Per il secondo anno consecutivo il Teatro Argentina porta in scena Copenhagen, l'opera teatrale di Michael Frayn (lo stesso autore della celebre commedia Rumori fuori scena), dedicata all'incontro che avvenne nel 1941 tra i due fisici Niels Bohr, danese di origine ebrea, e Werner Heisenberg, tedesco, nella capitale danese occupata dai nazisti.
Se dell'incontro si è storicamente certi, non se ne conosce invece la motivazione e il contenuto. Il testo di Frayn ruota appunto intorno a questa domanda: perché Heisenberg raggiunse Bohr a Copenhagen e per dirgli cosa?
In scena, all'interno di un allestimento nero con pareti che sembrano - e sono - lavagne per scrivere, completamente ricoperte di formule matematiche, ci sono tre personaggi: Bohr (Umberto Orsini), Heisenberg (Massimo Popolizio) e Margrethe, la moglie di Bohr (Giuliana Lojodice). I tre personaggi parlano tra di loro di quanto accaduto quando erano ancora vivi, in particolare dagli anni Venti, quando Bohr e Heisenberg si incontrarono la prima volta (come insegnante e allievo) fino alla metà degli anni Quaranta e precisamente fino allo scoppio della bomba atomica in Giappone.
Il testo di Frayn si sviluppa quasi come un thriller, andando a indagare - attraverso le voci dei protagonisti - sul percorso che condusse gli studi e le ricerche sulla fisica atomica all'esito devastante che tutti conosciamo.
Mediante un dialogo dal ritmo serrato e intenso, via via scopriamo come Bohr e Heisenberg si incontrarono e - prima come maestro e allievo, poi come colleghi - costruirono un'amicizia e un sodalizio scientifico grazie al quale furono elaborati principi importanti della fisica, come quello di Indeterminazione e della Complementarietà. Lo scoppio della guerra pose fine a questo sodalizio e anche probabilmente all'amicizia, appartenendo i due ai fronti opposti e Bohr, in quanto ebreo, perseguitato sulla base delle leggi razziali.
Sul palco, dei due uomini ci vengono mostrate differenze nei caratteri e nei tratti psicologici (più esuberante Heisenberg, più pacato Bohr), ma anche la comune passione per la scienza e per la ricerca, e in fondo la comune ambizione, cose che da un lato contribuirono a rafforzare il legame tra i due, e dall'altro rappresentarono un motivo di spiccata competizione. A osservarli, facendo quasi da arbitro e da testimone, la moglie di Bohr, Margrethe, che riconduce i due uomini alla realtà lì dove i due uomini ricostruiscono il ricordo in modo soggettivo e poco rispondente al vero.
Ne viene fuori il ritratto di un'epoca e un effetto immersivo nel dibattito scientifico del tempo, reso accessibile anche allo spettatore digiuno di fisica grazie a una scrittura molto esemplificativa e divulgativa, ma non per questo sciatta. La pièce non dà risposte alla domanda che si pone, bensì avanza ipotesi e interpretazioni, lasciando a ciascuno spettatore il compito di fare le proprie deduzioni e ragionamenti, nella consapevolezza condivisa che la verità non è necessariamente unica e oggettiva, ma fortemente condizionata dal punto di vista.
Interessante anche la riflessione sul complesso rapporto tra scienza e politica e sui dilemmi etici relativi al possibile utilizzo in chiave bellica e distruttiva degli esiti delle ricerche scientifiche.
Pur riconoscendo la qualità del testo e della messa in scena di Mauro Avogadro e nonostante l'alto livello attoriale (sebbene abbia trovato Popolizio un po' eccessivo ed enfatico), personalmente non sono riuscita a entrare in sintonia con lo spettacolo: nel primo atto ho fatto persino fatica a seguire, qualche curiosità in più me l'ha suscitata il secondo atto, ma nell'insieme non sono riuscita a superare un senso di estraneità.
Uno spettacolo che sono dunque contenta di aver visto, ma che temo non resterà scolpito nella mia memoria perché non mi ha catturato sul piano emotivo e intellettivo.
Voto: 3/5
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