"Tratto da interviste assolutamente vere, totalmente contraddittorie e prive di qualsiasi ironia con Tonya Harding e Jeff Gilloly". Così comincia il film di Craig Gillespie e per lo spettatore non è solo una dichiarazione relativa ai contenuti del film che vedremo, ma anche un'indicazione del tono e della cifra narrativa che lo caratterizzano.
Apparentemente un biopic con tutti i crismi di questo genere cinematografico, in realtà una commedia nera in cui il racconto della realtà viene filtrato attraverso le ricostruzioni dei protagonisti, che si rivelano quasi subito e del tutto naturalmente come dei personaggi da commedia: Tonya (Margot Robbie), un grande talento imprevedibilmente nato in un contesto sociale e affettivo ben oltre i confini del borderline, una madre (Allison Janney) cinica e anaffettiva ben oltre i limiti dell'umanamente sopportabile, un fidanzato e poi marito violento e soprattutto stupido ai limiti dell'incredibile, un amico sovrappeso che vive con i genitori ma racconta di essere un agente segreto.
La somma di questi personaggi da commedia (la cui differenza rispetto a quelli veri che ci vengono mostrati sui titoli di coda è praticamente inesistente) produce - in un domino incontrollabile - il naufragio della vita e della carriera di Tonya, che era prevedibile fin dal principio.
Il film di Gillespie è anche un film sul rapporto tra racconto e verità, che si interroga e ci interroga su come si possa conoscere la verità quando nessuno dei protagonisti è un interlocutore credibile e affidabile, e anche chi dovrebbe o potrebbe esserlo – vedi il cronista che a suo tempo aveva seguito la vicenda della Harding – in realtà mette il proprio interesse personale e professionale ben prima della ricostruzione della verità. Non a caso un film che narrativamente si gioca su un doppio piano, quello del racconto degli intervistati, e quello della ricostruzione di quanto accaduto: questi due piani spesso si sovrappongono e si fondono, e questo processo viene sottolineato dal salto tra il piano diegetico e quello extradiegetico (la musica che commenta una scena diventa musica ascoltata anche dai protagonisti, il protagonista che vive la vicenda a un certo punto si rivolge direttamente allo spettatore che guarda il film).
All'interno di questo tema più generale c'è anche una profonda critica alla grande narrazione su cui si fonda la cultura americana, ossia il cosiddetto "sogno americano", l'idea che a chiunque – qualunque sia la sua condizione di partenza – questo grande Paese possa offrire l'opportunità di riuscire nella vita e avere successo se questo qualcuno è disposto a lavorare per il suo sogno. Il che – sembra dirci Gillespie – è vero con le dovute eccezioni e solo quando l'ascesa sociale e personale è in qualche modo in linea con l'immagine esterna che l'America vuole dare di se stessa.
Tonya Harding era un grande talento e non si può dire che non abbia investito tutte le sue energie per realizzare il suo sogno, e ci è arrivata molto vicina. Ma l'America non l'ha mai perdonata per il fatto di non essere riuscita a omologarsi al mondo a cui voleva appartenere e di non aver mai rappresentato un esempio di riscatto vero, un esempio positivo per gli americani e un simbolo americano per il mondo intero. Non a caso l'errore di stupidità e omissione che ha fatto, dovuto fondamentalmente ai personaggi ancora più stupidi e psicolabili che la circondavano (certamente non dotati di alcun talento a differenza sua) le è stato fatto pagare in maniera esemplare. Perché il balordo può essere classificato come tale e tollerato dalla società americana, ma quando un corpo estraneo e "malato" si fa largo nel presunto tessuto sano allora va espulso, reciso e ricondotto alla sua marginalità.
Tonya che ci guarda negli occhi e ci dice che l'abbiamo ridotta a una barzelletta è un atto di accusa che non risparmia nessuno, nemmeno il regista di questo film.
Voto: 3,5/5
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