A Roma si è svolto all'inizio di maggio, come consuetudine, il Festival del cinema spagnolo, ospitato anche quest'anno dal Cinema Farnese. La mia assenza per vacanza (!) mi ha impedito di approfittarne come in altre circostanze, ma nell'ultima sera di programmazione sono riuscita a vedere El Reino, il film del giovane regista Rodrigo Sorogoyen che ha fatto incetta di Premi Goya in patria.
El Reino è la storia di Manuel López-Vidal (Antonio de la Torre, già visto ne La vendetta di un uomo tranquillo), un politico locale molto influente e ben inserito che a un certo punto si trova al centro di uno scandalo per corruzione, a seguito della pubblicazione da parte dei media di intercettazioni e filmati che lo riguardano e che ne confermano il ruolo attivo nell'appropriazione indebita di fondi europei e non solo.
Manuel si trova rapidamente solo all'interno del suo partito, dove tutti cercano di prendere le distanze e i vertici lo sconfessano nel tentativo di inaugurare una nuova linea di onestà e trasparenza incarnata dal leader emergente Alvarado.
A quel punto Manuel, di fronte alla prospettiva concreta di finire in prigione e pagare per tutti, nonché preoccupato delle conseguenze sulla sua famiglia, decide di giocarsi il tutto per tutto allo scopo di trovare le prove che dimostrino che il meccanismo corruttivo è ben più antico e più ampio di quanto si pensi e che coinvolge molti altri, all'interno e al di fuori dell'ambiente politico.
Il film di Sorogoyen è costruito come un vero e proprio thriller ad alto tasso adrenalinico, grazie a un protagonista molto efficace, a un montaggio nervoso e serrato, a una musica elettronica molto coinvolgente. La scommessa vinta dal regista è quella di un riuscito mix di generi, in cui al thriller si mescolano efficacemente la spy story, il ritratto sociale, il film di denuncia.
Dietro il personaggio di López-Vidal emerge così un sistema di potere, in cui non esistono lealtà e amicizia, ma solo manipolazione, ipocrisia, competizione dentro un meccanismo che è collaborativo solo fino a quando a ciascuno arriva il suo tornaconto, mentre si trasforma in una lotta per la sopravvivenza senza esclusione di colpi quando si tratta di tirarsene fuori.
Il ritratto che ne emerge è tristemente e inquietantemente impietoso, perché El Reino non è solo un atto di accusa verso la politica, il mondo degli affari e i media, bensì l'espressione di una consapevolezza la cui portata è ben più universale, ossia l'attrazione irresistibile degli esseri umani verso il denaro e la possibilità di poterne fare facilmente, anche in modo disonesto.
La sequenza in cui López-Vidal assiste alla scena in cui l'avventore di un bar intasca il resto palesemente sbagliato (e decisamente maggiorato) del pagamento di un caffè, pur essendosene accorto, è in qualche modo la chiave di lettura dell'intero film e rende la sua visione e la sua lettura meno pacificante e autoassolutoria di quanto di solito tendiamo a fare, convogliando tutta la rabbia e l'indignazione verso la politica come la causa di tutti i mali, senza interrogarci su quanto questi mali siano endemici nella nostra società o, forse meglio, nell'umanità in generale.
Il film di Sorogoyen non va interpretato come l'ennesimo film sulla corruzione della politica, buono solo a ingrossare le fila dei populisti e ad alimentare versioni semplificate della realtà, bensì un film che attraverso l'adesione a un genere di grande impatto emotivo è in grado di convogliare riflessioni molto più ampie e complesse.
Voto: 4/5
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