Tra i ponti, i periodi di ferie, gli ultimi spettacoli a teatro e l'inizio del caldo estivo era un pezzo che non andavo al cinema. Il mio ritorno in sala è stato invogliato dall'uscita al cinema di questo film del regista franco-cambogiano Davy Chou, per me sconosciuto ma che invece leggo avere già prodotto lavori interessanti come il precedente Diamond island.
Per Ritorno a Seoul - film selezionato per la sezione Un certain regard di Cannes - Chou si ispira alla storia vera dell'amica e co-sceneggiatrice Laure Badufle, nata in Corea e adottata da una coppia francese quando aveva un anno; in particolare Chou sembra essere rimasto particolarmente colpito dalla storia dell'amica dopo aver assistito al primo incontro tra lei e il suo padre biologico.
La protagonista del suo film è Freddie Benoit (una splendida - adorabile e insopportabile - Ji-min Park), una venticinquenne di origine coreana, adottata e vissuta tutta la vita in Francia, poco fuori da Parigi. Il mondo di Freddie viene mandato in subbuglio nel momento in cui, per quella che sembrerebbe una coincidenza (ma forse non lo è), anziché andare a Tokyo, la ragazza si trova a trascorrere due settimane a Seoul. Qui, sempre un po' per caso, dopo aver raccontato la sua storia, viene indirizzata alla Hammond, una istituzione che storicamente si è occupata delle adozioni dei bambini coreani all'estero. In questo modo vengono rintracciati e poi contattati i genitori biologici di Freddie, che sono da tempo separati e vivono in cittadine diverse. Il padre risponde immediatamente all'appello e chiede di incontrare la figlia. Da qui in poi per Freddie si tratterà di fare i conti con le sue origini e con quello che è e che vuole diventare. La ragazza è combattuta tra un'attrazione insopprimibile verso il mondo da cui proviene e il desiderio in particolare di conoscere sua madre, e l'ostilità e il rifiuto verso un mondo che non le appartiene e che non comprende, sia letteralmente che concettualmente. È in questa alternanza di stati d'animo che il viaggio di due settimane in Corea diventa il primo passo di un rapporto destinato a durare negli anni tra allontanamenti e avvicinamenti, mentre Freddie diventa adulta e con fatica definisce i confini della propria identità.
Nel film di Davy Chou ci sono tanti temi che si possono però riassumere nella difficoltà di superare i confini: certamente quello tra due culture così distanti (colpiscono molto le sequenze in cui l'amica coreana di Freddie traduce in coreano quello che lei dice, cercando di ricondurre la quasi brutalità delle parole della ragazza in qualcosa di molto più morbido e coerente con il modo di relazionarsi proprio dei coreani), ma nella vicenda di Freddie non è meno importante il passaggio tra la giovinezza e l'età adulta, nonché la distanza tra le generazioni.
Tutto questo viene raccontato da Chou nella maniera tipica del cinema asiatico, ossia non con una narrazione distesa, esplicativa e ricca di dettagli, ma in modo sincopato, attraverso salti temporali e narrativi che non sempre vengono pienamente spiegati, oltre che senza utilizzare primariamente le parole, bensì le azioni, le espressioni del viso, la gestualità, in un mix per noi decisamente spiazzante di drammaticità e "quasi" comicità di alcune situazioni.
Assistiamo così ad alcuni momenti in otto anni della vita di Freddie, momenti che mostrano una giovane donna che dolorosamente va alla ricerca di sé stessa, sperimentando vite e identità, che si dibatte col mondo circostante, spesso senza alcun rispetto per i sentimenti altrui e distruggendo le relazioni più o meno importanti che costruisce. Freddie sembra cercare di colmare il vuoto dell'affetto materno, ma partendo da una posizione di sfida e di aggressione verso un mondo circostante nei confronti del quale sembra vantare un credito.
Dopo otto anni e dopo essere stata ripagata con la stessa moneta dalla persona a cui tiene di più, Freddie dovrà fare pace con il suo percorso e recuperare quello che la vita le ha dato, rinunciando a pretendere quello che non ha avuto.
Voto: 3,5/5
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