Il documentario di Daniele Vicari (lo stesso di Diaz) racconta del viaggio della nave Vlora (che proveniva da Cuba e trasportava un carico di zucchero) dal porto di Durazzo a quello di Bari con quasi 20.000 albanesi a bordo, nell'agosto del 1991. Lo fa utilizzando immagini di repertorio provenienti dagli archivi audiovisivi albanesi e soprattutto dagli archivi delle televisioni locali (tra cui la televisione nata nel mio paese natale, Telenorba) e nazionali italiane, cui si aggiungono le testimonianze dirette dei protagonisti: il capitano della nave, alcuni degli albanesi sbarcati in Italia, funzionari e amministratori locali coinvolti nella gestione dell'emergenza.
Il regista tenta di mostrare il volto vero di questa invasione pacifica al di là delle narrazioni mediatiche che ne hanno accentuato i caratteri apocalittici, le conseguenze nefaste per la società italiana, le intenzioni malevole degli immigrati. Soltanto guardando con sguardo limpido e ascoltando con orecchie non inquinate viene fuori l’immagine di un’emigrazione di massa non pianificata, del tutto casuale, spesso non ponderata e non sostenibile, in cui ognuno si portava dietro la propria personale speranza di una vita migliore, il proprio sogno nel cassetto, il bisogno della fuga dal regime, la necessità di una prospettiva.
Tutti sogni che, finendo rinchiusi nello stadio della Vittoria di Bari, si sono scontrati con la paura, la fame, l’istinto di sopravvivenza, l’umiliazione, la perdita della dignità trasformandosi presto in incubi, facendo emergere la totale impreparazione delle autorità italiane a gestire una situazione del genere fino all’inevitabile strappo istituzionale tra il governo locale e quello centrale.
Di fronte a questo film io mi sento parte in causa, perché mi ricordo perfettamente quegli anni, il numero crescente di albanesi che arrivavano nei nostri paesi con tutto il carico di timori e pregiudizi giustificati e ingiustificati da parte della popolazione locale. Nello stesso tempo, mi sento di parte, perché riconosco nella reazione della popolazione civile e della gran parte di coloro che localmente furono coinvolti nelle operazioni i tratti tipici dell’accoglienza e della generosità della mia terra, che – sebbene spesso in maniera disordinata e un po’ naif – è in grado però di aprirsi allo straniero senza sentirsi veramente minacciata, se non dai fantasmi che autorità e media vogliono diffondere.
Non posso non provare un moto di affetto per questi albanesi intervistati che allora sembravano venire da un mondo fermo almeno cinquant’anni prima rispetto al nostro e che ora sono indistinguibili dagli italiani. Albanesi che, essendo rimasti in buona parte in Puglia, parlano la lingua italiana con la stessa inflessione mia e dei miei conterranei e hanno le nostre stesse movenze.
Oggi che l’Albania vive un momento di crescita economica, mentre l’Italia attraversa una pesantissima fase recessiva, sono altri i disperati alla ricerca di un sogno che guardano alle nostre coste come alla terra promessa. E però la storia si ripete, senza che i nostri governi siano in grado di dare una risposta globale a problemi che hanno forti ripercussioni locali, alimentando una guerra tra poveri su cui molta politica ha costruito il proprio successo.
Vicari ci regala questa ricostruzione agrodolce, con molti tratti d’ombra, ma anche qualche elemento di luce, con molta sofferenza, ma anche tanti sorrisi di chi ha continuato a guardare al futuro con speranza e fiducia.
Voto: 3,5/5
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