"Questo non è un film, è un'esperienza": la frase pronunciata alla fine del film dall'anziana spettatrice seduta dietro di me mi pare riassuma perfettamente la sensazione che si prova durante la visione de L'appuntamento (The happiest man in the world), il nuovo film di Teona Strugar Mitevska, la regista di Scopje che si era imposta all'attenzione con il film Dio è donna e si chiama Petrunya.
Con questo nuovo film la regista macedone va a indagare negli interstizi - nemmeno tanto nascosti - di una ferita ancora aperta nella società balcanica, quella della guerra civile seguita alla morte di Tito e al disgregarsi della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia per effetto delle spinte secessioniste interne. La guerra ha occupato gli interi anni Novanta, ma la Mitevska ci dimostra - a partire da una vicenda in fondo piccola - che le conseguenze della guerra attraversano pericolosamente la società balcanica ancora oggi.
Protagonista de L'appuntamento è Asja (Jelena Kordic), una donna di 45 anni che ha deciso di partecipare a un incontro organizzato da un'associazione che aiuta le persone a trovare un partner; Asja ha persino selezionato preventivamente su Internet il profilo della persona con cui condividerà le attività della giornata, e questa persona è Zoran (Adnan Omerovic), un suo coetaneo.
Ben presto però Asja scoprirà che Zoran è l'uomo che quando lei aveva sedici anni, durante il conflitto, sparò contro la sua casa e la sua famiglia, il responsabile delle ferite di cui ancora porta i segni sul corpo e che l'aveva quasi uccisa. Quando l'amara verità emerge - fondamentalmente per volontà dello stesso Zoran che sembra volersi liberare di questo peso insostenibile che si porta dentro e che gli ha rovinato la vita - la giornata prende una piega completamente diversa dal previsto, innescando prima un gioco a tratti imprevedibile tra vittima e carnefice, poi contagiando anche gli altri partecipanti all'incontro e portando alla luce gli orrori che hanno vissuto e che, sotto la cenere, non hanno ancora perso la loro carica devastante.
Le attività previste nel corso della giornata e finalizzate a far interagire costruttivamente i partecipanti deflagrano dunque rapidamente in un gioco al massacro, in cui ognuno sembra avere le proprie ottime ragioni di rancore, dolore, disperazione, infelicità.
Tutto però - compresa la telecamera della regista - ruota intorno al rapporto tra Asja e Zoran, impegnati in un confronto molto più sfaccettato e meno lineare di quello che si potrebbe immaginare. È indubbio che Asja è la vittima, in quanto è colei che è stata ferita, mentre Zoran è il carnefice che imbracciava il fucile, ma in una guerra - sempre insensata per sua stessa definizione e tanto più nel caso in cui sia civile e metta contro persone che prima vivevano fianco e fianco - questa distinzione è davvero così semplice come possiamo pensare? E quanto ci vuole perché la rabbia della vittima la trasformi a sua volta in carnefice, perpetuando all'infinito un conflitto nel quale alla fine si esce tutti sconfitti?
La Mitevska ci propone una realtà che è molto più complessa da interpretare di quanto pensiamo: è vero che Asja porta i segni della guerra sul suo corpo, ma in fondo parla di una vita a suo modo soddisfacente, di un lavoro, di viaggi e di famiglia, mentre Zoran i segni della guerra li porta nella sua mente, perché non è riuscito a fare pace con il suo passato da militare e la sua vita è un fallimento, punteggiato di tentativi di suicidio. E non direi che la Mitevska con questo suggerisca la 'banale' strada di un perdono praticamente impossibile e che probabilmente non cambierebbe il corso degli eventi, bensì una specie di accettazione rassegnata di quello che è stato e la volontà precisa di voltare quella pagina. Non a caso Asja troverà un momento catartico solo nello scatenato ballo in mezzo a una festa di giovani, ritrovando per un attimo la leggerezza perduta troppo presto, ma anche amalgamandosi a una folla che quel passato doloroso non l'ha vissuto e che ne è psicologicamente estranea.
Da un punto di vista cinematografico, la regista porta all'estremo la tendenza già sperimentata con il film precedente di stare addosso ai personaggi e ai loro movimenti, in buona parte con una telecamera a mano, a volte di girargli attorno ossessivamente, il che amplifica la sensazione di destabilizzazione e di nausea che fluisce attraverso la narrazione. Del resto, fin dalla prima inquadratura del film, la Mitevska crea un senso di insicurezza e di angoscia, mostrandoci con un'inquadratura verticale (simile a quella ripresa con un cellulare) un uomo - lo stesso Zoran - che si affaccia da un palazzo, non sappiamo bene perché (forse per suicidarsi o solo per osservare?); subito dopo, l'inquadratura si allarga tornando orizzontale e vediamo, al di sotto del palazzo da cui è affacciato l'uomo, un'area di cantiere dove è in corso l'abbattimento di vecchie case e attraverso la quale sta passando Asja per andare al suo appuntamento.
Aveva ragione la signora dietro di me: il film di Teona Strugar Mitevska è una vera e propria esperienza.
Voto: 3,5/5
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