Un adulterio / Edoardo Albinati. Milano: Rizzoli, 2017.
Considerato che Albinati è quello di La scuola cattolica, il tomone che l'anno scorso ha vinto il Premio Strega, al confronto è difficile considerare Un adulterio poco più che un racconto.
Si tratta di un libretto che si legge in poche ore: racconta un weekend che Clem e Erri, entrambi sposati, entrambi con figli, trascorrono in vacanza da amanti sull'isola del Giglio.
Il tema decisamente non è nuovo.
Clem e Erri si sono conosciuti per caso e la chimica tra loro li ha spinti l'uno nelle braccia dell'altra. La loro è una relazione di natura primariamente fisica e sessuale, e all'esplorazione di questo territorio è per la maggior parte dedicato questo weekend insieme, nonché all'esperienza di una vita parallela, libera dalle pesantezze della quotidianità e dalla routine del conosciuto.
Ma una relazione siffatta può sopravvivere in questi termini oltre la durata di un weekend di vacanza insieme? E davvero una tale relazione nasce sempre dalla crisi del rapporto in corso, dalla fine dell'amore precedente? La nuova relazione può essere veramente sostitutiva della relazione stabile che si ha?
Un adulterio è una cosa diversa da un matrimonio, e le due cose sono in qualche modo complementari (e quasi indispensabili l'una all'altra) finché ciascuna rimane quello che è.
Il racconto di Albinati - pur riproponendo un topos letterario ampiamente sviscerato da numerosi autori - ci offre in qualche modo una prospettiva parzialmente originale ed entra nella psiche dei protagonisti in una maniera nuova e non certo pacificante sul piano emotivo.
Non una lettura di quelle che lasciano il segno, ma di quelle che valgono sempre la pena.
Voto: 3/5
mercoledì 30 agosto 2017
venerdì 25 agosto 2017
L'altro volto della speranza
Dentro questo film ci sono sostanzialmente due storie parallele (oltre a numerose altre collaterali) che a un certo punto si incrociano: quella di Wilkström (Sakari Kuosmanen), che si separa dalla moglie, vende lo stock di camicie che ha in magazzino, vince una grossa cifra a poker e cambia vita acquistando un ristorante, e quella di Khaled (Sherwan Haji) che è arrivato in Finlandia un po' per caso con una nave cargo dopo essere scappato mesi prima insieme alla sorella dalla città bombardata di Aleppo in Siria.
Immaginate uno sceneggiato televisivo anni Settanta, tipo l'Ispettore Derrick. Stessa atmosfera, stessa mestizia, ma con un tocco di humour e di grottesco in più. Ebbene, ora inserite dentro questo scenario le storie vere di profughi che sono fuggiti dal loro paese in guerra per salvarsi e costruirsi un'altra vita.
Il risultato è il film di Aki Kaurismäki. A dire la verità chi conosce questo regista e ha già incontrato i suoi film in precedenza, sa che l'impianto narrativo e visivo tra il retrò e il grottesco è una sua caratteristica tipica: le sue storie sono ambientate in una Finlandia veramente poco contemporanea, in cui vivono persone che si muovono tra il grottesco e il malinconico. Dunque, da questo punto di vista non sembra esserci nulla di nuovo.
La novità vera nasce dal contrasto tra tutto ciò e il personaggio di Khaled (ma anche gli altri rifugiati protagonisti), che raccontano storie credibili, hanno tristezze vere negli occhi, vivono paure più che reali e hanno desideri e ambizioni normali, ma si scontrano con un sistema di accoglienza che si è sempre più irrigidito e con una società che oscilla tra l'accoglienza e la radicalizzazione.
L'effetto curioso che nasce dall'incontro tra questi due mondi è al contempo un contrasto e una mescolanza, cosicché Khaled e i suoi amici conferiscono un po' di realismo al buffo consesso umano nel quale sono capitati e insieme ne assorbono quella malinconia grottesca, attenuando quel sentore di buonismo che talvolta diventa quasi stucchevole.
