Nonostante la stanchezza indicibile di questo autunno, mi organizzo per andare a vedere ben 14 film, quasi un record, anche rispetto ai miei già elevati standard.
Vi racconto qui quello che ho visto, spendendo come sempre qualche parola in più per quello che mi è piaciuto di più.
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Nickel boys
Il mio festival del cinema si apre con questo film di RaMell Ross, tratto dal romanzo omonimo di Colson Whitehead (di cui a suo tempo ho letto La ferrovia sotterranea). Si tratta del film di apertura di Alice nella città: all'Auditorium Conciliazione, dove si tiene la proiezione, sono presenti il regista, la co-sceneggiatrice e produttrice Joslyn Barnes, l’attrice Aunjanue Ellis, e i due attori protagonisti, Ethan Herisse e Brandon Wilson.
La storia è quella di Elwood (Ethan Herisse), un giovane afroamericano che vive nella Tallahassee degli anni Sessanta con la nonna Hettie (Aunjanue Ellis). Elwood è studioso e ha grandi ideali, anche ispirato da Martin Luther King e dai movimenti per la fine della segregazione razziale. Un giorno, mentre sta andando al college, dove è stato ammesso grazie alle sue capacità, accetta il passaggio di un uomo che poi si scopre aver rubato l’auto, e nonostante Elwood non c’entri nulla viene mandato alla Nickel Academy, una scuola-riformatorio per adolescenti (ispirata a una scuola realmente esistita). Qui Elwood conosce e diventa amico di Turner (Brandon Wilson), un giovane molto più cinico e smaliziato, che aiuterà Elwood a sopravvivere in un ambiente abusivo e violento e a sua volta sarà profondamente influenzato dall'idealismo e dalla generosità dell’amico.
Il film di RaMell Ross è potente e originale: è quasi interamente girato in soggettiva, in pratica vediamo il mondo dal punto di vista di Elwood e di Turner, gli stiamo letteralmente addosso, o meglio nei loro panni, il che rende tutto quello che vivono ancora più di impatto, in quanto produce un feedback non solo visivo, ma quasi fisico. La brutalità che attraversa il film e di cui questi ragazzi sono vittime viene mostrata solo in parte, perché il regista preferisce lavorare anche sul piano onirico, trasformando in visioni – in parte animalesche – quello che Elwood vede e prova. Eppure, il film arriva forte e potente come una bastonata, a cui è difficile sottrarsi emotivamente. Il regista non rinuncia inoltre a contaminare la fiction con la sua formazione da documentarista, e man mano che la storia procede essa è inframmezzata da immagini di repertorio che ci mostrano luoghi e reperti che capiremo essere il risultato delle indagini svolte a molti anni di distanza e delle ricerche di chi, da adulto, ha scelto a un certo punto di non tacere e di aiutare la verità ad emergere.
Non ci saranno mai abbastanza film a raccontare quello che i neri hanno subito (e in buona parte subiscono ancora) nella patria della democrazia occidentale, e che in questo caso si somma all'orrore degli ambienti in cui adolescenti e giovani si trovano in balia di adulti che possono esercitare un potere senza limiti e scrupoli.
Un film che merita grande diffusione. E personalmente metto già in lista la lettura del romanzo.
Voto: 4/5
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Pierce
Il secondo giorno della festa del cinema vado a vedere questa opera prima della regista Nelicia Low, campionessa di scherma, ora passata al mondo del cinema.
Non a caso, questo suo primo film è ambientato proprio nel mondo della scherma e racconta di due fratelli, Zihan (Tsao Yu-Ning) e Zijie (Liu Hsiu-Fu), legati proprio dalla passione per questo sport. Il fratello maggiore Zihan è appena uscito dal carcere, dopo aver scontato la pena per l’omicidio di un giovane proprio durante uno scambio di scherma: il giovane ha sempre affermato di essere innocente e che si è trattato di un incidente, e suo fratello minore Zijie – che è legato al ricordo di essere stato salvato dal fratello mentre stava per annegare in un fiume – gli crede, al contrario di sua madre che non vuole più nemmeno vedere il figlio maggiore.
