E anche Sam Mendes porta in sala il suo personale omaggio al potere salvifico e riparatore del cinema (inteso come insieme di contenitore - la sala cinematografica - e di contenuto - i film), e lo fa attraverso la figura di Hilary (una sempre straordinaria Olivia Colman, che vale molto più della metà del valore complessivo del film), una donna che lavora presso il cinema Empire, sul lungomare della cittadina di Margate, sulla costa sud dell'Inghilterra.
Siamo nei primissimi anni Ottanta. La Gran Bretagna vive una pesante fase di recessione, come contraccolpo della crisi economica della fine degli anni Settanta. Al potere è salita Margaret Thatcher, con il suo programma liberista e conservatore, mentre il malessere sociale alimenta un rigurgito razzista.
Il cinema Empire, diretto da Mr Ellis (un Colin Firth in un ruolo per lui insolito), è in declino, ma Hilary svolge il suo lavoro di manager del personale con grandissimo scrupolo e attenzione, oltre a sottostare ai desideri - anche e soprattutto sessuali - del suo capo. Nella vita privata Hilary è profondamente sola, e si porta dietro una sofferenza psichica non meglio identificata.
Un giorno entra nello staff Stephen (Micheal Ward II), un giovane ragazzo di colore che porta una ventata di freschezza e di novità nell'ambiente stantio del cinema. Presto tra Hilary e Stephen nasce una storia apparentemente impossibile, che però sarà determinante - in modi diversi - per le future scelte di entrambi.
Empire of light è un film visivamente superbo: la fotografia di Roger Deakins è straordinaria in ogni singolo fotogramma, dalle inquadrature ai colori, all'utilizzo di quella luce che fin dal titolo è protagonista di questo film, perché è l'anima pulsante del cinema (e della fotografia).
Per quanto mi riguarda l'interpretazione di Olivia Colman e la fotografia di Deakins, assolutamente pensata per il grande schermo, valgono da soli il prezzo del biglietto, e anche di più. Per il resto, il film di Mendes si guarda piacevolmente e anche con qualche commozione, soprattutto in riferimento al personaggio di Hilary, però sul piano narrativo non appare secondo me del tutto risolto, soprattutto nel tentativo - che per certi versi appare un po' forzato - di utilizzare il cinema come strumento "curativo" dei disturbi di Hilary e delle incertezze di Stephen, grazie anche al personaggio-ponte del proiezionista Norman (Toby Jones).
In definitiva, anche Sam Mendes ci propone la sua personale versione di una lettera d'amore al cinema, riportandoci agli anni della sua adolescenza e celebrando i suoi miti del passato, nonché il suo amore per un luogo, la sala cinematografica, che già allora mostrava i segni della crisi.
In Mendes non c'è trionfalismo né proiezione verso il futuro, bensì un sentimento dolceamaro che non fornisce risposte né indica strade da percorrere.
Voto: 3/5 (ma darei molto di più a Olivia Colman e al direttore della fotografia)
Delicato e dolce, tanto triste. Mi è piaciuto ma, come dici tu, manca qualcosa, c'è un po' di superficialità. Per fortuna ci sono anche Deakins e la Colman!
RispondiEliminaProprio così!
Elimina