Voto: 3,5/5
Immaginate uno sceneggiato televisivo anni Settanta, tipo l'Ispettore Derrick. Stessa atmosfera, stessa mestizia, ma con un tocco di humour e di grottesco in più. Ebbene, ora inserite dentro questo scenario le storie vere di profughi che sono fuggiti dal loro paese in guerra per salvarsi e costruirsi un'altra vita.
Il risultato è il film di Aki Kaurismäki. A dire la verità chi conosce questo regista e ha già incontrato i suoi film in precedenza, sa che l'impianto narrativo e visivo tra il retrò e il grottesco è una sua caratteristica tipica: le sue storie sono ambientate in una Finlandia veramente poco contemporanea, in cui vivono persone che si muovono tra il grottesco e il malinconico. Dunque, da questo punto di vista non sembra esserci nulla di nuovo.
La novità vera nasce dal contrasto tra tutto ciò e il personaggio di Khaled (ma anche gli altri rifugiati protagonisti), che raccontano storie credibili, hanno tristezze vere negli occhi, vivono paure più che reali e hanno desideri e ambizioni normali, ma si scontrano con un sistema di accoglienza che si è sempre più irrigidito e con una società che oscilla tra l'accoglienza e la radicalizzazione.
L'effetto curioso che nasce dall'incontro tra questi due mondi è al contempo un contrasto e una mescolanza, cosicché Khaled e i suoi amici conferiscono un po' di realismo al buffo consesso umano nel quale sono capitati e insieme ne assorbono quella malinconia grottesca, attenuando quel sentore di buonismo che talvolta diventa quasi stucchevole.
Voto: 3,5/5
mercoledì 23 agosto 2017
L'uovo fuori dal cavagno / Margherita Giacobino
L'uovo fuori dal cavagno / Margherita Giacobino. Roma: Elliot, 2010.
Che bello questo doppio romanzo di formazione che ci racconta del passaggio dall'adolescenza all'età adulta di due giovanissime: da un lato Gioia, figlia unica che abita con i genitori gestori di un ristorante, esuberante, aspirante scrittrice, con una immaginazione fervida che traduce in disegni, innamorata di Stef, la ragazza apparentemente perfetta, quasi campionessa di nuoto; dall'altro Debora, sorella di Stef con cui divide la stanza, alle spalle una famiglia molto borghese sull'orlo di una crisi di nervi, comincia a frequentare il collettivo Alice e si innamora di Bea, che però non è portata per la monogamia e nemmeno per le relazioni stabili.
Nel libro della brava Margherita Giacobino ci sono tutto il malessere e al contempo la bellezza dei 16 anni, quell'età in cui sei alla ricerca della te stessa che sarà e, per farlo, da un lato hai bisogno di prendere le distanze dai genitori e dalla famiglia, dall'altro non puoi fare a meno delle conferme esterne.
Un'età piena di potenzialità e insicurezze, che si esprimono a tutti i livelli e in massima parte a livello sentimentale, in quelle prime esperienze che tutti noi ricordiamo con un misto di imbarazzo e di tenerezza.
Se poi questo passaggio all'età adulta porta con sé anche la necessità di rivelare al mondo la propria diversità per poter essere pienamente se stessi la difficoltà cresce esponenzialmente.
E in questo libro assume risvolti a volte drammatici, ma il più delle volte quasi comici (o meglio sono comici per noi che leggiamo, ma non possiamo che solidarizzare con le protagoniste e soffrire con loro se solo ci caliamo nei loro panni).
Tutti i personaggi raccontati da Margherita Giacobino sono fortemente credibili e a tratti incredibilmente veri, soprattutto se guardati dalla visuale di due sedicenni.
In questo libro non ci sono - com'è giusto che sia - buoni e cattivi, ma solo persone che si confrontano con età diverse della vita, che fanno quello che possono, a volte sbagliano, a volte fanno la cosa giusta, e che - tutti - anelano a proprio modo a un po' di felicità in quel marasma confuso e imprevedibile, ma anche entusiasmante che è la vita.
