Non ricordavo quasi nulla dell'omonimo film di Pedro Almodovar.
Certamente si tratta di uno dei film del regista spagnolo ad aver maggiormente incontrato la mia sensibilità, nonostante non ami quella sua tendenza a raccontare storie sempre un po' sopra le righe e con protagonisti continuamente in bilico tra realismo ed eccesso.
Di solito le operazioni di trasposizione di sceneggiature cinematografiche a teatro mi lasciano piuttosto perplessa, perché il prodotto finale non riesce a scrollarsi di dosso un ritmo narrativo che finisce per risultare inappropriato.
Nonostante tutto, ho comprato a scatola chiusa i biglietti per questa versione teatrale di Tutto su mia madre, perché considero la presenza di Elisabetta Pozzi una garanzia quasi infallibile di qualità.
Ebbene, non me ne sono pentita.
Al centro della storia Manuela (Elisabetta Pozzi), che alla morte del figlio Esteban, decide di lasciare Madrid e ritornare a Barcellona per esaudire l'ultimo desiderio del figlio, ossia conoscere la verità su suo padre.
A Barcellona Manuela rivedrà vecchie amiche, come il trans Agrado (Eva Robin's), e incrocerà il percorso di altre donne, l'ingenua e generosa suor Rosa, la famosa attrice Huma Rojo (Alvia Reale) e la sua giovane amante Nina, in un crescente groviglio di sentimenti che si scioglierà solo nel finale in quella che si presenta come una vera e propria celebrazione della forza delle donne.
L'adattamento teatrale di Samuel Adamson e la regia di Leo Muscato, a mio parere, arricchiscono questa storia, nella misura in cui la asciugano di qualche eccesso tipicamente almodovariano, senza tradirne lo spirito (si veda qui una galleria delle foto di scena).
Così, la scenografia di Antonio Panzuto non può - e probabilmente non vuole - riprodurre la fantasmagoria di colori del film, ma comunica con altrettanta forza grazie alle variazioni cromatiche dei disegni astratti proiettati sullo sfondo.
Le attrici, che - come nel film di Almodovar - occupano integralmente la scena oscurando le poche figure maschili presenti sul palco, pur restando volutamente smisurate (nel senso letterale di "fuori misura") rispetto a un registro strettamente realistico, camminano sicure sul sottile filo teso tra dramma e commedia, ricche di vitalità e di gioia e, al contempo, sovrabbondanti di pathos e profondità di dolore. Elisabetta Pozzi ci regala una Manuela intensa, ironica, forte, generosa, dura, dolce, in una parola una donna vera, con tutta la sua complessità e le mille possibili sfaccettature della sua umanità. Eva Robin's riesce a restituirci la grazia e la sovrabbondanza del personaggio del trans Agrado, permettendoci di comprenderne - ad ogni entrata in scena - l'intelligenza, il cuore, la sofferenza, la voglia di vivere.
Più di tutto, però, mi sono piaciute la fitta tramatura di rimandi letterari e testuali che tiene insieme l'intero spettacolo, nonché la forte caratterizzazione teatrale e metateatrale della narrazione. Com'è noto, la pièce teatrale di Tennessee Williams, Un tram chiamato desiderio ha un ruolo importante in questa storia, non solo perché intorno e dentro il teatro in cui si rappresenta lo spettacolo si verificano molti dei suoi episodi chiave, ma anche perché alcuni dialoghi di Williams fanno da contrappunto e da sostituto al dialogo tra i personaggi. Questa rappresentazione nella rappresentazione consente inoltre al regista di giocare con gli spettatori, facendoli passare continuamente (e fisicamente grazie ad un arguto allestimento scenico) dal ruolo di pubblico (della storia principale e/o di quella che i protagonisti mettono in scena), cui i protagonisti si rivolgono spesso direttamente, al ruolo di parti in causa, chiamati a osservare il dietro le quinte, a partecipare e a testimoniare di quello che avviene dietro la rappresentazione.
Non a caso alla fine delle repliche di Un tram chiamato desiderio si compiono anche i destini dei protagonisti, in questo inestricabile rapporto a doppio filo che sembra legare realtà e finzione. Ma anche lo scioglimento del pathos è affidato ancora una volta a un testo teatrale, quello di cui l'attrice Huma Rojo ha deciso di accettare il ruolo principale e di cui sarà chiamata a recitare un passo a conclusione della storia, Nozze di sangue di Garcia Lorca.