Il film di Nelicia Low, ispirato ad alcuni fatti di cronaca realmente avvenuti a Taiwan, costruisce il racconto come un thriller psicologico, nel quale il centro dell’attenzione è Zijie, ragazzo gentile, gay non ancora dichiarato, che cerca nel fratello maggiore un sé più adulto e maturo nel quale rispecchiarsi, ma non coglie o non vuole cogliere alcuni segnali di ambiguità.
In un crescendo di tensione, a poco a poco la verità si scopre e gli eventi precipitano, mentre Zijie – di fronte all'evidenza dei fatti – farà una scelta estrema e sorprendente.
Che dire? Non necessariamente un brutto film, regge il ritmo e la tensione per almeno due terzi della durata, ma a un certo punto mi sembra si sfilacci e si faccia sempre più inverosimile.
Bravo il giovane Liu Hsiu-Fu nel ruolo di questo ragazzo delicato e insicuro, dalla personalità ancora in costruzione, che di fronte alla verità non riesce a marcare la differenza con il fratello, anzi finisce per sostituirsi a lui.
Voto: 2,5/5
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I am Martin Parr
Non poteva mancare nella mia maratona cinematografica il documentario che Lee Shulman ha dedicato al fotografo britannico Martin Parr, di cui ho dato poco visitato la mostra Short & sweet a Bologna.
Il documentario ripercorre la carriera del fotografo, dalla scoperta della fotografia a 13 anni grazie al nonno, agli esordi con le fotografie in bianco e nero, fino ad arrivare alla fotografia a colori che ne ha segnato la consacrazione con quel suo stile inconfondibile che o si ama o si odia, tanto che anche il suo ingresso – piuttosto tardo – nell'agenzia fotografica Magnum è stato piuttosto controverso.
Il documentario è costruito in maniera piuttosto classica: da un lato segue Martin nelle sue uscite quotidiane per fare fotografie, con il suo inseparabile carrello che lo aiuta a camminare e gli consente anche di tanto in tanto di riposarsi, dall'altro propone immagini di repertorio e stralci di interviste sia a persone a lui molto vicine come la moglie e il fotografo Bruce Gilden, sia ad altri esponenti del mondo della fotografia e dell’arte (fotografi, critici, curatori ecc.). Ovviamente l’intero documentario è attraversato dalle foto e dai progetti fotografici di Martin che in questo momento ho particolarmente presenti, proprio grazie alla mostra che ho da poco visitato.
Nel suo impianto piuttosto classico, il documentario riesce però anche a essere - nella forma e nei colori - molto coerente con lo stile ipersaturo e un po’ kitsch di Martin Parr, ma soprattutto riesce a trasmettere in modo sincero e piuttosto immediato la personalità di quest’uomo mite e sornione, ma anche sfacciato e ossessivo, che nella fotografia ha trovato il suo modo di raccontare la società, le classi sociali, ma anche e soprattutto le persone, e in particolare un popolo, gli inglesi, con tutte le loro caratteristiche positive e negative.
Un collezionista, un grande lavoratore, un amante della vita, che ha già lasciato un segno indelebile nel mondo della fotografia.
Voto: 3,5/5
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En fanfare
En fanfare fa parte della rassegna "Best of" della Festa del cinema di Roma, ed è una commedia francese presentata all'ultimo festival di Cannes. Il film di Emmanuel Courcol ha come protagonista Thibaud (Benjamin Lavernhe), un famoso direttore d’orchestra che, dopo la diagnosi di leucemia, alla ricerca di un midollo compatibile, scopre di essere stato adottato e di avere un fratello di cui non sospettava l’esistenza, Jimmy (Pierre Lottin), che vive in un paese a nord della Francia, fa il cuoco in una mensa e suona il trombone nella banda locale. Sarà proprio sulla comune passione per la musica che – attraverso incomprensioni e riavvicinamenti – i due fratelli costruiranno un rapporto, e ciascuno di loro sarà chiamato a una rinnovata riflessione sul proprio destino ma anche sulle proprie scelte di vita.
En fanfare è una commedia gradevole e ben recitata, ma piuttosto prevedibile nella sua struttura narrativa e inevitabilmente un po’ troppo buonista. Regala però bei momenti di musica, e due interpreti molto bravi, oltre che momenti di leggerezza e di divertimento mai greve né superficiale, dimostrando ancora una volta la capacità del cinema francese di frequentare, con intelligenza, buon gusto e qualche elemento di originalità, il genere della commedia. Il film uscirà in Italia con il banalissimo titolo di L’orchestra stonata che toglierà a questo film quella dignità e possibilità di essere visto anche da un pubblico dal palato un po’ più raffinato che pure avrebbe potuto avere.
