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The farewell - Una bugia buona
Non so se è una mia impressione, oppure se è il frutto della particolare selezione di film che ho fatto, ma vedo nella Festa del cinema di Roma di quest'anno una forte presenza di film la cui ispirazione è di tipo autobiografico. Così è anche nel caso di The farewell, il film della regista cino-americana Lulu Wang, che racconta un ricongiungimento familiare nella terra di origine di una famiglia dispersa per motivi lavorativi.
Quando la famiglia di Nai Nai scopre che questa ha un cancro ai polmoni al quarto stadio, i suoi figli e le rispettive famiglie (che vivono una negli Stati Uniti e una in Giappone) decidono di non dirle niente per farle vivere serenamente gli ultimi mesi di vita, ma anticipano i tempi del matrimonio del nipote trapiantato con la famiglia in Giappone per poter tornare in Cina ad abbracciarla per l'ultima volta e a salutarla.
L'unica inizialmente contraria a questa messa in scena è Billi (Awkwafina), che si è trasferita con i genitori negli Stati Uniti quando aveva 6 anni ed è ormai più americana che cinese, e dunque è convinta che sia un diritto della nonna poter sapere delle proprie condizioni ed essere padrona della propria esistenza.
Quando tutta la famiglia si ritrova a Shanghai, dove la nonna vive in uno dei tanti grattacieli-alveari di cui è sempre più costellata la città, si innescano una serie di dinamiche che tutti coloro che hanno lasciato il loro luogo di origine e vivono ormai da molti anni lontano dalla famiglia (foss'anche a qualche centinaio di chilometri) conoscono molto bene. Si tratta di dinamiche che oscillano tra il drammatico e l'esilarante, perché nascono dalla difficoltà di chi è andato via di riconoscersi ancora e talvolta persino di comprendere le logiche di chi è rimasto.
Dentro una cornice che non può che essere dolorosa e melodrammatica - negli occhi di tutti si legge il dolore e lo sbigottimento per una persona cara che forse vediamo per l'ultima volta - la regista riesce a iniettare dosi massicce di ironia capaci di creare situazioni in cui non si sa bene se ridere o piangere.
In questo percorso si realizza non solo un viaggio di conoscenza e di scoperta della cultura cinese (nella quale - come dice lo zio di Billi - la vita non è del singolo ma appartiene a insiemi più grandi che sono la famiglia e la società), ma anche un confronto-scontro tra il mondo occidentale e quello orientale, nel quale - come comprenderà Billi - non si può ragionare secondo le categorie del meglio e peggio, perché ogni cultura merita rispetto e ha qualcosa da insegnarci sulla base della sua storia e delle sue tradizioni.
Tra sessioni di preparazione di prelibatezze, pranzi di famiglia, preparativi e feste un po' kitsch, Billi imparerà che non solo non ci affranchiamo mai completamente dalle nostre origini, ma che anzi è importante recuperare quanto ha valore e merita di essere preservato.
Sullo sfondo, una città di 24 milioni di abitanti che non smette di costruire nuovi quartieri-dormitorio e che - al di là della sua immagine internazionale glamour - rappresenta in fondo il tradimento che la stessa Cina sta attuando contro sé stessa e la propria cultura, cancellando a suon di denaro e in nome del progresso anche quanto di positivo e di buono esisteva nel suo passato povero.
La sorpresa finale sui titoli di coda - che non svelerò per non rovinarla - offrirà l'occasione di una definitiva risata liberatoria che in fondo riconcilierà Oriente e Occidente.
Voto: 3,5/5
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La belle époque
Quella de La belle époque è la serata più glamour di questa edizione della Festa a cui io abbia partecipato. In sala ci sono il regista, Nicolas Bedos, e una delle interpreti, Fanny Ardant, e nel pubblico molti personaggi del jet set romano, di cui io riconosco solo alcuni.
Alla fine della proiezione il pubblico prorompe in un fragoroso applauso, offrendo il giusto omaggio agli ospiti in sala ma anche dimostrando di aver gradito molto la pellicola.
Effettivamente il film di Bedos offre uno spettacolo cinematografico di ottimo livello, grazie ad attori molto bravi (nel cast oltre all'Ardant ci sono anche Daniel Auteuil, Guillaume Canet, Pierre Arditi, Denis Podalydès), una sceneggiatura al fulmicotone in cui lo spettatore non si annoia nemmeno per un secondo, e una confezione molto accurata.
La storia è presto detta: Victor (Daniel Auteuil) e Marianne (Fanny Ardant) sono sposati da molti anni, ma ormai sempre più litigiosi e incompatibili. Victor, un fumettista ormai in declino, non si trova a suo agio nel presente e vive costantemente nella nostalgia del passato; Marianne, una psicologa sempre al passo coi tempi, non accetta la vecchiaia e fa di tutto per continuare a sentirsi giovane. I due inevitabilmente si lasciano, e Marianne si rifugia tra le braccia del suo amante, più giovane di suo marito.