In mezzo, a fare da collante testuale, il diario del giovane Esteban che la madre Manuela porta sempre con sé e di cui legge qua e là dei pezzi.
Insomma, quella di Adamson è un'opera nuova - non soltanto una trasposizione -, in quanto utilizza le potenzialità del linguaggio teatrale, i rimandi testuali e l'artificio della metarappresentazione per conferire alle tematiche almodovariane che conosciamo (l'identità di genere, il rapporto maschile/femminile, la coscienza di sé) un respiro forse ancora più ampio e universale, spingendoci a riflettere sul nostro ruolo nel limbo incerto tra realtà e finzione (spettatori o parti in causa?) e a considerare come nostri le incertezze, i dubbi, gli interrogativi, i sensi di colpa, le grandezze e le piccolezze dei personaggi che si muovono sul palco.
Tutti, in fondo, ci muoviamo sul grande palcoscenico della vita e nessuno di noi si può chiamare fuori dal coro di quell'umanità complessa che Adamson porta in scena. Forse solo in questo modo possiamo accettare di sospendere il giudizio. E capire dall'interno.
Voto: 4/5
Il trailer dello spettacolo
Elisabetta Pozzi parla di sua madre e della madre ideale
domenica 28 novembre 2010
venerdì 26 novembre 2010
Porco rosso
Alzi la mano chi - guardando un film di Miyazaki - non ha mai pensato che sarebbe bello vivere nel mondo dalle mille sfumature che il maestro giapponese ogni volta ci regala!
Per fortuna qualche produttore cinematografico ha ritenuto un buon investimento riportare al cinema i vecchi lavori di Miyazaki. E così, grazie ad Andrea Occhipinti, eccoci in sala a vedere Porco rosso, un film che risale al 1992.
Da un punto di vista del disegno e del tipo di animazione, dei colori e delle musiche, mi è sembrato di essere trasportata in un attimo alla mia tarda infanzia, quella dei cartoni giapponesi che sono stati il nostro cibo quotidiano per tutti gli anni '80 (da Candy Candy a Georgie, dalla piccola Flo ad Annette, fino ad arrivare a Yattaman).
Il volto di Fio e il suo modo di muoversi, le bambine prese in ostaggio dai pirati e salvate da Porco rosso, gli stessi pirati della compagnia "Mammaiuto", sono assolutamente in linea con questa produzione.
Ma la grandezza di Miyazaki è la capacità di utilizzare registri visivi e narrativi apparentemente tradizionali per veicolare personaggi e storie straordinarie. E così nella varietà degli approcci che ci propone i suoi temi ci sono sempre tutti, con una incredibile coerenza.
C'è l'elemento fantastico; qui lo strano caso del pilota italiano Marco Pagot condannato per un maleficio ad assumere le fattezze di un maiale, non si sa bene per quali motivi e in quali circostanze.
Ci sono le figure femminili che qui diventano l'elemento di continuità e il vero motore della storia: dalle quindici, scatenate, bimbette rapite dai pirati alla giovane Fio, ingegnere progettista di idrovolanti, dalle donne del paese chiamate a lavorare alla costruzione dell'aereo di Porco alle nonnine vitali e operative, fino ad arrivare alla bella e malinconica Gina, che gestisce l'Hotel Adriano.
Le figure femminili sono la parte più delicata e, allo stesso tempo, forte del film. Intorno a loro si muove una massa di figure maschili i cui tratti tendenzialmente caricaturali li rendono sgraziati e a volte un po' inetti, ma sostanzialmente simpatici.
Ci sono i temi politici: il rifiuto della guerra e dei totalitarismi, la scelta di una morale libertaria ma fondata sui valori del rispetto e della solidarietà umana, l'amore, la compassione.
C'è la componente onirica nella bellissima storia che Porco racconta a Fio.
C'è il mistero dell'irrisolto, visto che non sapremo mai se il maleficio su Porco sarà alla fine sciolto.
C'è - in fondo in fondo e nonostante la luminosità delle immagini e la positività e freschezza che si sprigiona dai personaggi - un senso di malinconia e pessimismo, che è connaturato alla poetica di Miyazaki e che nasce dalla constatazione che l'umanità, nonostante le sue potenzialità, finisce spesso per intraprendere le strade della morte, della distruzione della natura, del conflitto.
