Piazza degli eroi è l’ultimo testo teatrale scritto da Thomas Bernhard nel 1988, non molto tempo prima della sua morte avvenuta nel febbraio 1989. È considerato il testamento politico dell’autore ed è caratterizzato da una feroce ed esplicita critica nei confronti della classe politica austriaca che, a distanza di 50 anni dal discorso di Hitler in piazza degli Eroi con l’annuncio dell’Anschluss, ossia l’annessione dell’Austria alla Germania nazista, non aveva saputo prendere le distanze secondo l’autore dal passato nazista.
Ma Piazza degli eroi non è soltanto una requisitoria politica, bensì anche una storia intima, quella del professor Schuster, un intellettuale ebreo, tornato a Vienna dopo aver vissuto e insegnato in Inghilterra. Il dramma inizia dopo che il professor Schuster è morto suicida, gettandosi dalla finestra, ed è interamente incentrato sui dialoghi e sulle riflessioni in merito alla sua morte di tutti coloro che ruotavano intorno alla sua vita: la governante, signora Zittel (Imma Villa), il fratello filosofo Robert (Renato Carpentieri), le figlie (Silvia Ajelli e Francesca Cutolo), la vedova (Betti Pedrazzi, da poco vista in È stata la mano di dio).
Ciascuno di loro si interroga sui motivi del gesto del professore, finendo inevitabilmente per fare riferimento alla situazione politica dell’Austria, al dilagare del revanscismo nazista e dell’antisemitismo. Però il suicidio del professore non è solo una risposta a una situazione esterna, bensì anche una scelta individuale legata a un’età in cui si tende ad avere nostalgia del passato e si fa sempre più fatica a proiettarsi nel futuro.
Quella di Bernhard è dunque certamente una requisitoria politica - che non a caso fece molto scandalo nella Vienna dell’epoca e che spinse il drammaturgo a lasciare scritto nel proprio testamento che le sue opere non sarebbero più state rappresentate in territorio austriaco – ma è anche una commossa riflessione sulla vecchiaia in quanto età della vita non sufficientemente approfondita e sulla morte come scelta consapevole.
L’opera, mai rappresentata in Italia, viene portata in scena da Roberto Andò, con l’intento di farla conoscere al pubblico italiano in un momento in cui le derive populiste e sovraniste (termini forse un po’ impropriamente utilizzati nella traduzione) sono sempre più presenti anche nel nostro paese, e non solo, e dunque è necessario tornare a fare i conti con il passato.
I riferimenti al presente certamente non passeranno inosservati e inascoltati, ma in realtà l’operazione compiuta da Roberto Andò (e favorita dalla traduzione e adattamento di Roberto Menin) va al di là di questa lettura contemporanea (che risulta tutto sommato un po’ riduttiva e didascalica) per offrirci invece un grande spettacolo teatrale, fatto di una messa in scena molto suggestiva (molto bella la scenografia sia degli interni che degli esterni, con gli alberi appesi e le foglie che cadono incessantemente) e di grandi attori (tra tutti Renato Carpentieri che riesce a rendere credibile un personaggio di un nichilismo e di un pessimismo estremi). Molto toccante la figura del pianista invisibile, che abita il palco insieme ai protagonisti e ne suona la colonna sonora senza essere visto, ma partecipando con il suo volto e senza dire una parola ai vari momenti del dramma.
Due ore e mezza di teatro senza intervallo, se non i brevi pezzi suonati dal pianista fantasma mentre ci sono i cambi di scena, non sono uno scherzo. Io ho sofferto la prima mezz’ora, poi dall’entrata sul palcoscenico di Renato Carpentieri, anche grazie alla sua bravura, sono entrata in sintonia con questo testo così cupo, eppure così sincero nel guardare in faccia il nulla oltre la morte, e ne sono stata definitivamente conquistata.
Voto: 3,5/5
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