Da quest’anno i ragazzi di Unplugged in Monti – da sempre alla ricerca di location interessanti per i loro concerti – hanno preso dimora allo Spazio Diamante, un bel teatro sulla via Prenestina dove qualche tempo fa ero andata ad ascoltare il concerto di Any Other.
Il loro arrivo allo spazio Diamante ha anche rivitalizzato il baretto a esso collegato, Goccia Ristoro permanente, che l’ultima volta che ero venuta faceva davvero tristezza. Quindi, bene così, e avanti tutta!
La mia stagione Unplugged in Monti comincia quest’anno con il concerto di Laura Gibson, la cantautrice americana originaria di un paesino dell’Oregon dal nome di Coquille e poi trasferitasi a Portland dove ha iniziato la sua carriera di musicista. Il suo ultimo album, Goners, è uscito circa un anno fa e ora la cantante è in tour per farlo conoscere al pubblico europeo. Questa romana è l’unica data italiana, mentre curiosamente la cantante ha già fatto diversi concerti e ne farà ancora in Norvegia. Forse lì è particolarmente nota e apprezzata, chissà!
Il concerto di Laura Gibson appartiene a quella tipologia di concerti che io chiamo minimali. E non è soltanto perché sul palco c’è solo la cantante con la sua chitarra, una minuscola tastiera (dice Laura che è l’unica misura che entra nel bagaglio con cui viaggia) e un amplificatore, ma anche per l’atteggiamento timido, quasi dimesso, della musicista e per lo stile complessivo delle sue canzoni.
Non direi mai che un concerto ad esempio di Joan as Police Woman, anche in versione solo, sia un concerto minimale, perché la personalità strabordante della cantautrice e il suo modo di stare sul palco producono una percezione di pienezza e si impongono al pubblico in ogni caso.
Laura Gibson, invece, fin dal momento in cui entra in scena sembra quasi scusarsi di essere lì. Metà del suo volto è coperto dai capelli lunghissimi che lei – con un gesto quasi ossessivo – sposta continuamente sulla sua spalla destra. La cantante americana inizia subito con i brani del suo ultimo album, Slow joke grin, Thomas, Domestication, Marjory. Poi via via il concerto si allarga al resto del suo repertorio con canzoni quali Tenderness, Empire builder, Not harmless, Damn sure, Certainty.
Alla fine ci avrà cantato il suo ultimo album praticamente per intero, con ampie aperture anche sul precedente Empire builder e qualche prelievo da lavori ancora più datati come If you come to greet me.
Pur nel suo fare un po’ ritroso e con la sua voce sottile, a tratti infantile, Laura Gibson riesce a creare un’atmosfera calda e accogliente e, a poco a poco, la sua timidezza lascia il posto a un atteggiamento più sciolto e rilassato: Laura dice che è la sua prima volta a Roma ed è contenta di aver potuto un po’ godere della città essendosi fermata qualche giorno. Ci ringrazia per la pasta (!) e tutto il resto, e dice che conta di tornare presto.
Poi ci racconta gli antefatti, le storie e le motivazioni che stanno dietro alcune delle canzoni che ci regala e verso la fine ci offre una performance davvero unplugged. Stacca il filo della sua chitarra, avanza sul palco, avvicinandosi agli spettatori e uscendo dallo spot di luce. Vuole cantare nella penombra – dice – ma il tecnico delle luci evidentemente non la capisce e sposta l’occhio di bue su di lei. Il pubblico si fa sentire cercando di comunicare le intenzioni della cantante, e alla fine il risultato è che tutte le luci vengono spente e nel silenzio più totale – oltre che nel buio quasi completo – Laura Gibson canta e suona e lo fa davvero come se lo facesse soltanto per noi.
Alle ultime canzoni dice che la sua performance è quasi finita e che lei preferisce evitare il balletto dei bis, ossia “far finta di uscire” per poi tornare richiamata dal pubblico e dice dunque che canterà tutto subito e poi andrà via. Il pubblico lì per lì acconsente, ma – non so se perché non ha veramente capito oppure perché non ci sta a chiudere la serata così – alla fine la richiama a gran voce. Dopo averci chiesto se vogliamo una canzone allegra o triste, Laura prima ci propone una canzone più ritmata, Two kids, e dopo le suppliche del pubblico conclude con quella che secondo lei è la canzone più triste del suo repertorio, I don't want your voice to move me.
A questo punto siamo davvero pronti per lasciarla andare, o magari per incontrarla dopo, in modo più informale, al banchetto dove sono in vendita i suoi cd e vinili.
Voto: 3/5
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