Voto: 4/5
Che bello questo doppio romanzo di formazione che ci racconta del passaggio dall'adolescenza all'età adulta di due giovanissime: da un lato Gioia, figlia unica che abita con i genitori gestori di un ristorante, esuberante, aspirante scrittrice, con una immaginazione fervida che traduce in disegni, innamorata di Stef, la ragazza apparentemente perfetta, quasi campionessa di nuoto; dall'altro Debora, sorella di Stef con cui divide la stanza, alle spalle una famiglia molto borghese sull'orlo di una crisi di nervi, comincia a frequentare il collettivo Alice e si innamora di Bea, che però non è portata per la monogamia e nemmeno per le relazioni stabili.
Nel libro della brava Margherita Giacobino ci sono tutto il malessere e al contempo la bellezza dei 16 anni, quell'età in cui sei alla ricerca della te stessa che sarà e, per farlo, da un lato hai bisogno di prendere le distanze dai genitori e dalla famiglia, dall'altro non puoi fare a meno delle conferme esterne.
Un'età piena di potenzialità e insicurezze, che si esprimono a tutti i livelli e in massima parte a livello sentimentale, in quelle prime esperienze che tutti noi ricordiamo con un misto di imbarazzo e di tenerezza.
Se poi questo passaggio all'età adulta porta con sé anche la necessità di rivelare al mondo la propria diversità per poter essere pienamente se stessi la difficoltà cresce esponenzialmente.
E in questo libro assume risvolti a volte drammatici, ma il più delle volte quasi comici (o meglio sono comici per noi che leggiamo, ma non possiamo che solidarizzare con le protagoniste e soffrire con loro se solo ci caliamo nei loro panni).
Tutti i personaggi raccontati da Margherita Giacobino sono fortemente credibili e a tratti incredibilmente veri, soprattutto se guardati dalla visuale di due sedicenni.
In questo libro non ci sono - com'è giusto che sia - buoni e cattivi, ma solo persone che si confrontano con età diverse della vita, che fanno quello che possono, a volte sbagliano, a volte fanno la cosa giusta, e che - tutti - anelano a proprio modo a un po' di felicità in quel marasma confuso e imprevedibile, ma anche entusiasmante che è la vita.
Voto: 4/5
lunedì 21 agosto 2017
Atomica bionda
Scegliere un film da andare a vedere la settimana di ferragosto è impresa decisamente non facile. D'altra parte io e mio nipote F. vogliamo tenere fede alla nostra buona abitudine per cui quando ci vediamo andiamo al cinema insieme. E così dopo una difficile selezione e una ancora più difficile contrattazione optiamo per Atomica bionda, il film di spionaggio al femminile ispirato al graphic novel The coldest city.
Il film di David Leitch è un classico film di spie, ambientato nella fase finale della guerra fredda, ossia nelle settimane immediatamente prima la caduta del muro di Berlino, e proprio nella città tedesca protagonista di questa importante fase storica.
Ma quello che interessa a Leitch non è tanto la storia, bensì la costruzione di un intreccio narrativo coinvolgente all'interno di una estetica molto da subcultura underground anni Ottanta.
La protagonista assoluta di questo intreccio è l'agente Lorraine Broughton (una Charlize Theron in gran forma) che viene mandata da Londra in missione a Berlino per recuperare una pericolosa lista di agenti segreti che forse è finita nelle mani sbagliate e smascherare un agente doppiogiochista.
Il film è – sebbene all'interno di un'atmosfera molto meno patinata e più splatter – una versione dei film di James Bond al femminile, con tanto di inseguimenti in macchina, incidenti spettacolari, fughe rocambolesche, corpi a corpi, sparatorie; non manca neppure l'inserto sentimental-erotico rappresentato in questo caso dalla bella spia francese che seduce Lorraine (intepretata da Sofia Boutella).
Un valore aggiunto del film è poi certamente rappresentato dall'ironia che serpeggia tra le pieghe della storia e che aiuta protagonisti e spettatori a non prendersi troppo sul serio e a vivere il film come un divertissement ben confezionato ma senza pretese intellettualistiche.