Voto: 3/5
Il documentario ripercorre la carriera del fotografo, dalla scoperta della fotografia a 13 anni grazie al nonno, agli esordi con le fotografie in bianco e nero, fino ad arrivare alla fotografia a colori che ne ha segnato la consacrazione con quel suo stile inconfondibile che o si ama o si odia, tanto che anche il suo ingresso – piuttosto tardo – nell'agenzia fotografica Magnum è stato piuttosto controverso.
Il documentario è costruito in maniera piuttosto classica: da un lato segue Martin nelle sue uscite quotidiane per fare fotografie, con il suo inseparabile carrello che lo aiuta a camminare e gli consente anche di tanto in tanto di riposarsi, dall'altro propone immagini di repertorio e stralci di interviste sia a persone a lui molto vicine come la moglie e il fotografo Bruce Gilden, sia ad altri esponenti del mondo della fotografia e dell’arte (fotografi, critici, curatori ecc.). Ovviamente l’intero documentario è attraversato dalle foto e dai progetti fotografici di Martin che in questo momento ho particolarmente presenti, proprio grazie alla mostra che ho da poco visitato.
Nel suo impianto piuttosto classico, il documentario riesce però anche a essere - nella forma e nei colori - molto coerente con lo stile ipersaturo e un po’ kitsch di Martin Parr, ma soprattutto riesce a trasmettere in modo sincero e piuttosto immediato la personalità di quest’uomo mite e sornione, ma anche sfacciato e ossessivo, che nella fotografia ha trovato il suo modo di raccontare la società, le classi sociali, ma anche e soprattutto le persone, e in particolare un popolo, gli inglesi, con tutte le loro caratteristiche positive e negative.
Un collezionista, un grande lavoratore, un amante della vita, che ha già lasciato un segno indelebile nel mondo della fotografia.
Voto: 3,5/5
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En fanfare
En fanfare fa parte della rassegna "Best of" della Festa del cinema di Roma, ed è una commedia francese presentata all'ultimo festival di Cannes. Il film di Emmanuel Courcol ha come protagonista Thibaud (Benjamin Lavernhe), un famoso direttore d’orchestra che, dopo la diagnosi di leucemia, alla ricerca di un midollo compatibile, scopre di essere stato adottato e di avere un fratello di cui non sospettava l’esistenza, Jimmy (Pierre Lottin), che vive in un paese a nord della Francia, fa il cuoco in una mensa e suona il trombone nella banda locale. Sarà proprio sulla comune passione per la musica che – attraverso incomprensioni e riavvicinamenti – i due fratelli costruiranno un rapporto, e ciascuno di loro sarà chiamato a una rinnovata riflessione sul proprio destino ma anche sulle proprie scelte di vita.
En fanfare è una commedia gradevole e ben recitata, ma piuttosto prevedibile nella sua struttura narrativa e inevitabilmente un po’ troppo buonista. Regala però bei momenti di musica, e due interpreti molto bravi, oltre che momenti di leggerezza e di divertimento mai greve né superficiale, dimostrando ancora una volta la capacità del cinema francese di frequentare, con intelligenza, buon gusto e qualche elemento di originalità, il genere della commedia. Il film uscirà in Italia con il banalissimo titolo di L’orchestra stonata che toglierà a questo film quella dignità e possibilità di essere visto anche da un pubblico dal palato un po’ più raffinato che pure avrebbe potuto avere.
Voto: 3/5
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Libre
Scelgo questo film nel programma della festa non tanto perché attirata particolarmente dalla trama, ma perché la regista è Mélanie Laurent, che ho amato molto come attrice e che ho cominciato ad apprezzare anche come regista. Comunque, vado a vedere il film senza grandi aspettative e, tra l'altro, senza sapere che sul red carpet ci sarà proprio Mélanie, insieme alla protagonista femminile Léa Luce Busato, il che per me è una sorpresa più che gradita. Tento anche di farmi una foto con la Laurent, ma niente da fare, ogni volta che mi avvicino viene richiamata da qualcos'altro.
