Presentato alla Festa del cinema di Roma del 2022 (ma sfuggito alla mia programmazione), esce ora in sala questo documentario che il regista e co-sceneggiatore Antonio Valerio Spera ha dedicato alla street artist romana Laika, che in realtà definisce sé stessa una poster-attacchina.
I suoi lavori, alcuni dei quali famosissimi (per esempio l'abbraccio di Giulio Regeni a Patrick Zacky), sono infatti prodotti che mescolano stili e arti: la pittura, la fotografia, l'oggettistica, il fumetto. Di solito si presentano sotto forma di "poster" che Laika durante la notte - aiutata da alcuni amici - affigge sul muro che ha designato. Sono lavori che spesso hanno una vita breve, perché i poster vengono quasi sempre rimossi molto rapidamente, soprattutto quando hanno come soggetti personaggi politici oppure quando sollevano questioni controverse. Le opere di Laika vivono però attraverso le loro riproduzioni ("l'opera d'arte nell'era della riproducibilità tecnica") realizzate in primis da lei stessa con la sua macchina fotografica e in secundis dai pochi fortunati che riescono a catturarne l'immagine nelle poche ore/giornate che riesce a sopravvivere nel suo luogo originario.
Laika appartiene al gruppo degli street artist che ha scelto la via dell'anonimato: in video e per strada appare sempre con una maschera e una parrucca rossa a caschetto e vestita con una tuta bianca o una tenuta da lavoro. Nel film anche la sua voce è distorta per impedirne il riconoscimento.
Ma tutto questo fa parte del contesto. Andando al contenuto del fim, il documentario si propone di approfondire e far conoscere soprattutto il punto di vista di Laika e il significato che la street artist attribuisce al proprio lavoro. Ne viene fuori il ritratto di un'artista consapevole e molto impegnata e attenta sul piano politico e sociale. I suoi lavori sono sempre la manifestazione di una voce critica/ironica/pungente/stimolante sui fatti dell'attualità, dai più spinosi a quelli apparentemente più leggeri. Il suo campo di azione è Roma in via privilegiata, ma Laika ha portato i suoi lavori anche in altre città d'Italia e all'estero, per rendere ancora più significativa la sua azione e darle maggiore risonanza.
In particolare l'ultima parte del film è dedicata al suo viaggio nella zona del campo profughi di Lipa, nel nord della Bosnia, quello andato a fuoco nel dicembre del 2020, e ai suoi contatti con i migranti sulla rotta via terra verso l'Italia. Si tratta sicuramente della parte emotivamente più intensa del documentario, e anche quella che lascia maggiormente l'amaro in bocca rispetto al senso di sconfitta, di inutilità e di impossibilità di cambiare le cose. Ne sono uscita un po' frustrata personalmente, ma anche ammirata rispetto alla tenacia e alla caparbietà di Laika, e in fondo di tutti gli attivisti che continuano a lavorare per gli obiettivi in cui credono senza farsi scoraggiare dall'enormità dei problemi e dalla inevitabile limitatezza della loro azione.
Voto: 3,5/5
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