Cosicché per una serata di mezza estate il film Atomica bionda si rivela la scelta perfetta: non stupido, ma neppure troppo impegnativo ;-))
Voto: 3/5
Il film di David Leitch è un classico film di spie, ambientato nella fase finale della guerra fredda, ossia nelle settimane immediatamente prima la caduta del muro di Berlino, e proprio nella città tedesca protagonista di questa importante fase storica.
Ma quello che interessa a Leitch non è tanto la storia, bensì la costruzione di un intreccio narrativo coinvolgente all'interno di una estetica molto da subcultura underground anni Ottanta.
La protagonista assoluta di questo intreccio è l'agente Lorraine Broughton (una Charlize Theron in gran forma) che viene mandata da Londra in missione a Berlino per recuperare una pericolosa lista di agenti segreti che forse è finita nelle mani sbagliate e smascherare un agente doppiogiochista.
Il film è – sebbene all'interno di un'atmosfera molto meno patinata e più splatter – una versione dei film di James Bond al femminile, con tanto di inseguimenti in macchina, incidenti spettacolari, fughe rocambolesche, corpi a corpi, sparatorie; non manca neppure l'inserto sentimental-erotico rappresentato in questo caso dalla bella spia francese che seduce Lorraine (intepretata da Sofia Boutella).
Un valore aggiunto del film è poi certamente rappresentato dall'ironia che serpeggia tra le pieghe della storia e che aiuta protagonisti e spettatori a non prendersi troppo sul serio e a vivere il film come un divertissement ben confezionato ma senza pretese intellettualistiche.
Cosicché per una serata di mezza estate il film Atomica bionda si rivela la scelta perfetta: non stupido, ma neppure troppo impegnativo ;-))
Voto: 3/5
giovedì 17 agosto 2017
Man Ray: L'uomo infinito. Castello di Conversano, 14 agosto 2017
Da qualche tempo nel mio paese di origine, Conversano, è stata inaugurata una apprezzabile abitudine a organizzare mostre di un certo livello in un'ala del castello, magnifico edificio che si erge sulla sommità della collina.
Dopo la mostra di De Chirico, è ora la volta di Man Ray, al secolo Emmanuel Rudzitsky, il celeberrimo pittore, fotografo, grafico di origini ebraiche nato a Filadelfia nel 1890 e morto a Parigini nel 1976.
Una lunga vita che lo ha visto in particolare protagonista delle avanguardie artistiche della prima metà del Novecento. Nella mostra L'uomo infinito sono esposte oltre cento opere dell'artista tra fotografie, disegni, dipinti, litografie e installazioni, a rappresentare le numerose anime di Man Ray che – come giustamente viene ricordato in uno dei pannelli illustrativi – utilizzava la fotografia per rappresentare la sua visione della realtà e la pittura per esprimere il suo mondo interiore, quello che non ha equivalenti nella realtà e dunque non si può fotografare.
Le cinque sale attraverso cui si articola la mostra segue un filo solo parzialmente cronologico, dando conto in parte del percorso artistico di Man Ray, in parte dei filoni, degli esperimenti e delle tematiche rappresentate nella sua arte, in parte dei suoi legami con il ricco mondo artistico e culturale della sua epoca, in particolare della sua amicizia con Marcel Duchamp.
Si possono così ammirare alcune delle più famose fotografie di Ray, quelle che si concentrano in particolare sui nudi femminili e sui volti, per lui sintesi della “sensualità” del corpo, ma anche i lavori meno noti e il resto della sua produzione artistica.
Ne viene fuori l'immagine di uno sperimentatore a tutto tondo, mai pago dei risultati raggiunti, sempre alla ricerca di nuovi linguaggi espressivi, sempre pronto a decostruire e distruggere per far nascere qualcosa di nuovo.
Il percorso attraverso la mostra è dunque un cammino di scoperta di un artista che appare al contempo storicamente collocato e fuori dal tempo, modernissimo nel modo di utilizzare il mezzo artistico.
Qualche perplessità mi rimane invece – come già avevo avuto modo di notare per la mostra di De Chirico – sull'allestimento, sia riguardo al percorso della mostra non sempre chiaro e intuitivo (quali pannelli si riferiscono a quali opere, in che sequenze guardare le opere esposte ecc.), sia riguardo ai testi illustrativi – molto densi – ma spesso parzialmente sganciati dalle opere in mostra, nonché alle didascalie non sempre chiarissime (per esempio con riferimento alle datazioni), rendendo così faticosa per i non addetti ai lavori la piena comprensione dell'artista e della sua opera.