Ma qui non ci sono maghi né bacchette magiche a modificare il corso degli eventi. Solo un uomo dal gran cuore, trasformato in un maiale, e una giovane determinata e piena di ideali.
In generale, rispetto ad altri lavori di Miyazaki non c'è dubbio che in questo si avverta il desiderio di librarsi al di sopra delle angosce (sfiorando la superficie dell'acqua o volteggiando tra le nubi), di ritirarsi nell'armonia della solitudine (la spiaggia dove Porco ha costruito il suo rifugio), di provare ancora a credere in quella parte di umanità che, dai margini in cui vive, si possa fare portatrice di valori positivi. Insomma, la voglia di sperare, nonostante tutto.
Voto: 4,5/5
Per fortuna qualche produttore cinematografico ha ritenuto un buon investimento riportare al cinema i vecchi lavori di Miyazaki. E così, grazie ad Andrea Occhipinti, eccoci in sala a vedere Porco rosso, un film che risale al 1992.
Da un punto di vista del disegno e del tipo di animazione, dei colori e delle musiche, mi è sembrato di essere trasportata in un attimo alla mia tarda infanzia, quella dei cartoni giapponesi che sono stati il nostro cibo quotidiano per tutti gli anni '80 (da Candy Candy a Georgie, dalla piccola Flo ad Annette, fino ad arrivare a Yattaman).
Il volto di Fio e il suo modo di muoversi, le bambine prese in ostaggio dai pirati e salvate da Porco rosso, gli stessi pirati della compagnia "Mammaiuto", sono assolutamente in linea con questa produzione.
Ma la grandezza di Miyazaki è la capacità di utilizzare registri visivi e narrativi apparentemente tradizionali per veicolare personaggi e storie straordinarie. E così nella varietà degli approcci che ci propone i suoi temi ci sono sempre tutti, con una incredibile coerenza.
C'è l'elemento fantastico; qui lo strano caso del pilota italiano Marco Pagot condannato per un maleficio ad assumere le fattezze di un maiale, non si sa bene per quali motivi e in quali circostanze.
Ci sono le figure femminili che qui diventano l'elemento di continuità e il vero motore della storia: dalle quindici, scatenate, bimbette rapite dai pirati alla giovane Fio, ingegnere progettista di idrovolanti, dalle donne del paese chiamate a lavorare alla costruzione dell'aereo di Porco alle nonnine vitali e operative, fino ad arrivare alla bella e malinconica Gina, che gestisce l'Hotel Adriano.
Le figure femminili sono la parte più delicata e, allo stesso tempo, forte del film. Intorno a loro si muove una massa di figure maschili i cui tratti tendenzialmente caricaturali li rendono sgraziati e a volte un po' inetti, ma sostanzialmente simpatici.
Ci sono i temi politici: il rifiuto della guerra e dei totalitarismi, la scelta di una morale libertaria ma fondata sui valori del rispetto e della solidarietà umana, l'amore, la compassione.
C'è la componente onirica nella bellissima storia che Porco racconta a Fio.
C'è il mistero dell'irrisolto, visto che non sapremo mai se il maleficio su Porco sarà alla fine sciolto.
C'è - in fondo in fondo e nonostante la luminosità delle immagini e la positività e freschezza che si sprigiona dai personaggi - un senso di malinconia e pessimismo, che è connaturato alla poetica di Miyazaki e che nasce dalla constatazione che l'umanità, nonostante le sue potenzialità, finisce spesso per intraprendere le strade della morte, della distruzione della natura, del conflitto.
Ma qui non ci sono maghi né bacchette magiche a modificare il corso degli eventi. Solo un uomo dal gran cuore, trasformato in un maiale, e una giovane determinata e piena di ideali.
In generale, rispetto ad altri lavori di Miyazaki non c'è dubbio che in questo si avverta il desiderio di librarsi al di sopra delle angosce (sfiorando la superficie dell'acqua o volteggiando tra le nubi), di ritirarsi nell'armonia della solitudine (la spiaggia dove Porco ha costruito il suo rifugio), di provare ancora a credere in quella parte di umanità che, dai margini in cui vive, si possa fare portatrice di valori positivi. Insomma, la voglia di sperare, nonostante tutto.