A Victor invece suo figlio, un creatore e produttore di serie di successo per le piattaforme Internet, regala un buono per un "viaggio nel tempo" grazie all'attività gestita da Antoine (Guillaume Canet), uno sceneggiatore e regista che ricostruisce set di epoche passate e situazioni personali o collettive su richiesta e lauto pagamento dei suoi clienti. Victor sceglie di tornare al 1974, esattamente al momento in cui ha conosciuto Marianne in un caffè che frequentava all'epoca. Nella finzione Marianne è interpretata da Margot (Doria Tillier) che è la compagna con cui Antoine ha un rapporto molto burrascoso.
Victor resta affascinato da Margot come a suo tempo lo era stato da Marianne, e - pur consapevole della finzione - trova in questo incontro nuova ispirazione e nuovi stimoli per ricominciare a disegnare e per amare la propria vita.
In una carambola di situazioni in cui realtà e messa in scena si inseguono fino a diventare indistinguibili, il lieto fine - seppure in parte malinconico - è dietro l'angolo a rasserenare gli animi degli spettatori.
Un film che si lascia guardare molto gradevolmente e che dimostra un certo qual virtuosismo, oltre a un'elevata dose di ironia francese nella sua migliore forma, ma che personalmente non mi ha detto moltissimo, se non che i francesi mi sembra stiano vivendo una fase fortemente nostalgica verso il passato (cosa tra l'altro che non mi trova del tutto in disaccordo), fino ai limiti di una forma di conservatorismo se non reazionarietà nei confronti delle storture che in modo particolare la tecnologia ha determinato rispetto alle vite delle persone (mi è venuto in mente un altro film con Guillame Canet, Il gioco delle coppie, di Olivier Assayas, ma gli esempi potrebbero essere numerosi).
Gli attori - pure tutti molto bravi - mi pare che si limitino a riprodurre i loro personaggi migliori, quasi ormai incapaci di affrancarsi da una certa immagine di loro che ormai il cinema ha convogliato.
Voto: 3/5
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Honey boy
Honey boy è il film che - con l'aiuto della regista Alma Har'el - Shia LaBeouf ha dedicato alla ricostruzione della propria infanzia e del rapporto con suo padre. Otis (interpretato da adulto da Lucas Hedges) fa l'attore e lo stuntman per il cinema, ma ha grossi problemi di dipendenza e disturbi psicologici che lo portano spesso in riabilitazione.
È durante uno di questi periodi che la terapista chiede a Otis di scrivere un diario per raccontare della sua infanzia e di suo padre. Da qui l'inizio dei flashback in cui il protagonista rievoca la propria infanzia: Otis ha 12 anni (e a quest'età è interpretato dal bravissimo e misuratissimo Noah Jupe) e vive con il padre James (interpretato dallo stesso LaBeouf) in un monolocale che forse sarebbe meglio chiamare baracca, i cui vicini sono degli sbandati e delle prostitute.
I genitori sono separati: James, che si presenta quasi come una versione devastata e dei bassifondi di David Foster-Wallace, è un clown ed ex-artista di strada fallito, alcolista e dedito al consumo di droghe, totalmente incapace non solo di prendersi cura di un figlio, ma anche di svolgere il ruolo di padre; la madre vive con un altro compagno e fa una vita normale, ma ha un rapporto burrascoso con l'ex marito in quanto - come scopriamo a un certo punto - ha dovuto lanciarsi da un'auto in corsa per non essere stuprata da lui. Non è chiaro perché Otis viva con il padre e non con la madre; in ogni caso, il ragazzo è già molto ben inserito nell'ambiente hollywoodiano ed è il protagonista di una serie televisiva nella quale dimostra di avere molto talento recitativo. Padre e figlio vivono con i soldi che guadagna quest'ultimo, ma il problema non è solo economico, bensì soprattutto affettivo.
Otis ama suo padre ed è sempre pronto a recuperare il rapporto con lui e a perdonargli tutto, ma soffre della mancanza di quell'amore e di quella protezione che è normale aspettarsi dalla figura paterna. Tra allontanamenti e riavvicinamenti, momenti di quasi tenerezza e di inaudita violenza, soprattutto psicologica, Otis si ritroverà da adulto con un disturbo da stress post-traumatico per il quale è in riabilitazione e sta scrivendo il diario del rapporto con suo padre.
E in fondo anche questo film - in cui Shia LaBoeuf interpreta proprio suo padre - non è altro che una tappa del percorso terapeutico che l'attore utilizza per superare il rancore, riconciliarsi con il padre e voltare pagina per guardare avanti nella propria esistenza.
Non v'è dubbio sul fatto che al cinema ne abbiamo visti parecchi di rapporti patologici tra padri e figli e di film che vengono girati quasi a scopo catartico e questo non fa eccezione, e da questo punto di vista non presenta una particolare originalità. Però - anche grazie alla splendida interpretazione di Noah Jupe e ad alcune trovate registiche e narrative molto azzeccate (penso a tutte le occasioni in cui nella vita di Otis si sovrappongono la finzione e la realtà, al rapporto complesso e onnipresente tra sincerità e recitazione, che non riguarda solo lui ma anche la vita e il modo di essere di suo padre) - il film è in grado di sollevarsi sopra la media e di colpire al cuore lo spettatore.
Voto: 3,5/5
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Per le recensioni degli altri film che ho visto quest'anno, vedi qui e qui.
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