dove M. vive e che lui stesso ha fatto realizzare nella proprietà dove si trova Villa Moltini, una casetta di circa 28 mq, che però ha tutto l’essenziale per viverci ed è perfettamente integrata nel contesto (tutta in legno e con il tetto giardino).
Beviamo la prima bottiglia di prosecco di questa tre giorni e poi M. dice di volerci portare a cena in una pizzeria napoletana a Ortezzano, Mamma Rosa, il cui pizzaiolo ha vinto il campionato mondiale della pizza. C’è un po’ da attendere ma lo facciamo volentieri anche perché ci aspetta una pizza napoletana veramente strepitosa e, prima, la cameriera ci ha anche portato dei pezzi di pasta di pizza fritti che sono buonissimi.
Andiamo a dormire felici.
L’indomani andiamo a fare una passeggiata a piedi a Carassai, il paesino che sta poco più in alto di Villa Moltini e ha un piccolo ma grazioso centro storico. Al ritorno sono attesa in cucina per preparare la pasta con i ceci neri con cui inizierà il nostro pranzo domenicale che vede ospiti anche due amici di M. La pasta e ceci trova l’apprezzamento di tutti; seguono del radicchio trevigiano con lo speck al forno e delle patate e peperoni al forno. Infine la torta di mele preparata dalla nostra ospite.
Dopo le chiacchiere decidiamo di andare a fare una passeggiata, prima per vedere il campo che M. sta per comprare in zona, poi per portare Tara a sfogarsi in spiaggia, dove la vedremo sfrecciare dentro e fuori dall’acqua per quasi un’ora.
La sera abbiamo solo la forza di un micropasto, un filmetto, e poi a nanna.
Il giorno dopo ci svegliamo in mezzo a una nuvola oltre la quale si vede il sole e l’atmosfera è immediatamente magica.
La mattina passa ancora una volta tra colline, campagne e paesini (ad esempio Petritoli) e quando torniamo a casa siamo pronti per il barbecue. Fuori fa freddo ma noi facciamo finta che sia luglio mentre grigliamo braciole e costine di maiale e prepariamo una grossa insalata con il cavolo cappuccio rosso dell’orto. Ed è subito festa.
Man mano che scende il buio sale una nebbia pazzesca, ma decidiamo lo stesso di andare prima a fare un giro a Ripatransone poi a fare visita alla cantina dell’azienda agricola Le Caniette, dove il proprietario ci fa assaggiare tutti i loro vini e ci racconta la filosofia che governa il loro modo di lavorare. Non possiamo andare via senza una cassa da sei bottiglie di vino.
Arrivati a casa prepariamo insieme a M. una tarte tatin che diventerà la nostra cena e colazione per l’indomani mattina.
Il giorno dopo, il sole ha lasciato il posto a una fitta nebbia e al cielo griglio, ma io e C. decidiamo lo stesso di fare una passeggiata a piedi in Val Menocchia. Imbocchiamo la stradina di campagna che ci porta di là del Menocchia e attraversiamo campagne e casette fino al punto in cui vediamo Villa Moltini dall’altra parte della valle, quindi torniamo indietro sazie di vedute e foto.
Oggi a pranzo ci aspetta “La bionda”, un posto assolutamente da locali a Pedaso, dove si mangia soprattutto pesce e la bionda non è decisamente come ve l’aspettate. Prendiamo un abbondante sauté di cozze e poi spaghetti allo scoglio e alle vongole, buonissimi!
Dopo aver accompagnato C. alla stazione di Pedaso, non può mancare per me, M. e Tara la passeggiata sulla spiaggia di Grottammare. Io e M. parliamo così fittamente che sto quasi per perdere la mia corriera, che alla fine prendo al volo da Grottammare anziché da Cupra.
Eccomi di nuovo nella città rutilante di luci e di vita, che oggi – e almeno per un po’ – mi fanno venire tanta nostalgia del silenzio e del cielo stellato di villa Moltini.