Ogni volta che finisco la lettura di un romanzo, soprattutto quando si tratta di romanzi per me faticosi, a seguire mi rivolgo al mondo dei fumetti per alleggerire un po' la testa.
Ma ormai dovrei sapere che i graphic novel possono essere altrettanto se non più impegnativi dei romanzi; ne ho avuto la riconferma con la lettura di Salvo imprevisti di Lorena Canottiere.
Quella della Canottiere è una narrazione che si sviluppa su quattro diversi piani, corrispondenti ad altrettanti personaggi: si tratta di Katherine, Liam, Marzia e Rocìo.
Katherine è la scrittrice neozelandese Mansfield, la quale dopo la morte del fratello non si dà pace e continua a cercarlo, nonché a vederlo e a parlarci, non rassegnandosi alla sua assenza.
Liam - che partecipa a un progetto di ricerca finalizzato a captare i segnali provenienti dall’universo - vive un altro tipo di assenza, quello della sua ex fidanzata che è sparita dalla sua vita, cosa che lui non ha ancora veramente accettato.
Marzia è un’adolescente taciturna e completamente chiusa nel suo mondo, incapace di comunicare con il prossimo, ma molto attiva sulla rete dove ha praticamente una vita alternativa.
Infine, Rocìo è l’“intelligenza artificiale” che governa una videocamera puntata sul mondo circostante e che si interroga sulle vite degli altri e in sostanza su cosa potrebbe/vorrebbe significare il fatto di possedere un corpo.
Lorena Canottiere dimostra di essere sideralmente lontana da tutto quel filone dei graphic novel di tipo fortemente ombelicale e di avere invece ambizioni narrative alte, sostenute anche da soluzioni grafiche altrettanto importanti.
I temi della presenza/assenza, del rapporto con la fisicità del corpo, con l’incidenza che la fisicità ha sulle relazioni sono di sicuro interesse, in generale e tanto più rispetto al contesto nel quale viviamo.
E però nonostante questo – e pur avendo apprezzato le intenzioni dell’autrice – personalmente non sono riuscita a entrare in sintonia con lo stile della Canottiere, cosicché il graphic novel mi è risultato a tratti un po’ confuso e la narrazione troppo cerebrale o comunque costruita a tavolino.
In parte l’effetto è stato certamente determinato anche da un limite mio, ossia il fatto che sono poco visual literate, e in molti casi mi rendo conto di guardare le immagini sommariamente, come farei con le parole, e ovviamente non colgo tutti quei dettagli necessari a comprendere appieno il piano comunicativo esclusivamente visuale.
L'offerta cinematografica dopo la riapertura delle sale è ancora piuttosto limitata, dunque se si vuole andare al cinema bisogna accontentarsi un pochino. Questo solo per dire che in altri tempi probabilmente non avrei preso in considerazione la visione dell'ultimo film di Woody Allen, e anche per dire che Woody Allen è una certezza anche in periodo di pandemia con la sua capacità di continuare a sfornare titoli al ritmo di uno all'anno.
Fatta questa doverosa premessa, andiamo al film. Mort Rifkin (Wallace Shawn) è un ex professore di cinema, ora impegnato nella scrittura di quello che dovrebbe diventare il "romanzo della vita", ma in realtà vittima di frustrazione e forme di ipocondria. Sua moglie Sue (Gina Gershon, donna dal labbro generoso) si occupa di promozione cinematografica e in particolare rappresenta un giovane regista, Philippe (Louis Garrel), il cui ultimo film viene presentato al Festival di San Sebastian.
Per questo Mort e Sue vanno insieme nella cittadina basca, dove mentre Sue fa il suo lavoro e nello stesso tempo flirta con Philippe, Mort fa i conti con preoccupanti fitte al cuore che lo portano dalla dottoressa Jo Rojas (la bella Elena Anaya). Quest'ultima soffre per il rapporto tormentato con suo marito Paco (Sergi Lopez) e così si lascia andare al conforto di Mort. Alla fine il Festival finisce, e alcune cose non saranno più come prima mentre altre torneranno a essere quelle che erano, come lo stesso Mort - la immancabile voce narrante di Allen, nonché il suo alter ego - racconta nella seduta psicanalitica che fa da cornice al racconto.