Il film, invece, si rivela una vera sorpresa positiva. Libre racconta la storia di Bruno Sulak (interpretato da Lucas Bravo), un ladro molto famoso in Francia negli anni Settanta e primi anni Ottanta, una specie di ladro gentiluomo, autore di una serie di rapine incredibili e di evasioni spettacolari dal carcere, morto a soli 29 anni dopo l'ennesimo tentativo di fuga.
Pare che il film dovesse chiamarsi Sulak, ma a seguito delle proteste dei familiari dell'uomo, alla fine la regista ha scelto un altro titolo e ovviamente ha subito dichiarato che i fatti raccontati sono ispirati al personaggio reale, ma il film è comunque una narrazione parzialmente romanzata.
Però, a mio modesto avviso, questi sono aspetti secondari rispetto alla scrittura e alla confezione del film che dimostrano chiarezza di intenti e maestria. La storia di Sulak è trattata, sul piano della sceneggiatura, in maniera estremamente classica nella migliore tradizione del polar, richiamando alla mente molti precedenti, non ultimo Arsenio Lupin e l'insieme dei personaggi che gli ruotano attorno e che echeggiano nei protagonisti del film: dall'amata Annie, ai compari di avventure, fino ad arrivare al suo rivale, l'ispettore Georges Moréas (interpretato da Yvan Attal). Questo impianto classico è però inserito dentro una confezione pop e moderna, che risulta accattivante e gradevole (in particolare, le scene in cui la telecamera ruota su sé stessa producendo un effetto sottosopra e rotatorio molto interessante).
Si esce dal cinema contenti di aver visto un bel prodotto cinematografico, senza pretese di insegnarci nulla, ma solo con il gusto di realizzare cinema ben fatto. E non è una cosa che ormai si vede tanto spesso.
Brava Mélanie.
Voto: 3,5/5
Libre
Scelgo questo film nel programma della festa non tanto perché attirata particolarmente dalla trama, ma perché la regista è Mélanie Laurent, che ho amato molto come attrice e che ho cominciato ad apprezzare anche come regista. Comunque, vado a vedere il film senza grandi aspettative e, tra l'altro, senza sapere che sul red carpet ci sarà proprio Mélanie, insieme alla protagonista femminile Léa Luce Busato, il che per me è una sorpresa più che gradita. Tento anche di farmi una foto con la Laurent, ma niente da fare, ogni volta che mi avvicino viene richiamata da qualcos'altro.
Il film, invece, si rivela una vera sorpresa positiva. Libre racconta la storia di Bruno Sulak (interpretato da Lucas Bravo), un ladro molto famoso in Francia negli anni Settanta e primi anni Ottanta, una specie di ladro gentiluomo, autore di una serie di rapine incredibili e di evasioni spettacolari dal carcere, morto a soli 29 anni dopo l'ennesimo tentativo di fuga.
Pare che il film dovesse chiamarsi Sulak, ma a seguito delle proteste dei familiari dell'uomo, alla fine la regista ha scelto un altro titolo e ovviamente ha subito dichiarato che i fatti raccontati sono ispirati al personaggio reale, ma il film è comunque una narrazione parzialmente romanzata.
Però, a mio modesto avviso, questi sono aspetti secondari rispetto alla scrittura e alla confezione del film che dimostrano chiarezza di intenti e maestria. La storia di Sulak è trattata, sul piano della sceneggiatura, in maniera estremamente classica nella migliore tradizione del polar, richiamando alla mente molti precedenti, non ultimo Arsenio Lupin e l'insieme dei personaggi che gli ruotano attorno e che echeggiano nei protagonisti del film: dall'amata Annie, ai compari di avventure, fino ad arrivare al suo rivale, l'ispettore Georges Moréas (interpretato da Yvan Attal). Questo impianto classico è però inserito dentro una confezione pop e moderna, che risulta accattivante e gradevole (in particolare, le scene in cui la telecamera ruota su sé stessa producendo un effetto sottosopra e rotatorio molto interessante).
Si esce dal cinema contenti di aver visto un bel prodotto cinematografico, senza pretese di insegnarci nulla, ma solo con il gusto di realizzare cinema ben fatto. E non è una cosa che ormai si vede tanto spesso.
Brava Mélanie.
Voto: 3,5/5
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