In definitiva, si può certamente migliorare, ma la strada è decisamente quella giusta.
Voto: 3/5
Dopo la mostra di De Chirico, è ora la volta di Man Ray, al secolo Emmanuel Rudzitsky, il celeberrimo pittore, fotografo, grafico di origini ebraiche nato a Filadelfia nel 1890 e morto a Parigini nel 1976.
Una lunga vita che lo ha visto in particolare protagonista delle avanguardie artistiche della prima metà del Novecento. Nella mostra L'uomo infinito sono esposte oltre cento opere dell'artista tra fotografie, disegni, dipinti, litografie e installazioni, a rappresentare le numerose anime di Man Ray che – come giustamente viene ricordato in uno dei pannelli illustrativi – utilizzava la fotografia per rappresentare la sua visione della realtà e la pittura per esprimere il suo mondo interiore, quello che non ha equivalenti nella realtà e dunque non si può fotografare.
Le cinque sale attraverso cui si articola la mostra segue un filo solo parzialmente cronologico, dando conto in parte del percorso artistico di Man Ray, in parte dei filoni, degli esperimenti e delle tematiche rappresentate nella sua arte, in parte dei suoi legami con il ricco mondo artistico e culturale della sua epoca, in particolare della sua amicizia con Marcel Duchamp.
Si possono così ammirare alcune delle più famose fotografie di Ray, quelle che si concentrano in particolare sui nudi femminili e sui volti, per lui sintesi della “sensualità” del corpo, ma anche i lavori meno noti e il resto della sua produzione artistica.
Ne viene fuori l'immagine di uno sperimentatore a tutto tondo, mai pago dei risultati raggiunti, sempre alla ricerca di nuovi linguaggi espressivi, sempre pronto a decostruire e distruggere per far nascere qualcosa di nuovo.
Il percorso attraverso la mostra è dunque un cammino di scoperta di un artista che appare al contempo storicamente collocato e fuori dal tempo, modernissimo nel modo di utilizzare il mezzo artistico.
Qualche perplessità mi rimane invece – come già avevo avuto modo di notare per la mostra di De Chirico – sull'allestimento, sia riguardo al percorso della mostra non sempre chiaro e intuitivo (quali pannelli si riferiscono a quali opere, in che sequenze guardare le opere esposte ecc.), sia riguardo ai testi illustrativi – molto densi – ma spesso parzialmente sganciati dalle opere in mostra, nonché alle didascalie non sempre chiarissime (per esempio con riferimento alle datazioni), rendendo così faticosa per i non addetti ai lavori la piena comprensione dell'artista e della sua opera.
In definitiva, si può certamente migliorare, ma la strada è decisamente quella giusta.
Voto: 3/5
domenica 13 agosto 2017
Paradiso e inferno / Jón Kalman Stefánsson
Paradiso e inferno / Jón Kalman Stefánsson; trad. e nota biografica di Silvia Cosimini; postfazione di Emanuele Trevi. Milano: Iperborea, 2011.
Affascinata dall'Islanda e dalle bellissime edizioni di Iperborea, inizio la lettura di questo romanzo di Jón Kalman Stefánsson che è poi il primo di una trilogia che ha come fil rouge il villaggio islandese senza nome dove vivono i protagonisti.
Siamo in un'epoca indefinita, certamente non contemporanea (per quanto emerge da stili di vita e riferimenti contenuti nel libro), ma l'effetto è quasi di sospensione, come se in un posto come questo il tempo fosse immobile e "fuori dal tempo".
La storia è principalmente quella di un ragazzo, di cui pure non conosciamo il nome. Un orfano che vive uscendo in mare con un equipaggio che fa pesca di merluzzi, la principale attività di questi luoghi. E infatti la prima metà del libro è occupata dalla battuta di pesca durante la quale Bárđur, il migliore amico del ragazzo che ha lasciato la cerata sulla terraferma distratto dalla lettura del Paradiso perduto di Milton, muore assiderato senza che nessuno possa impedirlo.
