Il successo di questo spettacolo, riportato in scena al Teatro Argentina dopo essere già stato in cartellone nel 2017-2018, ha convinto me e F. ad andare a vederlo.
Si tratta della trasposizione teatrale del primo romanzo di Pier Paolo Pasolini, quello in cui lo scrittore, appena trasferitosi a Roma (siamo negli anni Quaranta), racconta con sguardo da intellettuale, ma in fondo anche da antropologo, l'umanità delle borgate, in particolare dei ragazzi che le abitano.
Moltissimi anni fa avevo iniziato a leggere Ragazzi di vita, ma non sono nemmeno sicura di averlo finito. Serbavo però questo ricordo di un romanzo che, dietro la narrazione di questa romanità sguaiata e senza pudori, mostrava un'umanità dolente e derelitta, che agli occhi dello scrittore risultava profondamente vera, ma altrettanto profondamente disgraziata.
Ora, può darsi che io ricordi male, ma nella messa in scena di Popolizio non ho trovato praticamente nulla di tutto ciò. Non metto in dubbio lo sforzo della trasposizione del romanzo in una modalità fruibile a teatro e riconosco le capacità del regista di escogitare soluzioni narrative (vedi la narrazione in terza persona con cui si porta sulla bocca dei protagonisti il testo di Pasolini) e sceniche (con un allestimento tutto sommato piuttosto semplice e spartano - in cui tra l'altro si sceglie di mostrare il palco fino al cemento della parete di fondo - si riescono a evocare situazioni e contesti molto diversi e più o meno complessi).
Il compito di dare volto all'alter ego dello stesso Pasolini è affidato a Lino Guanciale, che fa da narratore-spettatore, ma talvolta viene anche coinvolto nell'azione sul palcoscenico. Il suo modo di proporsi al pubblico nel momento in cui compare sul palcoscenico dà subito agli spettatori la cifra dello spettacolo; la recitazione di Guanciale è infatti fin da subito enfatica e sopra le righe, a tratti quasi urlata.
Sarà poi questa la caratterizzazione di quasi tutti gli altri personaggi, dai principali come Riccetto, Agnolo, Begalone, Alvaro, il Caciotta, Amerigo, a quelli secondari e senza nomi, ma non certo meno determinanti per rappresentare il mondo variegato delle borgate romane.
Tutti ostentano una romanità sguaiata e sopra le righe, imitando mimeticamente non solo la parlata romanesca bensì anche la rasposità tipica del romano verace, mentre la narrazione procede per episodi, spesso arricchiti dalle canzoni di Claudio Villa cantate dal vivo dagli stessi protagonisti. L'episodio del combattimento dei cani viene chiosato - un po' didascalicamente - dalla poesia Er cane di Giuseppe Gioacchino Belli, mentre il glossario italiano-romanesco presente nel romanzo viene affidato, in un intermezzo, al dialogo tra due donne delle pulizie, una delle quali è italiana e interroga l'altra, slava, sulle espressioni romanesche.
La messa in scena di Popolizio sembra collocarsi a metà strada tra un musical e il teatro di avanspettacolo, togliendo pathos anche ai momenti più drammatici della narrazione, e trasformando lo sguardo affettuoso e commosso di Pasolini in una giostra la cui carica a molla è stata girata fino in fondo.
A me addirittura - ma questo è sicuramente molto soggettivo - è risultato a tratti noioso, per la monotonia dello stile narrativo che sembra avere pochissime sfumature.
Dentro questo stile voluto dal regista, gli attori sono tutti molto bravi, ma la scelta di fondo fa sì che persino un personaggio profondamente dolente, come il fusajaro del cinema Borgia, risulti più simile a un personaggio alla Montesano che a un povero disgraziato capace però ancora di sognare.
Del resto a Popolizio piace molto - anche quando recita - questo teatro caricato, e non v'è dubbio che questo stile faccia presa e abbia riscontri. Quindi può essere che quella strana e che non capisce sia io.
Voto: 2,5/5
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