Nel mio personale immaginario cinematografico La la land si colloca in un qualche punto di mezzo tra Moulin Rouge e The artist, e - come nel caso di questi due film - l'ho guardato incantata e sicura già dopo i primi pochissimi minuti che la memoria di queste immagini mi sarebbe rimasta dentro.
La la land è il secondo film di Damien Chazelle, classe 1985, il regista di Whiplash, ed è un film-musical che racconta la storia d'amore tra Mia (Emma Stone), un'aspirante attrice, e Sebastian (Ryan Gosling), un aspirante pianista jazz. La loro vicenda è ambientata nella Los Angeles dei nostri giorni, anche se si respira un'aria di tempi passati, o forse meglio un'aria senza tempo in un luogo dove, non a caso, il trascorrere delle stagioni (che scandisce la narrazione) non produce quasi nessun cambiamento del clima e si vive dunque in quella perenne primavera che poi è in un certo senso metafora di Hollywood.
Da un punto di vista visivo, il film di Chazelle è puro godimento. La sequenza iniziale di canti e coreografie tra le macchine incolonnate su un'arteria ad alto scorrimento che porta in città sono da mandibola a terra e fanno scattare l'applauso del pubblico prima ancora che compaia sullo schermo il titolo del film. Poi la prima metà, quella che ci racconta le storie di Mia e di Sebastian e di come si incontrano e si innamorano, è un fuoco d'artificio di colori, di balletti, di canzoni e di autentici colpi di teatro che lasciano a bocca aperta, come ad esempio nella scena del balletto intorno alla piscina. La seconda parte è visivamente forse più tradizionale ed è anche meno musicale, e non è un caso perché corrisponde con le difficoltà di Mia e Sebastian di realizzare i propri sogni e anche di portare avanti la propria storia. E però non c'è mai un momento di stanchezza, perché quando il film si fa meno mirabolante e scoppiettante la storia diventa più intima ed emotivamente coinvolgente.
Da un punto di vista narrativo, quello di Chazelle è un film apparentemente semplice, quasi banale, che ad una lettura superficiale potrebbe anche deludere. Ma la verità è che dietro questa apparente semplicità c'è una stratificazione di letture possibili e di significati molto più articolata e complessa. È evidente che il film è un omaggio all'arte cinematografica ed è zeppo di citazioni, in parte esplicite ed evidenti a tutti, in parte più nascoste e accessibili solo a veri cinefili. Del resto la protagonista vuole fare l'attrice, lavora in un bar degli Studios di Hollywood, e divide casa con altre aspiranti attrici, una casa piena zeppa di locandine di film, dove nella stanza di Mia su tutto domina una gigantografia di Ingrid Bergman; al primo appuntamento Mia e Sebastian vanno a vedere Gioventù bruciata in un piccolo cinema d'essai che proietta ancora pellicole e quando la pellicola si interrompe sulla scena ambientata al Planetario di Griffith Park i due decidono di andarci in macchina e Chazelle ci regala non solo un'inquadratura perfettamente identica all'originale ma ambienta nell'osservatorio la sequenza più onirica e d'antan di tutto il film. Per il resto le riproduzioni di sequenze e modalità appartenenti all'immaginario cinematografico degli anni d'oro di Hollywood si sprecano, senza per questo risultare forzati o fastidiosi per lo spettatore.
Ma il vero omaggio alla settima arte dal mio punto di vista è la storia stessa di Mia e Sebastian, che a ben guardare è essa stessa metafora della parabola di Hollywood, dalla giocosità genuina e piena di sogni delle origini alle difficoltà di mantenersi fedele a questi sogni senza appiattirsi sulle necessità triviali fino alla definitiva realizzazione e al successo, che però hanno inevitabilmente lasciato indietro la naïveté della gioventù e quello che avrebbe potuto essere e non è stato.
La la land è un film pieno di nostalgia: la nostalgia delle cose che si perdono o che non ci sono più, di quello che bisogna lasciare indietro per andare avanti. E proprio in risposta a questa nostalgia è un film pieno di speranza nel potere dell'immaginazione che è capace di raccontare e inventare mediante le immagini quello che è stato e anche quello che non sarà mai.
Il film di Chazelle è un film sull'amore e sui sogni, essenza dell'umanità, che solo al cinema possono davvero sopravvivere per sempre.
La la land ha già vinto 7 Golden Globe ed è candidato a 14 Oscar; le recensioni negative sono infinitesimali a confronto della pioggia di apprezzamenti che arrivano da pubblico e critica. E normalmente in questi casi lo snobismo è lì dietro l'angolo ad attenderci e spingerci ad essere fuori dal coro. Stavolta però voglio essere e sarò mainstream. La la land è un film che, secondo me, rimarrà a lungo nella memoria cinematografica e forse Chazelle doveva approdare al cinema anche solo per regalarci questo piccolo gioiello.
Ah! Dimenticavo... se potete, andatelo a vedere in lingua originale!
Voto: 4/5
lunedì 30 gennaio 2017
giovedì 26 gennaio 2017
The founder
Il film di John Lee Hancock racconta la storia della nascita dell’impero McDonald’s, in particolare attraverso la figura di Ray Kroc (Michael Keaton).
Siamo nell’America degli anni Cinquanta. Kroc vende frullatori per ristoranti senza grandi soddisfazioni, ma un giorno conosce i fratelli Dick e Mac McDonald’s che hanno creato un rivoluzionario chiosco per la vendita di hamburger, patatine e bibite. I due fratelli hanno studiato la formula di ristorazione dal principio alla fine e sono riusciti nel risultato straordinario di realizzare ottimi hamburger in tempi rapidissimi (grazie a un’organizzazione del lavoro quasi fordiana) e a costi bassissimi (ottenuti non abbassando la qualità ma eliminando l’inessenziale).
