(Per la prima e la seconda parte delle recensioni si veda qui e qui)
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Vado a vedere il film di Sean Baker senza sapere che lui è un regista di culto (ma anche sceneggiatore, montatore e direttore della fotografia): lo capisco dall'applauso affettuoso del pubblico quando arriva in sala. Io non ho visto i suoi film precedenti, e dunque non so davvero cosa aspettarmi, così mi lascio andare alle immagini che scorrono sullo schermo.
Red Rocket è la storia di Mickey (Simon Rex), un ex attore pornografico che, rimasto senza lavoro, senza casa e senza soldi, decide di tornare a vivere da sua moglie, con cui ha un passato piuttosto burrascoso. Quest'ultima vive in una casetta di legno alla periferia di Texas City, in un'area quasi a ridosso delle grandi strutture industriali per la raffinazione del petrolio con tanto di ciminiere che sbuffano veleni.
Mickey è quello che io definerei un ca**one: un uomo che si avvia alla mezza età, ma si comporta ancora come un adolescente in piena crisi ormonale, che non ha alcun rispetto per i sentimenti degli altri, che pensa solo ai propri interessi e al proprio tornaconto personale. Insomma, decisamente insopportabile. Eppure l'interpretazione di Simon Rex e le modalità di costruzione della storia fanno sì che lo spettatore riesca persino ad affezionarsi a questo ragazzone parecchio infantile, fors'anche perché un po' tutto il mondo che lo circonda è a suo modo anomalo ed estremo, criticabile e commovente al contempo. Penso alla moglie, al vicino di casa, alla giovanissima commessa con cui Mickey finisce a letto.
Il film di Baker - dentro una confezione che certamente richiama certo cinema di genere degli anni Settanta, soprattutto italiano, e sullo sfondo di una realtà sociale di profondissima e drammatica emarginazione - riesce a mettere in scena gag estremamente divertenti e a trascinare lo spettatore nella rocambolesca vita di Mickey, sempre in bilico tra dramma e commedia, alla stesso modo in cui il contesto, pur degradato, a tratti vira verso il kitsch o addirittura il fiabesco (ovviamente ironico).
Nel complesso un film molto originale, con una cifra stilistica molto particolare e in cui si trattano temi anche importanti con un approccio apparentemente ca**one come quello del protagonista.
Voto: 3,5/5
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La croisade = La crociata
In un Auditorium della Conciliazione gremito di gente arriva Louis Garrel in persona a parlarci del suo ultimo film, La croisade. Garrel, che ha avuto una relazione con Valeria Bruni Tedeschi e ora è sposato con Laetitia Casta, parla benissimo l'italiano, e dice di essere particolarmente interessato al modo in cui i suoi film vengono accolti in Italia. Nello specifico del film in programmazione, il regista (nonché attore) ci dice che la sceneggiatura era stata scritta diversi anni fa da Jean-Claude Carrière, ma a quel tempo lui l'aveva considerata poco credibile. Nel tempo però il tema dell'emergenza climatica è diventato sempre più attuale e Carrière - che nel frattempo è morto - ha dimostrato di avere ragione a voler raccontare questa storia. A questo punto Garrel ha deciso di girare questo film dedicandolo appunto al suo profetico co-sceneggiatore.
Si tratta di un film che dura poco più di un'ora e che parla di un gruppo di bambini e ragazzini che si sono organizzati per avviare un'azione a livello globale finalizzata a salvare il pianeta dalla sua fine annunciata. Uno di questi bambini è Joseph (Joseph Engel), il figlio di Abel (Louis Garrel) e Marianne (Laetitia Casta), il quale - come i suoi coetanei - ha venduto degli oggetti della casa e di proprietà dei suoi genitori per raccogliere i fondi per questa impresa.
Inizialmente i suoi genitori sono arrabbiati e increduli, ma a poco a poco capiscono che Joseph e i suoi amici fanno sul serio, e decidono dunque di supportarli e di fare la loro parte.
