In un weekend bolognese riesco finalmente a recuperare France, il film di Bruno Dumont che avevo inseguito invano a Roma e che speravo di vedere in lingua originale. Alla fine mi accontento persino del doppiaggio pur di riuscire a vederlo, e mi chiedo ora se il vederlo doppiato non abbia in parte condizionato il mood della mia visione e il mio giudizio finale.
France è la storia di una giornalista televisiva, il cui nome dà il titolo al film (Léa Seydoux), molto popolare nel paese che si chiama come lei. France ha infatti un talk televisivo seguitissimo, nel quale spesso propone reportage di vario genere (guerra, cronaca nera, politica internazionale) di cui lei stessa è protagonista e anima. La sua fama la insegue qualunque cosa lei faccia e la sua assistente Lou (Blanche Gardin) non perde occasione per ricordarle quanto è brava e quanto è cool.
Non a caso il film inizia con una surreale conferenza stampa di Emmanuel Macron, in cui il presidente si rivolge proprio alla giornalista che ha l'onore di porre la prima domanda.
In questa vita al top accade un giorno che France investe con la macchina un rider, un ragazzo figlio di immigrati marocchini. L'episodio, di per sé non particolarmente significativo visto che tutto si risolve bene per il giovane, innesca in France una specie di reazione a catena che determina in lei una profonda crisi rispetto sia alla propria vita personale sia rispetto al proprio lavoro, al punto tale da essere costretta a trascorrere un periodo in una clinica in mezzo alle montagne. Da lì un altro episodio che non rivelerò produce una specie di movimento narrativo in direzione opposta, senza però che questo disinneschi la malinconia esistenziale di una donna la cui corazza è stata ormai scalfita in via definitiva.
Che dire? A me France è sembrato innanzitutto un film ipertrofico: mi capita raramente al cinema di pensare che un film sta andando avanti troppo per le lunghe e di non riuscire a capire dove andrà a parare, e in questo caso mi accade e alla parola "Fine" non smetto di pensare che non ho ben capito dove sia andato a parare.
In realtà ci sono nel film molte cose pregevoli: sicuramente la recitazione di Léa Seydoux, che non posso dire risultare credibile, ma certo perfettamente inserita nel registro narrativo scelto da Dumont. Il tema pure è parecchio interessante: uno squarcio di luce su un mondo, quello del giornalismo televisivo, che si è trasformato quasi in uno star system, al punto tale che la finzione o comunque la costruzione imposta dal linguaggio del reportage televisivo finalizzato a determinare un impatto emotivo si insinua nella realtà in maniera incontrollabile e pervasiva. Dumont rende fin troppo evidente - con il suo stile un po' sopra le righe - come il reportage giornalistico, che dovrebbe essere lo strumento primario di racconto del reale, è invece un elaborato spettacolo in cui lo storytelling ha la meglio sulla verità delle cose, sebbene la realtà sia presente e spesso potente di per sé stessa. È in questo cortocircuito che France finisce senza quasi volerlo e da cui non riesce più a tirarsi fuori.
E fin qui tutto bene. Però il mio problema durante tutto il film è la difficoltà a sospendere l'incredulità. La confezione, il registro narrativo, lo stile, la gratuità di alcune scene e la recitazione mi producono una distanza molto forte da quanto vedo sullo schermo e mi fanno sembrare tutto finto e poco credibile. Forse è voluto anche questo, ma con me funziona poco. Non avevo mai visto nulla di Bruno Dumont, che leggo essere un regista quasi di culto, quindi non so dire se è un qualcosa che riguarda questo film, o è invece la cifra stilistica del regista. Il risultato però per me è che il film non riesce a conquistarmi e alla lunga finisce per annoiarmi anche un po'.
Voto: 3/5
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