Ray Kroc si innamora dell’idea e sottoscrive un accordo con i due fratelli per aiutarli nella creazione di filiali. Ben presto però Kroc percepisce la possibilità di un’espansione senza precedenti dei chioschi McDonald’s identificati dai due archi dorati e vede i due fratelli, troppo legati ai loro principi, come un ostacolo alla creazione di un impero. Grazie al suo fiuto per gli affari e per le persone, Kroc non solo riesce a portare McDonald’s in tutta l’America, ma – spostando il suo business sull’immobiliare, ossia sull’acquisto dei terreni da dare in concessione agli affiliati McDonald’s – trasforma la sua attività in una Corporation e mette definitivamente da parte i due fratelli.
The founder è un film ben fatto e magnificamente interpretato da Michael Keaton, ma non è solo questo: è un film che - nel suo impianto apparentemente semplice e facilmente leggibile - mostra a poco a poco molta più complessità di quanto appaia a una visione superficiale.
Kroc racchiude il suo successo nella parola “perseveranza”, ma sappiamo benissimo che l’impero da lui costruito non è il risultato dell’impegno solo di un uomo caparbio, bensì anche di un uomo capace di passare sopra qualunque scrupolo etico pur di raggiungere l’obiettivo. In un certo senso i fratelli McDonald’s rappresentano un’America più tradizionale, in cui l’obiettivo del profitto trova sempre un confine chiaro nella qualità del prodotto e nel rispetto per le persone, mentre Ray Kroc rappresenta l’espressione di un’America neoliberista e ormai sulla strada del turbocapitalismo per la quale l’ambizione e il profitto sono gli unici fattori da tenere presenti.
Ma il film rifugge a una rappresentazione manichea e, se all’apparenza è evidente che i fratelli McDonald’s sono i buoni, defraudati della loro idea geniale e del loro nome, mentre Ray Kroc è il cattivo senza scrupoli, ad una riflessione più ponderata ci si accorge che il cattivo non è solo cattivo: Kroc è sinceramente ammirato dalla realizzazione dei McDonald’s ed è sinceramente convinto dell’opportunità di diffonderla fuori dai confini di San Bernardino. E in questa operazione, in cui i due fratelli hanno fallito, dimostra di avere delle qualità, del fiuto, una grande capacità di intessere relazioni, e di spendersi anche in prima persona. Il fatto è che di fronte a un’espansione senza limiti Kroc perde qualunque self-restrain e finisce per vedere solo la possibilità di un’impresa grandiosa in cui al centro c’è lui.
Nel mondo gli uomini come Kroc sono quelli che non si fanno fermare da niente e per questo sono capaci di grandi imprese; peccato che non tutte le imprese siano altrettanto utili e positive per l’umanità tutta.
Non è difficile riconoscere nella parabola di McDonald’s le vie di tante imprese economiche che conosciamo e con un po’ di tristezza dobbiamo ammettere che la strategia di Kroc è ormai a fondamento di tutta l’economia contemporanea.
Voto: 3,5/5
Siamo nell’America degli anni Cinquanta. Kroc vende frullatori per ristoranti senza grandi soddisfazioni, ma un giorno conosce i fratelli Dick e Mac McDonald’s che hanno creato un rivoluzionario chiosco per la vendita di hamburger, patatine e bibite. I due fratelli hanno studiato la formula di ristorazione dal principio alla fine e sono riusciti nel risultato straordinario di realizzare ottimi hamburger in tempi rapidissimi (grazie a un’organizzazione del lavoro quasi fordiana) e a costi bassissimi (ottenuti non abbassando la qualità ma eliminando l’inessenziale).
Ray Kroc si innamora dell’idea e sottoscrive un accordo con i due fratelli per aiutarli nella creazione di filiali. Ben presto però Kroc percepisce la possibilità di un’espansione senza precedenti dei chioschi McDonald’s identificati dai due archi dorati e vede i due fratelli, troppo legati ai loro principi, come un ostacolo alla creazione di un impero. Grazie al suo fiuto per gli affari e per le persone, Kroc non solo riesce a portare McDonald’s in tutta l’America, ma – spostando il suo business sull’immobiliare, ossia sull’acquisto dei terreni da dare in concessione agli affiliati McDonald’s – trasforma la sua attività in una Corporation e mette definitivamente da parte i due fratelli.
The founder è un film ben fatto e magnificamente interpretato da Michael Keaton, ma non è solo questo: è un film che - nel suo impianto apparentemente semplice e facilmente leggibile - mostra a poco a poco molta più complessità di quanto appaia a una visione superficiale.
Kroc racchiude il suo successo nella parola “perseveranza”, ma sappiamo benissimo che l’impero da lui costruito non è il risultato dell’impegno solo di un uomo caparbio, bensì anche di un uomo capace di passare sopra qualunque scrupolo etico pur di raggiungere l’obiettivo. In un certo senso i fratelli McDonald’s rappresentano un’America più tradizionale, in cui l’obiettivo del profitto trova sempre un confine chiaro nella qualità del prodotto e nel rispetto per le persone, mentre Ray Kroc rappresenta l’espressione di un’America neoliberista e ormai sulla strada del turbocapitalismo per la quale l’ambizione e il profitto sono gli unici fattori da tenere presenti.
