Stop the pounding heart è il terzo capitolo della trilogia che Roberto Minervini ha dedicato al Texas. Dopo The Passage (2011) e Low Tide (2012) che non ho visto e che a questo punto spero di recuperare, questo terzo documentario (qualcuno lo ha definito “cinema del reale”) ha come protagonisti Sara e Colby.
Entrambi vivono nel profondo Texas, in un’area rurale: la prima è una dei numerosi figli di una coppia che ha scelto uno stile di vita molto semplice incentrato sull’allevamento delle capre, la trasformazione del latte e la vendita dei prodotti caseari che ne ricavano; il secondo è invece un appassionato di rodeo e passa le sue giornate ad allenarsi a cavalcare i tori in vista delle competizioni. Se da un lato la preghiera è onnipresente, a volte quasi in maniera inopportuna, dall’altro tutti fanno esperienza di utilizzo delle armi da fuoco, con sessioni periodiche di tiro al bersaglio.
Come già avevo avuto modo di osservare in Che fare quando il mondo è in fiamme?, Minervini utilizza la videocamera come un antropologo classico utilizzerebbe il suo blocco degli appunti durante uno studio basato sull’osservazione partecipata.
Il regista con la sua videocamera sta in mezzo a queste persone fino a diventare un tutt’uno con il mondo che sta raccontando, a volte partecipando all’azione in maniera esplicita (ad esempio quando un bambino al rodeo si rivolge direttamente a lui dietro la telecamera, ovvero quando, durante la passeggiata nel bosco, un altro bambino si gira a guardare se la telecamera li segue), altre volte facendosi praticamente invisibile e dunque riuscendo nel non facile tentativo di far sentire le persone a proprio agio e perfettamente naturali (o almeno questo è quanto noi percepiamo).
Parte del merito di Minervini – che è poi un tratto specifico del suo modo di girare – consiste nel fatto di osservare, anche da molto vicino, senza far trasparire un giudizio, bensì facendo emergere solo il desiderio di conoscenza che appunto è proprio dell’antropologo.
Il fatto che in questo caso i soggetti che lui racconta sono in buona parte bambini e adolescenti rende questo esperimento ancora più riuscito: i primi infatti non sono minimamente intimoriti dalla telecamera e oscillano tra l’attenzione verso di essa e il completo disinteresse, come se non esistesse; i secondi osservano il mondo circostante con occhi attenti, ma proferiscono poche parole, non potendo nascondere le cupezze e gli imbarazzi che sono tipici di quell’età.
Ne viene fuori il ritratto di un ambiente da un lato bucolico e profondamente in contatto con la natura circostante, in cui i giochi dei bambini sono semplici e i divertimenti degli adulti pure, ma in cui tutti fanno vite aspre e faticose, muovendosi dentro un orizzonte educativo apparentemente molto pacifico e amorevole, ma in realtà fatto di durezze e condizionamenti molto profondi, rispetto ai quali il percorso di conquista della propria individualità e specificità appare – soprattutto per un adolescente - ancora più difficile e faticoso di quanto non sia normalmente.
Un film fatto di sguardi, di intimità, di attenzioni, di osservazioni, e che - attraverso tutte queste cose - ci invita innanzitutto a conoscere e a comprendere senza pregiudizi una realtà che ha tutta la dolcezza e la crudeltà insieme delle scelte radicali.
Voto: 4/5
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