All'interno di questa narrazione tutto è esattamente come ce lo si aspetta, battute cinico-sarcastiche del protagonista comprese. L'aspetto forse più divertente e forse in parte (ma solo in parte) originale del film è rappresentato dagli inserti onirici in bianco e nero, che trasportano Mort in spezzoni di film del passato dei grandi maestri del cinema che l'evento cinematografico gli ispirano.
Io - da ignorante delle basi del cinema quale sono - ne ho riconosciuti pochissimi, e mi sono fatta aiutare da S. a identificare diversi degli altri. Cosicché alla fine dei conti non ho potuto nemmeno godere appieno di questa metacinematografia che il film propone, e dunque - come sempre mi accade - il film di Woody Allen mi è scivolato addosso.
Bello rivedere San Sebastian, città che mi è rimasta nel cuore dopo un breve soggiorno e dove ho fatto anche delle bellissime fotografie. Anche in questo caso però Allen si sofferma - forse inevitabilmente - sull'aspetto più glamour e turistico della città, senza veramente entrarci in contatto. Voto: 3/5
Siamo alla CAPA, una scuola di performing arts di una cittadina americana, dove un gruppo di allievi più o meno sedicenni trascorre le proprie giornate tra lezioni, colloqui con i professori, ma anche amicizie, amori e sogni.
La protagonista della narrazione è Sarah, la quale ha una storia con David, che - come tutte le storie adolescenziali - si consuma tra avvicinamenti e allontanamenti, dubbi e certezze, intromissioni e reinterpretazioni. Intorno a loro altri giovani come loro dapprincipio in parte anonimi, ma che poi vengono rivelati durante la narrazione grazie a specifici episodi. Su tutti aleggia la figura del professor Kingsley, un personaggio fortemente carismatico ma anche piuttosto ambiguo.
La già poco tranquilla routine della classe viene resa ulteriormente più complessa dall'arrivo di un gruppo di studenti inglesi e dei loro insegnanti che dovrà mettere in scena uno spettacolo teatrale, destinato a far molto discutere e a cambiare profondamente equilibri e rapporti.
Questa però è solo la prima parte del libro di Susan Choi. Seguono infatti due ulteriori segmenti narrativi: nel secondo la narratrice è Karen, una delle ragazze della CAPA nonché amica di Sarah, ora adulta che ci dà la sua lettura degli eventi narrati nella prima parte; nel terzo - il più breve - la protagonista è un'altra giovane donna la cui identità comprenderemo solo andando avanti nella lettura.
Non è possibile dire nulla di più della trama di Esercizi di fiducia senza rischiare di svelare il gioco narrativo della scrittrice rovinando in parte la sorpresa della lettura.
Quello che invece posso sicuramente dire è che ho arrancato nella lettura, soprattutto della prima parte. Un sentimento di estraneità e la cerebralità di alcune porzioni narrative mi hanno fatto pensare più volte di abbandonare.
Poi con l'inizio della seconda parte la lettura è diventata più fluida e io ho acquisito una maggiore fiducia nella narrazione, convincendomi ad andare fino in fondo. Non posso dire che la mia fiducia sia stata ben riposta, perché dopo aver voltato l'ultima pagina il senso di insoddisfazione non era stato superato e mi rimanevano molti interrogativi, di cui uno su tutti: cosa ci voleva dire la scrittrice?
E così ho cominciato a pensare che il titolo del libro Esercizi di fiducia non fa solo riferimento agli esercizi che il professor Kingsley fa fare ai suoi allievi di teatro, ma sono anche quelli che il lettore fa nei confronti di qualunque scrittore quando decide di leggere un testo. Il libro della Choi in fondo è una riflessione sul rapporto tra narrazione e realtà, e in particolare tra scrittore e lettore, ovvero tra narratore e ascoltatore, che è sempre un rapporto di fiducia, visto che la narrazione è sempre un'interpretazione della realtà e tutte le volte che non siamo testimoni oculari di una vicenda e dunque non abbiamo una nostra prospettiva narrativa dobbiamo decidere a chi e cosa credere di ciò che ci viene raccontato.