Ma il film rifugge a una rappresentazione manichea e, se all’apparenza è evidente che i fratelli McDonald’s sono i buoni, defraudati della loro idea geniale e del loro nome, mentre Ray Kroc è il cattivo senza scrupoli, ad una riflessione più ponderata ci si accorge che il cattivo non è solo cattivo: Kroc è sinceramente ammirato dalla realizzazione dei McDonald’s ed è sinceramente convinto dell’opportunità di diffonderla fuori dai confini di San Bernardino. E in questa operazione, in cui i due fratelli hanno fallito, dimostra di avere delle qualità, del fiuto, una grande capacità di intessere relazioni, e di spendersi anche in prima persona. Il fatto è che di fronte a un’espansione senza limiti Kroc perde qualunque self-restrain e finisce per vedere solo la possibilità di un’impresa grandiosa in cui al centro c’è lui.
Nel mondo gli uomini come Kroc sono quelli che non si fanno fermare da niente e per questo sono capaci di grandi imprese; peccato che non tutte le imprese siano altrettanto utili e positive per l’umanità tutta.
Non è difficile riconoscere nella parabola di McDonald’s le vie di tante imprese economiche che conosciamo e con un po’ di tristezza dobbiamo ammettere che la strategia di Kroc è ormai a fondamento di tutta l’economia contemporanea.
Voto: 3,5/5
martedì 24 gennaio 2017
Amuleto / con Maria Paiato. Teatro India, 19 gennaio 2017
Lasciamo stare che sono stanchissima e che dopo dieci minuti che lo spettacolo è iniziato mi rendo conto che non ho la chiave del motorino né in tasca né in borsa e che mi tocca uscire al volo per scoprire che le chiavi sono appese al bauletto e per fortuna nessuno mi ha rubato il motorino. Lasciamo stare che il testo di Roberto Bolaño è piuttosto impegnativo nella mescolanza continua di reale e immaginario. Lasciamo stare che ogni tanto la mia mente si distrae e viaggia.
Però resta il fatto che il personaggio di Auxilio Lacoutoure che sta per un’ora e mezza sul palco con in mano un bicchiere che contiene un fiore rosso e ci racconta di come dall’Uruguay è arrivata in Messico, dove ha frequentato poeti e scrittori, e di come il 18 settembre 1968 quando l’esercito fece irruzione nell’università per portare via i dissidenti lei si trovava nel bagno e lì rimase fino a quando i soldati non andarono via, è una specie di centro di gravitazione di storie, di emozioni, di visioni, di racconti di vita e di racconti immaginati, di personaggi reali e inventati.
E tutto questo trova una straordinaria interprete in Maria Paiato, che sul palcoscenico del Teatro India si fa Auxilio e ci cattura con le sue parole, ci trascina nel suo mondo immaginifico senza darci un attimo di tregua.
Questo flusso ininterrotto di parole ci può stordire, così come innamorarci. Il risultato è sostanzialmente lo stesso, ossia la sensazione alla fine dello spettacolo che qualcosa ci ha travolto, e che quel qualcosa è la straordinaria bravura e il magnetismo di Maria Paiato, che con questo ruolo si conferma una delle interpreti più brave che calcano oggi i palchi teatrali.
Il pubblico lo sa e all’accensione delle luci, sulle note di Todo cambia, la omaggia con un applauso lunghissimo, direi interminabile, che emoziona persino questa attrice navigata. E non importa se – come me – altri non hanno capito proprio tutto, non sono riusciti a seguire le evoluzioni ardite del racconto di Auxilio, perché quello che importa è aver vissuto per un’ora e mezza la magia pura del teatro, quella per cui una sola persona su un palco con una luce puntata addosso può diventare chiunque e portarci in un altro mondo.
Voto: 3,5/5
Però resta il fatto che il personaggio di Auxilio Lacoutoure che sta per un’ora e mezza sul palco con in mano un bicchiere che contiene un fiore rosso e ci racconta di come dall’Uruguay è arrivata in Messico, dove ha frequentato poeti e scrittori, e di come il 18 settembre 1968 quando l’esercito fece irruzione nell’università per portare via i dissidenti lei si trovava nel bagno e lì rimase fino a quando i soldati non andarono via, è una specie di centro di gravitazione di storie, di emozioni, di visioni, di racconti di vita e di racconti immaginati, di personaggi reali e inventati.
E tutto questo trova una straordinaria interprete in Maria Paiato, che sul palcoscenico del Teatro India si fa Auxilio e ci cattura con le sue parole, ci trascina nel suo mondo immaginifico senza darci un attimo di tregua.
Questo flusso ininterrotto di parole ci può stordire, così come innamorarci. Il risultato è sostanzialmente lo stesso, ossia la sensazione alla fine dello spettacolo che qualcosa ci ha travolto, e che quel qualcosa è la straordinaria bravura e il magnetismo di Maria Paiato, che con questo ruolo si conferma una delle interpreti più brave che calcano oggi i palchi teatrali.
Il pubblico lo sa e all’accensione delle luci, sulle note di Todo cambia, la omaggia con un applauso lunghissimo, direi interminabile, che emoziona persino questa attrice navigata. E non importa se – come me – altri non hanno capito proprio tutto, non sono riusciti a seguire le evoluzioni ardite del racconto di Auxilio, perché quello che importa è aver vissuto per un’ora e mezza la magia pura del teatro, quella per cui una sola persona su un palco con una luce puntata addosso può diventare chiunque e portarci in un altro mondo.