Il ragazzo ne è devastato e vorrebbe morire anche lui, ma prima decide di intraprendere il cammino che lo porterà al Villaggio e in particolare alla locanda dove vive Kolbeinn, il vecchio cieco che ha prestato il libro a Bárđur.
Qui l'incontro con le due donne, Geirþruđur e Helga, che gestiscono la locanda costituirà per il ragazzo la speranza di un nuovo inizio.
A raccontare questa vicenda la voce collettiva dei pescatori che hanno fatto la storia del Villaggio.
In Paradiso e inferno di Kalman Stefánsson c'è qualcosa di epico: all'autore non interessa tenere il lettore incollato alle pagine con una trama avvicente, bensì scavare nei meandri nascosti dell'animo umano.
Una inestinguibile malinconia attraversa le pagine di questo libro, a tratti illuminate da piccole e grandi rivelazioni espresse sotto forma di parole e frasi intrise di tenerezza e commozione.
Ma forse questa è l'Islanda che vivida emerge dalle parole di Kalman Stefánsson, quasi da poterla respirare pur non avendola mai vissuta.
Voto: 3,5/5
Affascinata dall'Islanda e dalle bellissime edizioni di Iperborea, inizio la lettura di questo romanzo di Jón Kalman Stefánsson che è poi il primo di una trilogia che ha come fil rouge il villaggio islandese senza nome dove vivono i protagonisti.
Siamo in un'epoca indefinita, certamente non contemporanea (per quanto emerge da stili di vita e riferimenti contenuti nel libro), ma l'effetto è quasi di sospensione, come se in un posto come questo il tempo fosse immobile e "fuori dal tempo".
La storia è principalmente quella di un ragazzo, di cui pure non conosciamo il nome. Un orfano che vive uscendo in mare con un equipaggio che fa pesca di merluzzi, la principale attività di questi luoghi. E infatti la prima metà del libro è occupata dalla battuta di pesca durante la quale Bárđur, il migliore amico del ragazzo che ha lasciato la cerata sulla terraferma distratto dalla lettura del Paradiso perduto di Milton, muore assiderato senza che nessuno possa impedirlo.
Il ragazzo ne è devastato e vorrebbe morire anche lui, ma prima decide di intraprendere il cammino che lo porterà al Villaggio e in particolare alla locanda dove vive Kolbeinn, il vecchio cieco che ha prestato il libro a Bárđur.
Qui l'incontro con le due donne, Geirþruđur e Helga, che gestiscono la locanda costituirà per il ragazzo la speranza di un nuovo inizio.
A raccontare questa vicenda la voce collettiva dei pescatori che hanno fatto la storia del Villaggio.
In Paradiso e inferno di Kalman Stefánsson c'è qualcosa di epico: all'autore non interessa tenere il lettore incollato alle pagine con una trama avvicente, bensì scavare nei meandri nascosti dell'animo umano.
Una inestinguibile malinconia attraversa le pagine di questo libro, a tratti illuminate da piccole e grandi rivelazioni espresse sotto forma di parole e frasi intrise di tenerezza e commozione.
Ma forse questa è l'Islanda che vivida emerge dalle parole di Kalman Stefánsson, quasi da poterla respirare pur non avendola mai vissuta.
Voto: 3,5/5
giovedì 10 agosto 2017
Il giorno più bello / Mabel Morri
Il giorno più bello / Mabel Morri. Milano: Rizzoli Lizard, 2017.
Di Mabel Morri avevo letto a suo tempo 500 milioni di stelle, la versione a fumetti di un romanzo di formazione raccontato con tocco delicato.
Questo tocco delicato è la caratteristica principale anche del suo nuovo lavoro, Il giorno più bello, che racconta la storia di tre amiche, Tina, Vane e Gio, che sono cresciute insieme e che ora sono a un momento importante del loro percorso, il momento di decidere se fare il salto nella vita adulta con tutto quello che comporta oppure rimanere sempre in un limbo da tarda adolescenza.
