Pur considerando François Ozon uno dei registi più importanti della sua generazione, sinceramente non avrei pensato – soprattutto dopo alcuni dei suoi ultimi lavori - che fosse capace di realizzare un film asciutto e misurato come questo. Vero è che il regista francese ci ha abituati a un percorso decisamente poco prevedibile e a una varietà di approcci tale da non farci più meravigliare di niente (cosa che secondo me appartiene solo ai grandi registi).
Però in questo caso secondo me c’è qualcosa di più. Sapevo che il film è tratto dal romanzo autobiografico di Emmanuèle Bernheim, ma non sapevo che quest’ultima fosse una delle collaboratrici più strette di Ozon e che fosse morta pochi anni fa.
Penso dunque che questo film, presentato all’ultimo festival di Cannes, sia consapevolmente e totalmente un omaggio del regista a questa donna come professionista e amica, e che in questo omaggio Ozon abbia scelto di tararsi sul registro narrativo del romanzo (che intendo leggere a breve), spogliandosi dei propri stilemi e mettendosi al servizio della storia e dei suoi protagonisti.
Al centro del racconto c’è Emmanuelle (una straordinaria Sophie Marceau, che noi continuiamo ad associare alla ragazzina con gli shorts de Il tempo delle mele, e invece è attrice gigantesca capace di far passare attraverso il suo volto pensieri e sentimenti all’interno di una gamma amplissima). Un giorno la donna riceve una telefonata che le annuncia che suo padre André (l’altrettanto strepitoso André Dussolier) è stato colpito da un ictus ed è in ospedale.
Inizia qui un percorso che vede Emmanuèle, insieme alla sorella Pascale (Géraldine Pailhas), fare i conti con la volontà del padre di morire e la sua richiesta di aiuto nel realizzare questa volontà.
Siamo in un ambiente intellettualmente elevato (ad altissima intensità artistica: André è un collezionista d'arte, Emmanuèle una scrittrice, sua sorella Pascale una musicista, e la madre una scultrice) ed economicamente benestante, non condizionato da convincimenti religiosi né da impedimenti di altro genere.
Eppure la strada è tutta in salita: perché le leggi francesi non consentono l’eutanasia e dunque, anche scegliendo la Svizzera come luogo dove attuare la volontà del padre, il rischio di complicità per le due donne è alto; perché André è un vecchio testardo ed egocentrico che suscita tenerezza ma anche una profonda rabbia; perché dentro il rapporto tra André ed Emmanuèle (e Pascale) confluiscono tutti i nodi irrisolti del passato, i rancori, gli odi, le paure, le competizioni, i ricordi belli e quelli terribili; perché l’amore verso l’altra persona è l’ostacolo più grosso nell’accettare la volontà di morire della persona amata.
A questo punto si potrebbe pensare che il film di Ozon sia un racconto drammatico incentrato sul tema della morte. Sorprenderà dunque sapere e soprattutto constatare durante la visione che È andato tutto bene è un film pieno di vita e di amore per la vita, oltre che di ironia e di capacità di ridere e sorridere dell’esistenza anche nei momenti più drammatici. André è un uomo curioso, pieno di passioni, che ha scelto sempre la vita e ha vissuto pienamente, e forse proprio per questo di fronte al declino inevitabile preferisce mettere un punto.
Come ci dice Mina Welby nel dibattito che segue la proiezione del film, la scelta di morire è qualcosa di profondamente soggettivo e imprevedibile. Ci sono persone in condizioni disperate ed estreme che vogliono vivere fino all’ultimo istante che la vita gli concede, e persone che – come André – pur sapendo che la vita può regalargli ancora qualcosa di bello, vogliono poter decidere – tutto sommato senza drammi – di mettere fine all’esistenza.
È decisamente un tema non facile quello trattato nel film di Ozon, che non a caso sceglie di rimanere in un certo senso spettatore di un racconto che appartiene a un’altra persona, e che con questa scelta non pretende in alcun modo di fornire risposte universali, ma solo di tradurre in racconto cinematografico una testimonianza. Ma proprio questa scelta, che affida agli attori il compito principale di realizzare l’empatia con gli spettatori e dunque di far comprendere gli stati d’animo di ciascuno, si rivela vincente, e capace di far arrivare nel cuore di chi guarda molto più di quello che potrebbe fare un film a tema.
Da vedere assolutamente in lingua originale. Se poi, come me, avrete anche la possibilità dopo il film di ascoltare chi ha vissuto in prima persona un percorso di questo tipo, come Mina Welby, l’emozione sarà totale e soverchiante.
Voto: 4/5
Nessun commento:
Posta un commento
Lascia qui un tuo commento... Se non hai un account Google o non sei iscritto al blog, lascialo come Anonimo (e se vuoi metti il tuo nome)!