Voto: 3,5/5
giovedì 19 gennaio 2017
L’estate diabolika / scritto da Thierry Smolderen; disegnato da Alexandre Clerisse
L’estate diabolika / scritto da Thierry Smolderen; disegnato da Alexandre Clérisse. Milano: Bao Publishing, 2015.
Il fumetto scritto da Smolderen e disegnato da Clérisse costituisce un prodotto piuttosto originale nel panorama dei graphic novel. In un certo senso, L’estate diabolika è una specie di gioco narrativo che gli autori ingaggiano con i lettori. Dopo il frontespizio vero e proprio troviamo infatti un secondo frontespizio fittizio a firma di Antoine Lafarge, il protagonista del racconto, il cui retro riporta un copyright del 1987 e una nota dell’editore che avvisa il lettore del fatto che, dopo la prima edizione del racconto, l’autore ha voluto aggiungere una seconda parte in quanto ha nel frattempo acquisito informazioni che hanno permesso di spiegare gli eventi di vent’anni prima.
La prima parte della storia si svolge infatti nell’estate del 1967, l’estate durante la quale il quindicenne Antoine si trova al centro di una serie di eventi più o meno misteriosi che vedono protagonisti suo padre, l’amico Erik, mister De Noè e coloro che frequentano la sua ricca casa, la giovane Joan e molti altri.
L’estate diabolika sarà un momento determinante per la vita di Antoine, che farà la sua prima esperienza sessuale, prenderà i suoi primi acidi, vivrà la sua prima delusione amorosa, si ritroverà al centro di un vero e proprio intrigo internazionale e perderà suo padre che – dopo lo scontro con l’uomo mascherato – sparirà.
Nella seconda parte, un Antoine ormai adulto prova a ricostruire come sono andate effettivamente le cose, anche grazie a una serie di informazioni ed eventi intervenuti nel frattempo.
Quello di Smolderen e Clerisse è un vero e proprio omaggio agli anni Sessanta, e lo è sia dal punto di vista narrativo, per la storia raccontata e la presenza della figura dell’uomo mascherato (di cui si racconta la storia e il significato nelle ultime pagine dell’albo), sia dal punto di vista visivo, non solo per acconciature, abbigliamento, automobili e ambientazioni, ma anche per il tipo di disegni e l’utilizzo dei colori.
Tutta la prima parte dell’albo tratteggia un mondo fortemente psichedelico che raggiunge ovviamente il suo culmine nel momento in cui Antoine prende l’acido, cosicché il trip nel quale il lettore è stato risucchiato diventa pieno. La seconda parte assume invece colorazioni e forme più realistiche ad eccezione che nei ricordi e nelle ricostruzioni.
L’estate diabolika è un divertissement a fumetti tramite il quale il lettore può lasciarsi andare a un puro godimento senza pretese intellettuali, esattamente come quando da adolescenti si andava puntuali a comprare il fumetto preferito in edicola per trascorrere un paio d’ore in un mondo parallelo e tutto nostro.
Voto: 3,5/5
Il fumetto scritto da Smolderen e disegnato da Clérisse costituisce un prodotto piuttosto originale nel panorama dei graphic novel. In un certo senso, L’estate diabolika è una specie di gioco narrativo che gli autori ingaggiano con i lettori. Dopo il frontespizio vero e proprio troviamo infatti un secondo frontespizio fittizio a firma di Antoine Lafarge, il protagonista del racconto, il cui retro riporta un copyright del 1987 e una nota dell’editore che avvisa il lettore del fatto che, dopo la prima edizione del racconto, l’autore ha voluto aggiungere una seconda parte in quanto ha nel frattempo acquisito informazioni che hanno permesso di spiegare gli eventi di vent’anni prima.
La prima parte della storia si svolge infatti nell’estate del 1967, l’estate durante la quale il quindicenne Antoine si trova al centro di una serie di eventi più o meno misteriosi che vedono protagonisti suo padre, l’amico Erik, mister De Noè e coloro che frequentano la sua ricca casa, la giovane Joan e molti altri.
L’estate diabolika sarà un momento determinante per la vita di Antoine, che farà la sua prima esperienza sessuale, prenderà i suoi primi acidi, vivrà la sua prima delusione amorosa, si ritroverà al centro di un vero e proprio intrigo internazionale e perderà suo padre che – dopo lo scontro con l’uomo mascherato – sparirà.
Nella seconda parte, un Antoine ormai adulto prova a ricostruire come sono andate effettivamente le cose, anche grazie a una serie di informazioni ed eventi intervenuti nel frattempo.
Quello di Smolderen e Clerisse è un vero e proprio omaggio agli anni Sessanta, e lo è sia dal punto di vista narrativo, per la storia raccontata e la presenza della figura dell’uomo mascherato (di cui si racconta la storia e il significato nelle ultime pagine dell’albo), sia dal punto di vista visivo, non solo per acconciature, abbigliamento, automobili e ambientazioni, ma anche per il tipo di disegni e l’utilizzo dei colori.
Tutta la prima parte dell’albo tratteggia un mondo fortemente psichedelico che raggiunge ovviamente il suo culmine nel momento in cui Antoine prende l’acido, cosicché il trip nel quale il lettore è stato risucchiato diventa pieno. La seconda parte assume invece colorazioni e forme più realistiche ad eccezione che nei ricordi e nelle ricostruzioni.
L’estate diabolika è un divertissement a fumetti tramite il quale il lettore può lasciarsi andare a un puro godimento senza pretese intellettuali, esattamente come quando da adolescenti si andava puntuali a comprare il fumetto preferito in edicola per trascorrere un paio d’ore in un mondo parallelo e tutto nostro.