La croisade è costruito come una favola ecologista, che mette al centro della riflessione i bambini e il loro complesso mondo interiore, che spesso gli adulti non comprendono o rispetto al quale sono in profondo ritardo.
Un film che conferma ancora una volta la sensibilità e l'attenzione particolari che la società francese sta dedicando negli ultimi anni al tema della sostenibilità ambientale del nostro modello di vita. Un modo sicuramente meno drammatico per parlarne, ma - chissà - magari ancora più efficace.
Voto: 3/5
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Futura
Futura - che, come viene confermato durante la presentazione del film dagli stessi registi, è il neutro plurale latino e sta dunque per "le cose che verranno" - è un film collettivo realizzato da tre registi italiani già molto conosciuti, Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, coadiuvati sul piano scientifico da Stefano Laffi, economista e sociologo.
Si tratta sostanzialmente di un film documentario, la cui idea iniziale era nata nel 2019 e le cui riprese erano cominciate all'inizio del 2020, per poi dover fare i conti con la pandemia e i vari lockdown. Il progetto era quello di intervistare giovani italiani, presi non singolarmente ma all'interno di gruppi di appartenenza o per loro identitari, per conoscere il loro punto di vista in particolare sul futuro, sia quello individuale sia quello della società (in questo è abbastanza sorprendente il richiamo con un altro film del festival, ossia C 'mon C'mon).
I registi effettuano queste interviste in diverse parti dell'Italia, cercando di coprire Nord, Centro e Sud e diverse provenienze sociali, nonché diversi contesti sia urbani che rurali.
Ne viene fuori un quadro al contempo omogeneo e diversificato. Si notano le differenze nell'articolazione e nella complessità dei punti di vista secondo la provenienza dei ragazzi e il contesto nel quale si muovono, ma nello stesso tempo tutti sono accomunati da una disillusione forte e da una ridotta speranza rispetto al futuro.
Alcune cose sorprendono (oltre a essere un pochino deprimenti): il permanere di una visione di futuro molto diversificata tra uomini e donne (i primi in molti casi vogliono fare i calciatori, e le seconde vogliono mettere su famiglia), lo scarso riconoscimento dell'importanza dello studio e dell'istruzione, l'assenza di qualunque dimensione collettiva che vada al di là della propria famiglia e del proprio gruppo di amici, la mancanza di memoria storica (i ragazzi che studiano alle scuole Diaz restano muti quando gli viene chiesto cosa sia successo a Genova nel 2001), cose che si accompagnano a paure più tipicamente adolescenziali e giovanili, come quella di essere giudicati o non essere accettati.
Dall'altro lato, i giovani - almeno a parole - sembrano aver completamente sdoganato temi legati alla moralità e ai diritti delle minoranze (che considerano cose da vecchi) e mostrano per certi versi una consapevolezza rispetto al contesto che forse la mia generazione non aveva (cosa che ha due facce della medaglia: il cadere di certe forme di ingenuità, e insieme un cinismo eccessivo per l'età).
La scelta del film di considerare sempre le interviste come qualcosa da svolgersi in gruppo può aver condizionato le risposte o le non risposte dei singoli, e indubbiamente il quadro che emerge dal film, come quello che emerge da tutte le ricerche sociali, è parziale e non rappresentativo in termini statistici, però ci dice molto degli umori e delle sensazioni di questa generazione.
Io devo dire che in questa fase della mia vita ci ho visto più elementi per deprimersi che elementi di speranza, sebbene la conoscenza diretta di alcuni giovani che conosco certamente meglio mi dice in parte il contrario. Ma non v'è dubbio che il cinismo che questa generazione ha sviluppato per eccesso di esposizione alla realtà dovrebbe far pensare e per quanto mi riguarda non mi mette affatto tranquilla.
Voto: 3/5
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