E anche quest'anno arriva, immancabile, l'appuntamento con il Rendez-vous, il festival del nuovo cinema francese, che si svolge - come ormai già da diversi anni - al Cinema Nuovo Sacher, con la collaborazione dell'Ambasciata francese in Italia e dell'Institut français. La selezione è sempre molto interessante ed è in alcuni casi l'unica possibilità di vedere dei film che poi non è detto che arrivino in sala. Quest'anno vedo in tutto tre film con una certa soddisfazione.
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Un petit frère
Un petit frère è il secondo lungometraggio della regista e sceneggiatrice francese Léonor Serraille. Il primo, Jeune femme (uscito in Italia con il titolo Montparnasse - femminile singolare), era stato anch'esso presentato nella rassegna Rendez-vous ma io non l'ho visto né recuperato successivamente. A dire la verità, dopo aver visto questo secondo film, mi è venuta voglia di recuperare anche quello.
Un petit frère racconta la storia di una famiglia originaria della Costa d'Avorio su un arco di circa vent'anni, dal momento in cui la madre Rose arriva in Francia con i suoi due figli al seguito, Jean e Ernest, fino a quando i figli sono ormai adulti.
La narrazione, la cui voce narrante è Ernest, è articolata in tre capitoli, dedicati ognuno nello specifico a uno dei componenti di questa famiglia, pur mantenendo la continuità narrativa e cronologica della storia. La prima parte è incentrata su Rose, la seconda su Jean, la terza infine su Ernest.
La bellezza del film della Serraille nasce dal fatto che la famiglia protagonista di questo racconto non è trattata come frequentemente si fa al cinema, ossia ponendo l'accento sull'aspetto della migrazione e della difficile integrazione nel paese di arrivo, bensì come una qualunque famiglia normale, con problemi in cui tutti possono identificarsi, indipendentemente dal colore della pelle e dalle problematiche specifiche legate alla loro particolare situazione. Rose è una madre single, ma ancora giovane e volitiva; è molto legata ai suoi figli con cui - soprattutto quando sono ancora molto piccoli - ha un bellissimo rapporto. Ma non vuole che la sua vita sia relegata al ruolo di madre, né accetta che altri le dicano cosa fare o chi amare o come vivere. Rose dunque fa le sue scelte, che non sempre si rivelano le migliori - come del resto le scelte di tutti -, e attraversa - come tutti - momenti di frustrazione e dolore, e momenti di felicità e riscatto. Ai figli non smette mai di trasmettere la necessità che si impegnino al massimo grado in quello che fanno perché per riuscire e avere successo dovranno essere i migliori. Accadrà così - come spesso accade tra genitori e figli - che il carico sulle spalle di questi ultimi sia eccessivo, e anche che le speranza e il desiderio dei genitori venga deluso. A patirne le conseguenze sarà soprattutto Jean, un giovane talentuoso e in fondo simile a sua madre, che però a un certo punto perderà il senso della strada che sta percorrendo, fino a decidere di tornare nel paese d'origine, mentre Ernest - da sempre più silenzioso e meno appariscente - riuscirà a trovare uno spazio nella società francese, pur non riuscendo a sfuggire a quel senso di depressione e malinconia, che sua madre gli rinfaccia essere malattie dei bianchi, ma da cui neppure lei è immune.
Ne viene fuori il quadro di un'umanità ricca e tridimensionale, in cui forse è una delle prime volte - probabilmente la prima - in cui mentre guardo un film i cui protagonisti sono in buona parte neri - il colore della pelle quasi scompare ai miei occhi per lasciare spazio alla complessità dei sentimenti di cui sono portatori questi personaggi.
Al termine del film Léonor Serraille - rispondendo alle domande della moderatrice - dice di essersi ispirata alla storia della famiglia del suo compagno, e conferma di aver voluto affrontare questa vicenda senza accenti né da commedia né melodrammatici, bensì mettendosi alla medesima altezza dei suoi personaggi (in particolare di Rose) per raccontare la vita senza alcun tipo di giudizio o messaggio. Da questo punto di vista il il film mi ha ricordato molto lo stile narrativo adottato da Mia Hansen-Løve nel suo ultimo film, Un beau matin. Infine scopro dalla chiacchierata finale con la regista che anche in questo film la direttrice della fotografia è Hèléne Louvart, appena scoperta grazie a Disco boy, e non a caso anche visivamente il film è splendido, senza essere necessariamente accecante e soverchiante, nello stile di una direttrice della fotografia che si mette pienamente al servizio della narrazione.
Voto: 3,5/5
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Viens je t'emmène = L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice
Quando avevo scelto sul programma del Rendez-vous il film Viens je t’emmene (che esce a breve in Italia con il titolo L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice) non avevo realizzato che Alain Guiraudie, il regista del film, è lo stesso dello Sconosciuto del lago, film noir che ho a lungo inseguito quando era uscito al cinema ma alla fine avevo perso. Questa scoperta, che faccio solo al termine del film durante l’incontro col regista organizzato dal festival, mi permette tanto più di apprezzare la scelta originale di Guiraudie, capace di spostarsi con scioltezza da un genere all’altro e di osare cose molto diverse tra loro. Del resto, il regista francese durante l’intervista conferma la sua vena ironica e un modo di essere decisamente queer che si ritrovano intatti e forse anche amplificati nel film.