Voto: 3,5/5
martedì 17 gennaio 2017
Qualcuno volò sul nido del cuculo /regia di Alessandro Gassmann. Teatro Eliseo, 14 gennaio 2017
Devo premettere – e so di suscitare le espressioni scandalizzate di molti – che non ho visto il film di Miloš Forman interpretato da Jack Nicholson. Il che è certamente una grossa mancanza, che non mi permette di fare un confronto con una trasposizione più fedele del testo del romanzo di Ken Kesey pubblicato nel 1962, ma forse allo stesso tempo rappresenta un vantaggio perché mi permette di approcciare l’adattamento teatrale scritto da Maurizio De Giovanni e diretto da Alessandro Gassmann senza preconcetti né immagini mentali già costituite.
Questa trasposizione sposta la storia del protagonista originale, Randle Patrick McMurphy, ambientata nell’ospedale psichiatrico di Salem in California, presso l’ospedale psichiatrico di Aversa nel 1982 e il nome del protagonista diventa Dario Denise (ottimamente interpretato da Daniele Russo), così come conseguentemente tutti gli altri protagonisti vengono riletti in questa ottica.
La storia è appunto quella di Dario, un piccolo delinquente che per sfuggire al carcere si finge pazzo e finisce appunto in un reparto dell’ospedale psichiatrico. Qui a poco a poco si rende conto della disumanità dell’ambiente che lo circonda, sottoposto alle rigide regole di suor Lucia (la capo infermiera interpretata da Elisabetta Valgoi) e incapace - anzi senza alcun desiderio - di comprendere realmente e di riportare alla vita le persone che qui dentro sono rinchiuse in parte volontariamente: il professore che non riesce a convivere con il suo essere gay, il ragazzo schiacciato dal ruolo della madre, il romagnolo ossessionato dal sesso, l’artista folle che disegna in aria, lo schizofrenico e Ramon, un omone sudamericano che è una presenza silenziosa sul palcoscenico, ma ai cui sogni è affidata la tristezza e l’aspirazione all’affrancamento che accomuna tutte queste persone.
In breve tempo, Dario – che è fumantino e giocatore d’azzardo e all’inizio vede nei suoi compagni una possibilità di fare soldi – si lega di amicizia vera a questa persone e inizia una personale battaglia contro la capo infermiera che lo porterà a rinunciare alla sua libertà e a mettere a rischio la sua stessa esistenza.
Il palco è allestito in modo efficace con una scenografia che si articola su due piani: quello della sala comune dell’ospedale psichiatrico con il gabbiotto del personale da una parte e il bagno dall’altra, e il secondo piano dove ci sono solo porte chiuse con ombre di persone che si agitano e si lamentano. Solo in un momento dello spettacolo i nostri protagonisti usciranno all’aperto sul tetto dell’ospedale trovandosi davanti al panorama del golfo di Napoli.
Alessandro Gassmann, che è sempre più spostato sulla regia teatrale ma è certamente uomo di cinema e di televisione, anche in questo caso – come già avevo visto in 7 minuti – utilizza il telo trasparente calato davanti alla scena su cui, quando la scena è buia vengono proiettate immagini che sono sogni o distorsioni della realtà.
Il risultato è uno spettacolo molto coinvolgente in cui si ride e in alcuni momenti si piange, e ci si arrabbia e si fa il tifo esattamente come i nostri protagonisti davanti alla finale dei mondiali di calcio in cui l’Italia sconfigge la Germania.
Durante le oltre 2 ore e mezza di spettacolo non c’è un momento di stanchezza e il ritmo si mantiene alto e serrato. Cosicché quando il telo si solleva finalmente per portarci a contatto diretto con gli attori il pubblico dell’Eliseo (non numerosissimo) dimostra di aver apprezzato molto e io pure batto le mani convintamente.
A luci spente poi mi rendo conto di aver assistito a uno spettacolo certamente intelligente e coraggioso, che porta l’attenzione su un tema ancora attuale, ossia la condizione di difficoltà pratica e psicologica dei malati di mente e la difficoltà sociale di affrontare queste situazioni, ma all’interno di un testo che mostra i suoi anni, in particolare nel manicheismo con cui i buoni, su tutti Dario, si contrappongono ai cattivi, la capo infermiera, senza che nessuna sfumatura intervenga a stimolare una lettura più complessa e a comprendere il groviglio psicologico che si crea in questo tipo di contesti.
Ma, del resto, capisco che questo è un testo di denuncia e mantiene questa caratteristica anche nella trasposizione di De Giovanni e Gassmann e, in un’opera di denuncia, il messaggio deve essere forte e chiaro e non c’è spazio per sfumature che producano scappatoie.
Dunque, un plauso a regista e adattatore che hanno avuto il coraggio di confrontarsi con un testo cult senza timori reverenziali e conferendo alla rappresentazione una identità al contempo rispettosa dell’originale ma anche assolutamente personale.
Voto: 3/5
giovedì 12 gennaio 2017
La fine dell’estate / Giulio Macaione
La fine dell’estate / Giulio Macaione. [Autoprodotto], 2016.
Dopo aver letto Basilicò di Giulio Macaione sono andata a spulciare nel blog del fumettista e un po’ su Internet in generale per conoscere un po’ meglio questo artista e magari provare a leggere qualcos’altro.
Mi ha incuriosita il fatto che Giulio Macaione si è autoprodotto un fumetto che vende su Etsy e così ho deciso di sostenere questa sua interessante iniziativa e l’ho comprato. Sono stata tra le fortunate persone che hanno potuto avere la loro copia con un disegno e una dedica personalizzati, che mi sono piaciuti molto.