Alla fine - com'è tipico mio - ci ho trovato anche uno spunto di riflessione per me interessante, però personalmente non è una lettura che consiglierei con slancio.
Quella di leggere il romanzo di una scrittrice cinese è certamente un’esperienza interessante.
Lo è per la lingua che – sebbene resa il più vicina possibile all’italiana grazie alla traduzione – rivela una struttura completamente diversa. Lo è per la costruzione del pensiero e per le modalità di espressione dei sentimenti che evidentemente rispecchiano le strutture linguistiche e le tradizioni culturali di un paese molto lontano dal nostro.
La storia narrata in Shanghai baby è molto semplice: una giovane donna che vive a Shanghai e che ha pubblicato un libro di racconti sta tentando di scrivere un romanzo che ne consacrerebbe lo status di scrittrice. La donna si innamora di un uomo conosciuto in un bar che si rivelerà impotente e successivamente eroinomane, ma a cui sarà legata da un amore tenero e profondo. Nella sua vita comparirà a un certo punto Mark, un tedesco sposato, con cui avrà una lunga relazione basata su una forte intesa di tipo sessuale.
Intorno si muove un mondo composto di numerosi personaggi più o meno indimenticabili.
La lettura è interessante e a tratti appassionante, ma resta la sensazione di una discontinuità, una specie di modalità sincopata di raccontare il mondo interiore, unita a una modalità sorprendentemente diretta di affrontare temi e sentimenti anche molto delicati.
In definitiva, l’inevitabile distanza culturale mi ha reso difficile un processo di pieno assorbimento che – indipendentemente dal grado di identificazione o meno con i personaggi – è quello che di solito ci consente di comprenderne i pensieri e l’evoluzione psicologica.
La lettura di questo romanzo resta però dal mio punto di vista un’esperienza interessante e che può valere la pena di fare.
Dopo circa 5 mesi di astinenza (per fortuna ero riuscita a fare scorpacciata al Festival del cinema di Roma) torno finalmente a vedere un film sul grande schermo, e questo film non poteva che essere il vincitore come miglior film (ma anche miglior regia e miglior attrice protagonista) agli Oscar 2021. A dire la verità, alla riapertura dei cinema non è che l'offerta fosse particolarmente ampia; del resto, arriviamo da un anno in cui non solo i cinema sono stati chiusi, ma anche molte produzioni si sono fermate.
E direi che per il momento intanto possiamo essere felici di tornare al cinema e godere di questa possibilità.
Nomadland è il film di Chloé Zhao (la regista cino-americana che aveva già attirato l'attenzione di pubblico e critica con il precedente film The rider - Il sogno di un cowboy), basato sul libro della giornalista Jessica Bruder, a suo volta nato da un articolo di inchiesta sulle tante persone che in America vivono in maniera non stanziale per necessità o per scelta.
La protagonista, Fern (Frances McDormand), è un personaggio di finzione (per quanto estremamente realistico) e fa da elemento di connessione tra le storie di tutti gli altri, Linda May, Swankie, Bob Wells, interpreti di sé stessi.
La donna, dopo che suo marito è morto e la città dove vivevano, Empire, è stata cancellata dalle mappe a causa della chiusura della miniera di gesso intorno alla quale era nata, posta di fronte alla necessità di spostarsi altrove e alla prospettiva di un sussidio, decide di allestire il suo van e di vivere nomade, facendo lavori stagionali in giro per l'America: ad Amazon durante il periodo natalizio, in un fast food, nella raccolta delle barbabietole e così via. Diventa presto amica di Linda May, una veterana della vita nomade, che la introduce anche agli appuntamenti annuali con Bob Wells, una specie di guru del nomadismo che si propone di creare una forma di comunità tra queste persone, nonostante i loro rapporti non siano continui e quotidiani.