Viens je t’emmène è ambientato a Clermont Ferrand, città francese collocata nel cuore del massiccio centrale, certamente più provinciale di altre città francesi e periferica rispetto al cuore pulsante della nazione. Qui vive Médéric (Jean-Charle Clichet), un trentacinquenne un po’ ingenuo che fa una vita piuttosto piatta e ordinaria, dividendosi tra il lavoro, il running, e le serate solitarie in casa. L’ordinarietà apparente di questa vita viene sconvolta quando Médéric si innamora di Isadora (Noémie Lvovsky), una prostituta di mezza età con un marito molto geloso, cui propone di vedersi per conoscersi e fare l’amore. Durante il primo incontro tra i due, la cittadina viene sconvolta da un attacco terroristico, e quella stessa notte un giovane arabo senzatetto di nome Selim (Iliés Kadri) cerca rifugio nel condominio di Médéric. Da questo momento in poi la storia procede per linee parallele e intersecantesi il cui centro è Médéric, che da un lato continua nei suoi tentativi di incontro con Isadora, tutti interrotti sul più bello dagli eventi più disparati, e dall’altro si trova a fare i conti con la propria e altrui diffidenza e al contempo il desiderio di aiutare il giovane Selim, con tutta una serie di conseguenze più o meno paradossali che coinvolgono il condominio nel quale vive.
Il film di Alain Guiraudie è una commedia dai toni grotteschi e a tratti esilaranti, che affronta temi importanti e delicati, l’amore, il sesso, la disperazione, la violenza, il razzismo, la banalità del male, ma lo fa in una maniera per niente scontata che da un lato ha un ché di profondamente classico e tradizionale (ricorda lo stile di alcune commedie francesi degli anni Settanta e pur essendo ambientato nella contemporaneità ci sono molti elementi narrativi e visivi che sembrano riportarlo indietro nel tempo), e dall’altro presenta tematiche, ritmo e approccio fortemente moderni e a tratti spiazzanti.
Il risultato è un film decisamente sopra le righe e piuttosto inafferrabile che credo di poter dire che rispecchi la personalità effervescente del suo regista.
Voto: 3/5
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Le lycéen = Winter boy
A raccontare questa storia è il diciassettenne Lucas (Paul Kircher, presente al festival per l’intervista al termine del film), il quale a posteriori rispetto agli eventi narrati ci spiega come la sua vita sia stata sconvolta dal trauma della morte del padre in un incidente stradale e cerca di ricostruire il senso di quanto gli è accaduto.
Lucas frequenta il liceo e come tutti i ragazzi della sua età va incontro alle prime esperienze sentimentali e sessuali (ha una storia con il compagno di classe Oscar) e fa i conti con un’età della vita in cui tutto ha confini ancora confusi e sfocati. In questo momento così delicato, Lucas viene raggiunto dalla notizia della morte del padre che lo catapulta all’improvviso in una condizione ignota e piena di incertezze. Mentre la madre Isabelle (Juliette Binoche) fa appello a tutta la sua forza interiore per non crollare di fronte ai figli, Quentin (Vincent Lacoste) cerca di svolgere il ruolo di fratello maggiore, portando con sé Lucas una settimana a Parigi, dove vive con il coinquilino Lilio (Erwan Kepoa Falé) e dove tenta di sfondare nel mondo dell’arte, allo scopo di farlo distrarre.
In questa settimana Lucas vaga per la città, si rifugia in chiesa, organizza un incontro sessuale con un coetaneo, si lega a Lilio cercando di sedurlo, tenta di prostituirsi, litiga e si riconcilia con il fratello, insomma va incontro a una versione amplificata di quella condizione di confusione, ambivalenza, mutevolezza e difficoltà di scollamento con la realtà circostante che è tipica di quell’età della vita.
Tutti nella famiglia di Lucas devono fare i conti con il dolore della perdita e la fatica che questo comporta, ma sulla fragile personalità ancora in formazione e lontana dal consolidamento di Lucas il lutto e il dolore producono un trauma così forte da mandare tutto in frantumi, fino a spingerlo a un gesto estremo e disperato, da cui solo lentamente potrà a poco a poco guarire per ritornare alla vita e guardare di nuovo al futuro.
Il film di Christophe Honoré è un film profondamente intimo e dalla forte componente autobiografica, come si comprende dalla dedica finale, rafforzata dal fatto che è lo stesso regista a interpretare il padre di Lucas nell’unica sequenza in cui compare. La forza del film sta sicuramente in buona parte nella straordinaria presenza scenica del giovane attore, i cui tratti delicati e il cui modo leggero e al contempo grave di stare nelle situazioni catapulta immediatamente in un’età della vita bella e terribile, in cui non si sa davvero a cosa appigliarsi per rimanere centrati. Come nel film di Guiraudie – e mi colpisce questa “somiglianza” tra due film completamente diversi – sebbene Le lyceen sia ambientato chiaramente nella contemporaneità, c’è qualcosa nel modo di vestire dei personaggi e in alcuni elementi narrativi che ci riconduce al passato, probabilmente a quello nel quale il regista ha vissuto i suoi diciassette anni.
Nel film di Honoré non c’è però solo la vicenda (personale e universale) di Lucas, bensì anche altri temi che si insinuano qua e là: penso in particolare al tema dei rapporti familiari e del tentativo - quasi sempre fallimentare - di protezione reciproco che crea storture e difficoltà di comunicazione, fino ad arrivare al tema del rapporto tra città e provincia e della tensione mai risolta tra bisogno di novità e ricerca di sicurezza, ovvero tra ampiezza delle opportunità e rischi di anonimità e solitudine.
Ne viene fuori un film intenso e ricco di sfumature che non può lasciare indifferenti.
Voto: 3,5/5
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