La fine dell’estate è un piccolo albo a colori, tutto virato sul giallo e sul blu, con dei disegni molto belli e ricchi di dettagli (come è tipico di Macaione) e che racconta una piccola storia: un weekend di fine estate in cui Carlo torna nella sua Sicilia per passare del tempo con due amici di infanzia, Elena e Matteo. Il weekend sarà l’occasione per ritrovare tutto quello che Carlo si è lasciato indietro, il mare, il vento, le piccole follie, la spensieratezza, le colonne sonore dell’adolescenza, ma anche per capire che il tempo passa per tutti e che – se l’amicizia resta – la vita va avanti e ognuno è chiamato a costruire il proprio se stesso adulto.
Carlo ha qualcuno o qualcuna che lo aspetta nel luogo dove ha scelto di vivere, Matteo si sta per sposare ma non sappiamo niente della futura moglie, Elena ha da sempre un debole per Matteo ma un segreto da nascondere. Per tutti loro questo weekend è una parentesi nel flusso degli eventi, ma la vita va avanti, non sempre esattamente nella direzione che vogliamo e non tutti i nostri sogni di adolescenti sono destinati a realizzarsi; però – pur senza voltare le spalle al passato, a quello che eravamo, ai nostri affetti, al mondo dal quale veniamo – ognuno sceglie come essere pienamente se stesso, come corrispondere il più possibile all’immagine che ha di se stesso e dove è la propria casa.
Alla fine dell’albo trovate anche la playlist che attraversa questo ultimo weekend d’estate. E Giulio Macaione si conferma autore capace di mescolare continuamente il mondo interno ed esterno ai suoi fumetti in modo intelligente e stimolante.
Un autore da seguire con attenzione.
Voto: 3,5/5
Dopo aver letto Basilicò di Giulio Macaione sono andata a spulciare nel blog del fumettista e un po’ su Internet in generale per conoscere un po’ meglio questo artista e magari provare a leggere qualcos’altro.
Mi ha incuriosita il fatto che Giulio Macaione si è autoprodotto un fumetto che vende su Etsy e così ho deciso di sostenere questa sua interessante iniziativa e l’ho comprato. Sono stata tra le fortunate persone che hanno potuto avere la loro copia con un disegno e una dedica personalizzati, che mi sono piaciuti molto.
La fine dell’estate è un piccolo albo a colori, tutto virato sul giallo e sul blu, con dei disegni molto belli e ricchi di dettagli (come è tipico di Macaione) e che racconta una piccola storia: un weekend di fine estate in cui Carlo torna nella sua Sicilia per passare del tempo con due amici di infanzia, Elena e Matteo. Il weekend sarà l’occasione per ritrovare tutto quello che Carlo si è lasciato indietro, il mare, il vento, le piccole follie, la spensieratezza, le colonne sonore dell’adolescenza, ma anche per capire che il tempo passa per tutti e che – se l’amicizia resta – la vita va avanti e ognuno è chiamato a costruire il proprio se stesso adulto.
Carlo ha qualcuno o qualcuna che lo aspetta nel luogo dove ha scelto di vivere, Matteo si sta per sposare ma non sappiamo niente della futura moglie, Elena ha da sempre un debole per Matteo ma un segreto da nascondere. Per tutti loro questo weekend è una parentesi nel flusso degli eventi, ma la vita va avanti, non sempre esattamente nella direzione che vogliamo e non tutti i nostri sogni di adolescenti sono destinati a realizzarsi; però – pur senza voltare le spalle al passato, a quello che eravamo, ai nostri affetti, al mondo dal quale veniamo – ognuno sceglie come essere pienamente se stesso, come corrispondere il più possibile all’immagine che ha di se stesso e dove è la propria casa.
Alla fine dell’albo trovate anche la playlist che attraversa questo ultimo weekend d’estate. E Giulio Macaione si conferma autore capace di mescolare continuamente il mondo interno ed esterno ai suoi fumetti in modo intelligente e stimolante.
Un autore da seguire con attenzione.
Voto: 3,5/5
martedì 10 gennaio 2017
Letizia Battaglia. Per pura passione. – The Japanese house. Architettura e vita dal 1945 a oggi. MAXXI, 6 gennaio 2017
In una Epifania che più fredda non si può, io e C. decidiamo di uscire in motorino per andare al MAXXI a vedere due mostre. Torneremo surgelate, ma contente di aver passato qualche ora nel bellissimo museo progettato da Zaha Hadid.
La prima mostra che abbiamo puntato è quella dedicata alla fotografa Letizia Battaglia, per me praticamente sconosciuta, cosa che mi rende l’occasione particolarmente ghiotta. Letizia Battaglia è palermitana ed è arrivata al fotogiornalismo dopo i 40 anni, nel pieno della stagione della guerra di mafia in Sicilia.
Per decenni, tra gli anni Settanta e Novanta, la Battaglia è stata, con la sua macchina fotografica, una delle testimoni più presenti nella cronaca siciliana, soprattutto quella relativa agli assassini di mafia. Sua è una famosissima fotografia di Leoluca Bagarella al momento dell’arresto.