Ne viene fuori il ritratto (anzi i tanti ritratti) di un'America alternativa, dentro la quale ci sono tante cose: le conseguenze della crisi economica e dell'aumento della disoccupazione, un sistema di welfare insufficiente, un meccanismo economico fortemente dipendente dai lavoratori stagionali in buona parte sottopagati, ma anche forme di solitudine più o meno desiderate e ricercate, l'esigenza di un contatto più stretto con la natura e di legami più laschi e meno vincolanti, le mille strade per affrontare i propri dolori.
Frances McDormand è superlativa: riesce a comunicarci cosa le passa per la testa anche senza parlare, con la distensione o il corrugarsi di una ruga sul viso, e su questo c'è poco da dire. È vero che in fondo fa un personaggio che le è familiare, la donna forte che si porta dentro un dolore grande e che fa fatica a esternare i suoi sentimenti, però non c'è dubbio che è in grado di declinarlo in maniere sempre più sfumate. Va però detto che non c'è soluzione di continuità con gli altri protagonisti, per gran parte attori non professionisti, nella capacità di rendere sinceri i sentimenti e le storie.
Indubbiamente la retorica è dietro l'angolo e tutte le volte che la telecamera si avvicina troppo ai volti oppure se ne allontana troppo per mostrare i grandi paesaggi americani e parte il commento musicale di Ludovico Einaudi il rischio diventa realtà e produce un effetto un po' stucchevole.
Ciò detto la fotografia è di grande livello - e la cosa non mi dispiace affatto -, e soprattutto dentro la confezione ci sono storie, condizioni e sentimenti importanti da raccontare, all'interno di una struttura narrativa circolare ben costruita.
Un'ultima considerazione: la cosa che mi ha colpito di più in questi giorni è che la mia bacheca Facebook - in cui da mesi nessuno parlava di film e sentiva il bisogno di fare esternazioni in merito - si è riempita di post di persone che sono andate a vedere Nomadland al cinema ed esprimevano il loro parere, suscitando ampio dibattito tra i loro amici nei commenti. Mi è sembrato un fatto molto interessante: tutti (io meno degli altri a dire la verità) durante la chiusura dei cinema abbiamo visto film e serie Tv a casa usando tutte le piattaforme possibili, probabilmente ne abbiamo visti molti di più della media, se si considera il fatto che siamo usciti molto meno la sera. Eppure di film se ne parlava poco, e nessuno sentiva il bisogno di condividere il proprio punto di vista. Perché? Sicuramente il fatto che andare al cinema non è un'azione puramente privata, ma sociale (che comporta una precisa ritualità) conta.
Poi sicuramente conta che la stagione cinematografica - a differenza delle piattaforme - non prevede un'offerta infinita, bensì la contemporaneità di un numero limitato di titoli, il che aumenta sensibilmente la probabilità che molte persone più o meno contemporaneamente vedano lo stesso film. Perché questo accada nel privato della visione sulle piattaforme è necessario che si superi una massa critica che renda l'esternazione del proprio punto di vista commentabile e sensata per un numero elevato di persone.
E dunque siamo tornati - almeno apparentemente - dove ci eravamo fermati un bel po' di tempo fa: bacheche in cui qualcuno dice che Nomadland è un film noioso e che gli Oscar sono sempre una fregatura e qualcuno che grida al capolavoro ad altissimo tasso emotivo. Sono polarizzazioni che normalmente mi produrrebbero l'orticaria (ma nel contesto social sono la normalità perché prevalgono le frasi ad effetto), però in questo caso - e solo in questo caso - ne sono persino contenta, perché vuol dire che nella nostra vita c'è ancora spazio per il cinema.
Il cinema è ancora vivo. Evviva il cinema.
(E scusate per la lunga recensione. Ma il ritorno al cinema mi ha preso un po' la mano) Voto: 3,5/5