Il motore degli eventi è Tina quando annuncia alle sue amiche che sta per sposarsi. Da qui l'inevitabile reazione a catena che produce in Vane e Gio una riflessione da troppo tempo rimandata: Vane ha una storia con Eva, ma non vuole veramente impegnarsi e solo la pazienza di quest'ultima consente - nonostante i loro numerosi allontanamenti - che la loro storia vada avanti; Gio ha storie brevi e poco significative, e tende a sfuggire agli uomini con cui probabilmente potrebbe costruire qualcosa di più importante.
Tra viaggi verso il Salento, terra d'origine di Tina dove si svolgerà il matrimonio, uscite serali, confessioni reciproche, interminabili chat su whatsapp, le tre amiche si metteranno di fronte a se stesse per comprendere che la strada verso la felicità - o quantomeno il tentativo di cercarla nella sua intrinseca instabilità - è certamente in salita e richiede impegno, ma non esistono scorciatoie che non passino per l'affrontare la fatica di essere adulti.
I disegni di Mabel Morri sono buffi e divertenti, oltre che precisi nell'esprimere gli stati d'animo e originali nell'inventare inquadrature insolite; le tre amiche e il mondo che ruota loro intorno portano con sé una ventata di freschezza, anche nei momenti di tristezza. Il tono nel complesso rimane leggero e il racconto guarda alla vita con un ottimismo financo eccessivo (per come sono fatta io!).
A parte qualche difficoltà nel cogliere immediatamente gli scarti temporali e le discontinuità del racconto - che non sempre a mio parere sono del tutto intuitive (ma io sono una che osserva poco) - Il giorno più bello è un graphic novel gradevole per i disegni e per la storia, che ben colgono l'incertezza di una generazione.
Voto: 3/5
Di Mabel Morri avevo letto a suo tempo 500 milioni di stelle, la versione a fumetti di un romanzo di formazione raccontato con tocco delicato.
Questo tocco delicato è la caratteristica principale anche del suo nuovo lavoro, Il giorno più bello, che racconta la storia di tre amiche, Tina, Vane e Gio, che sono cresciute insieme e che ora sono a un momento importante del loro percorso, il momento di decidere se fare il salto nella vita adulta con tutto quello che comporta oppure rimanere sempre in un limbo da tarda adolescenza.
Il motore degli eventi è Tina quando annuncia alle sue amiche che sta per sposarsi. Da qui l'inevitabile reazione a catena che produce in Vane e Gio una riflessione da troppo tempo rimandata: Vane ha una storia con Eva, ma non vuole veramente impegnarsi e solo la pazienza di quest'ultima consente - nonostante i loro numerosi allontanamenti - che la loro storia vada avanti; Gio ha storie brevi e poco significative, e tende a sfuggire agli uomini con cui probabilmente potrebbe costruire qualcosa di più importante.
Tra viaggi verso il Salento, terra d'origine di Tina dove si svolgerà il matrimonio, uscite serali, confessioni reciproche, interminabili chat su whatsapp, le tre amiche si metteranno di fronte a se stesse per comprendere che la strada verso la felicità - o quantomeno il tentativo di cercarla nella sua intrinseca instabilità - è certamente in salita e richiede impegno, ma non esistono scorciatoie che non passino per l'affrontare la fatica di essere adulti.
I disegni di Mabel Morri sono buffi e divertenti, oltre che precisi nell'esprimere gli stati d'animo e originali nell'inventare inquadrature insolite; le tre amiche e il mondo che ruota loro intorno portano con sé una ventata di freschezza, anche nei momenti di tristezza. Il tono nel complesso rimane leggero e il racconto guarda alla vita con un ottimismo financo eccessivo (per come sono fatta io!).
A parte qualche difficoltà nel cogliere immediatamente gli scarti temporali e le discontinuità del racconto - che non sempre a mio parere sono del tutto intuitive (ma io sono una che osserva poco) - Il giorno più bello è un graphic novel gradevole per i disegni e per la storia, che ben colgono l'incertezza di una generazione.
Voto: 3/5