La mostra propone un primo pannello che, su una pianta della città di Palermo, localizza una serie di fotografie della Battaglia in piccolo formato (10x15), per testimoniare quanto la città è appartenuta a questa donna e quanto questa donna è appartenuta – in un rapporto di amore e odio – a questa città. Seguono un paio di sale con selezioni delle sue foto, sia quelle dei fatti di cronaca e utilizzate dai giornali, sia quelle che documentano la gente della città di Palermo, gli sconosciuti, i poveri, ma anche i nobili e gli artisti. In queste sale ci sono anche due schermi che mandano dei video con interviste alla fotografa, un’occasione sempre imperdibile che aiuta a comprendere l’umanità dell’artista al di là della macchina fotografica. Ne viene fuori l’immagine di una donna piena di energia, una combattente, che tardi ha consentito alla sua personalità di esprimersi appieno, ma quando lo ha fatto si è espansa in tante direzioni, non solo la fotografia, ma anche l’editoria e il teatro, cui sono dedicate le due sale successive della mostra.
Alla fine una grande sala propone un’installazione chiamata “Anthologia”, in cui campeggiano sospese e disposte in modo perfettamente simmetrico un centinaio di foto della Battaglia, che ne documentano tutte le anime e tutte le espressioni fotografiche. Lo spazio così allestito è bellissimo e invita a passeggiare attraverso le foto in modo sia ordinato, ma anche disordinato, per cogliere tutte le sfumature di una fotografa istintiva e difficile da racchiudere in schemi precisi.
Una mostra bellissima. Una fotografa da scoprire.
La successiva tappa – dopo una breve visita alla sezione dedicata a Carlo Scarpa e il Giappone – è la mostra dedicata alla Japanese house, che è una vera e propria immersione non solo nell’architettura residenziale di questo paese così come si è evoluta nel tempo, ma anche nella vita e nella cultura di un popolo che nel rapporto con lo spazio ha sempre definito se stesso.
La lotta perenne contro la ristrettezza degli spazi, l’evoluzione del concetto di famiglia, il rapporto con le tradizioni sono gli elementi che hanno influenzato nel tempo il modo in cui gli architetti, spesso in dialogo stretto con i committenti, hanno progettato le case: dalle piccolissime abitazioni di minuscoli lotti a Tokio alle ville residenziali in zone a più bassa densità abitativa. L’elemento comune resta però sempre il desiderio di realizzare, attraverso il gioco delle cubature e delle volumetrie, dei vuoti per consentire la presenza di piccoli spazi di natura e connettere le persone con il mondo esterno.
Se ne esce convinti ancora di più della particolarità e della complessità della cultura giapponese, che questa mostra contribuisce in parte a portare in luce, ma che – credo – sia davvero difficile da comprendere a fondo per chi non vi appartiene.
Comunque una mostra ricchissima e bellissima che fa sognare viaggi in mondi lontani e ci fa immaginare seduti sui tatami di queste case affascinanti e misteriose al contempo.
Voto: 4/5
La prima mostra che abbiamo puntato è quella dedicata alla fotografa Letizia Battaglia, per me praticamente sconosciuta, cosa che mi rende l’occasione particolarmente ghiotta. Letizia Battaglia è palermitana ed è arrivata al fotogiornalismo dopo i 40 anni, nel pieno della stagione della guerra di mafia in Sicilia.
Per decenni, tra gli anni Settanta e Novanta, la Battaglia è stata, con la sua macchina fotografica, una delle testimoni più presenti nella cronaca siciliana, soprattutto quella relativa agli assassini di mafia. Sua è una famosissima fotografia di Leoluca Bagarella al momento dell’arresto.
La mostra propone un primo pannello che, su una pianta della città di Palermo, localizza una serie di fotografie della Battaglia in piccolo formato (10x15), per testimoniare quanto la città è appartenuta a questa donna e quanto questa donna è appartenuta – in un rapporto di amore e odio – a questa città. Seguono un paio di sale con selezioni delle sue foto, sia quelle dei fatti di cronaca e utilizzate dai giornali, sia quelle che documentano la gente della città di Palermo, gli sconosciuti, i poveri, ma anche i nobili e gli artisti. In queste sale ci sono anche due schermi che mandano dei video con interviste alla fotografa, un’occasione sempre imperdibile che aiuta a comprendere l’umanità dell’artista al di là della macchina fotografica. Ne viene fuori l’immagine di una donna piena di energia, una combattente, che tardi ha consentito alla sua personalità di esprimersi appieno, ma quando lo ha fatto si è espansa in tante direzioni, non solo la fotografia, ma anche l’editoria e il teatro, cui sono dedicate le due sale successive della mostra.
Alla fine una grande sala propone un’installazione chiamata “Anthologia”, in cui campeggiano sospese e disposte in modo perfettamente simmetrico un centinaio di foto della Battaglia, che ne documentano tutte le anime e tutte le espressioni fotografiche. Lo spazio così allestito è bellissimo e invita a passeggiare attraverso le foto in modo sia ordinato, ma anche disordinato, per cogliere tutte le sfumature di una fotografa istintiva e difficile da racchiudere in schemi precisi.
Una mostra bellissima. Una fotografa da scoprire.
La successiva tappa – dopo una breve visita alla sezione dedicata a Carlo Scarpa e il Giappone – è la mostra dedicata alla Japanese house, che è una vera e propria immersione non solo nell’architettura residenziale di questo paese così come si è evoluta nel tempo, ma anche nella vita e nella cultura di un popolo che nel rapporto con lo spazio ha sempre definito se stesso.
La lotta perenne contro la ristrettezza degli spazi, l’evoluzione del concetto di famiglia, il rapporto con le tradizioni sono gli elementi che hanno influenzato nel tempo il modo in cui gli architetti, spesso in dialogo stretto con i committenti, hanno progettato le case: dalle piccolissime abitazioni di minuscoli lotti a Tokio alle ville residenziali in zone a più bassa densità abitativa. L’elemento comune resta però sempre il desiderio di realizzare, attraverso il gioco delle cubature e delle volumetrie, dei vuoti per consentire la presenza di piccoli spazi di natura e connettere le persone con il mondo esterno.
