In una Epifania che più fredda non si può, io e C. decidiamo di uscire in motorino per andare al MAXXI a vedere due mostre. Torneremo surgelate, ma contente di aver passato qualche ora nel bellissimo museo progettato da Zaha Hadid.
La prima mostra che abbiamo puntato è quella dedicata alla fotografa Letizia Battaglia, per me praticamente sconosciuta, cosa che mi rende l’occasione particolarmente ghiotta. Letizia Battaglia è palermitana ed è arrivata al fotogiornalismo dopo i 40 anni, nel pieno della stagione della guerra di mafia in Sicilia.
Per decenni, tra gli anni Settanta e Novanta, la Battaglia è stata, con la sua macchina fotografica, una delle testimoni più presenti nella cronaca siciliana, soprattutto quella relativa agli assassini di mafia. Sua è una famosissima fotografia di Leoluca Bagarella al momento dell’arresto.
La mostra propone un primo pannello che, su una pianta della città di Palermo, localizza una serie di fotografie della Battaglia in piccolo formato (10x15), per testimoniare quanto la città è appartenuta a questa donna e quanto questa donna è appartenuta – in un rapporto di amore e odio – a questa città. Seguono un paio di sale con selezioni delle sue foto, sia quelle dei fatti di cronaca e utilizzate dai giornali, sia quelle che documentano la gente della città di Palermo, gli sconosciuti, i poveri, ma anche i nobili e gli artisti. In queste sale ci sono anche due schermi che mandano dei video con interviste alla fotografa, un’occasione sempre imperdibile che aiuta a comprendere l’umanità dell’artista al di là della macchina fotografica. Ne viene fuori l’immagine di una donna piena di energia, una combattente, che tardi ha consentito alla sua personalità di esprimersi appieno, ma quando lo ha fatto si è espansa in tante direzioni, non solo la fotografia, ma anche l’editoria e il teatro, cui sono dedicate le due sale successive della mostra.
Alla fine una grande sala propone un’installazione chiamata “Anthologia”, in cui campeggiano sospese e disposte in modo perfettamente simmetrico un centinaio di foto della Battaglia, che ne documentano tutte le anime e tutte le espressioni fotografiche. Lo spazio così allestito è bellissimo e invita a passeggiare attraverso le foto in modo sia ordinato, ma anche disordinato, per cogliere tutte le sfumature di una fotografa istintiva e difficile da racchiudere in schemi precisi.
Una mostra bellissima. Una fotografa da scoprire.
La successiva tappa – dopo una breve visita alla sezione dedicata a Carlo Scarpa e il Giappone – è la mostra dedicata alla Japanese house, che è una vera e propria immersione non solo nell’architettura residenziale di questo paese così come si è evoluta nel tempo, ma anche nella vita e nella cultura di un popolo che nel rapporto con lo spazio ha sempre definito se stesso.
La lotta perenne contro la ristrettezza degli spazi, l’evoluzione del concetto di famiglia, il rapporto con le tradizioni sono gli elementi che hanno influenzato nel tempo il modo in cui gli architetti, spesso in dialogo stretto con i committenti, hanno progettato le case: dalle piccolissime abitazioni di minuscoli lotti a Tokio alle ville residenziali in zone a più bassa densità abitativa. L’elemento comune resta però sempre il desiderio di realizzare, attraverso il gioco delle cubature e delle volumetrie, dei vuoti per consentire la presenza di piccoli spazi di natura e connettere le persone con il mondo esterno.
Se ne esce convinti ancora di più della particolarità e della complessità della cultura giapponese, che questa mostra contribuisce in parte a portare in luce, ma che – credo – sia davvero difficile da comprendere a fondo per chi non vi appartiene.
Comunque una mostra ricchissima e bellissima che fa sognare viaggi in mondi lontani e ci fa immaginare seduti sui tatami di queste case affascinanti e misteriose al contempo.
Voto: 4/5
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