Se ne esce convinti ancora di più della particolarità e della complessità della cultura giapponese, che questa mostra contribuisce in parte a portare in luce, ma che – credo – sia davvero difficile da comprendere a fondo per chi non vi appartiene.
Comunque una mostra ricchissima e bellissima che fa sognare viaggi in mondi lontani e ci fa immaginare seduti sui tatami di queste case affascinanti e misteriose al contempo.
Voto: 4/5
sabato 7 gennaio 2017
Lion – La strada verso casa
Saroo è un bambino indiano che vive in un piccolo villaggio con la madre, il fratello maggiore Guddu e la sorella minore. Sua madre fa la bracciante e raccoglie pietre in una cava, mentre Guddu fa piccoli lavoretti e piccoli furti per sostenere la famiglia. Un giorno Guddu esce per lavorare di notte e Saroo vuole andare con lui, ma arrivati a destinazione con il treno, Saroo ha sonno e il fratello gli dice di aspettarlo sulla panchina fino al suo ritorno. Ma Saroo si sveglia nel cuore della notte e, non trovando il fratello, sale su un treno e si addormenta. Quando si sveglia il treno è in viaggio per una destinazione lontanissima, a oltre 1600 chilometri da casa.
Qui inizia la sua avventura tra le folle di Calcutta, i bambini di strada, gli approfittatori, i riformatori, fino all'adozione da parte di una famiglia australiana che vive in Tasmania e che oltre a lui adotta un altro bambino indiano, molto più problematico.
Quando Saroo (Dev Patel) diventa grande e va a studiare a Melbourne, grazie alla sua fidanzata Lucy (Rooney Mara) e ad alcuni amici comincia a coltivare il sogno di ricostruire da dove arriva e ritrovare la sua famiglia d'origine. Inizierà a questo punto una nuova avventura che diventerà per Saroo una vera e propria ossessione e lo allontanerà temporaneamente da tutti gli affetti che si è costruito.
Lion ha il fascino tipico delle storie vere e che è tanto maggiore quanto più incredibile è la storia cui stiamo assistendo, come nel caso qui raccontato.
Il regista Garth Davis preme ripetutamente sul tasto emotivo, come forse era inevitabile, e dunque preparatevi a piangere a più riprese nel corso del film e a singhiozzare sui titoli di coda quando si vedono foto e video dei veri protagonisti.
Ovviamente, dal punto di vista cinematografico tutto è piuttosto scontato e prevedibile e sappiamo fin dall'inizio che stiamo assistendo a una storia a parziale lieto fine. Alcuni personaggi, che pure appartengono alla vera vicenda del protagonista, ad esempio il fratello adottivo, non vengono molto approfonditi, e altri, ad esempio la madre adottiva (interpretata da Nicole Kidman), appaiono piuttosto stucchevoli.
Comunque il risultato finale è garantito e il film – anche piuttosto lungo – si fa seguire senza sforzi.
Io sono al cinema con il mio nipote adolescente e durante la proiezione mi immagino che si stia rompendo tantissimo, o almeno così sembra. E invece all'uscita mi dice che tutto sommato gli è piaciuto, e si sofferma su alcuni dettagli narrativi che io nemmeno avevo notato!
Insomma, un perfetto film di Natale per farsi un bel pianto liberatorio in famiglia!
Voto: 3/5
Qui inizia la sua avventura tra le folle di Calcutta, i bambini di strada, gli approfittatori, i riformatori, fino all'adozione da parte di una famiglia australiana che vive in Tasmania e che oltre a lui adotta un altro bambino indiano, molto più problematico.
Quando Saroo (Dev Patel) diventa grande e va a studiare a Melbourne, grazie alla sua fidanzata Lucy (Rooney Mara) e ad alcuni amici comincia a coltivare il sogno di ricostruire da dove arriva e ritrovare la sua famiglia d'origine. Inizierà a questo punto una nuova avventura che diventerà per Saroo una vera e propria ossessione e lo allontanerà temporaneamente da tutti gli affetti che si è costruito.
Lion ha il fascino tipico delle storie vere e che è tanto maggiore quanto più incredibile è la storia cui stiamo assistendo, come nel caso qui raccontato.
Il regista Garth Davis preme ripetutamente sul tasto emotivo, come forse era inevitabile, e dunque preparatevi a piangere a più riprese nel corso del film e a singhiozzare sui titoli di coda quando si vedono foto e video dei veri protagonisti.
Ovviamente, dal punto di vista cinematografico tutto è piuttosto scontato e prevedibile e sappiamo fin dall'inizio che stiamo assistendo a una storia a parziale lieto fine. Alcuni personaggi, che pure appartengono alla vera vicenda del protagonista, ad esempio il fratello adottivo, non vengono molto approfonditi, e altri, ad esempio la madre adottiva (interpretata da Nicole Kidman), appaiono piuttosto stucchevoli.
Comunque il risultato finale è garantito e il film – anche piuttosto lungo – si fa seguire senza sforzi.
Io sono al cinema con il mio nipote adolescente e durante la proiezione mi immagino che si stia rompendo tantissimo, o almeno così sembra. E invece all'uscita mi dice che tutto sommato gli è piaciuto, e si sofferma su alcuni dettagli narrativi che io nemmeno avevo notato!
Insomma, un perfetto film di Natale per farsi un bel pianto liberatorio in famiglia!
Voto: 3/5