Voto: 4,5/5
giovedì 25 novembre 2010
I quattro fiumi / Fred Vargas e Baudoin
I quattro fiumi / Fred Vargas e Baudoin; trad. di Margherita Botto. Torino: Einaudi, 2010.
Devo ammettere che prima di iniziare la lettura di questo ho mollato l'altro libro di Fred Vargas ultimo uscito Prima di morire addio. In realtà, si trattava di un libro scritto nel 1999 e secondo me tirato fuori da qualche soffitta per sfruttare l'effetto Vargas. Non so, non mi ha preso, né intrigato... Insomma, l'ho rimesso sugli scaffali. Chissà.
Così, per riconciliarmi con la Vargas ho pensato che questa ardita operazione di tradurre in immagini un giallo con Adamsberg protagonista potesse essere una bella occasione.
Eh sì, perché I quattro fiumi è un graphic novel, in cui i testi sono della Vargas e i disegni di Edmond Baudoin. Per la prima volta il commissario Adamsberg e il fido Danglard escono dal limbo delle nostre fantasie e trovano un volto.
Come tutto ciò che a lungo si è covato nella nostra mente, il risultato della traduzione in immagini operata da qualcun altro non è necessariamente soddisfacente. Io, per esempio, affezionata come sono al personaggio di Danglard sono rimasta delusa dalla sua rappresentazione di uomo sfatto e "debosciato". È vero che si tratta di una rappresentazione che in parte rispecchia la natura letteraria del personaggio, ma io l'avrei voluto omaggiato di una dignità che la sua cultura e qualità morale gli fanno meritare! E Adamsberg, secondo me, è troppo fashion per essere veramente lui, "lo spalatore delle nuvole" che conosciamo.
Detto questo nei loro occhi e nelle espressioni del loro viso ritroviamo certamente i nostri eroi, perché Baudoin ha un tratto dotato di una straordinaria espressività. Devo dire che non è lo stile che più amo; di solito, preferisco il disegno più nitido e pulito, ma non c'è dubbio che in questo caso un tratto sporco e carico è perfettamente coerente con la storia raccontata e forse aggiunge la giusta dose di mistero a un giallo che dal punto di vista della trama può essere considerato po' debole.
Lo stile della Vargas c'è tutto: le citazioni letterarie, l'attenzione ai personaggi (in questo caso tutti i componenti della famiglia Braban, padre e quattro figli maschi, che sono il vero cuore della storia), la psicologia umana, l'originalità delle idee (in questo caso al centro della storia c'è padre Braban che si è messo in testa di ricostruire la fontana del Bernini, I quattro fiumi, con le lattine della birra, e i suoi figli lo aiutano in questa incredibile impresa).
Certo, la scrittura della Vargas - che raggiunge i suoi maggiori picchi quando si fa realmente letteraria - ci perde un po', ma la bellezza dell'esperimento compensa in parte questa perdita.
A questo punto io personalmente aspetto le prossime puntate di questa collaborazione per dare un volto anche a Retancourt, a Camille, al gatto Palla e a tutto il variegato mondo che la Vargas è riuscita a far diventare parte del nostro.
Voto: 3,5
Devo ammettere che prima di iniziare la lettura di questo ho mollato l'altro libro di Fred Vargas ultimo uscito Prima di morire addio. In realtà, si trattava di un libro scritto nel 1999 e secondo me tirato fuori da qualche soffitta per sfruttare l'effetto Vargas. Non so, non mi ha preso, né intrigato... Insomma, l'ho rimesso sugli scaffali. Chissà.
Così, per riconciliarmi con la Vargas ho pensato che questa ardita operazione di tradurre in immagini un giallo con Adamsberg protagonista potesse essere una bella occasione.
Eh sì, perché I quattro fiumi è un graphic novel, in cui i testi sono della Vargas e i disegni di Edmond Baudoin. Per la prima volta il commissario Adamsberg e il fido Danglard escono dal limbo delle nostre fantasie e trovano un volto.
Come tutto ciò che a lungo si è covato nella nostra mente, il risultato della traduzione in immagini operata da qualcun altro non è necessariamente soddisfacente. Io, per esempio, affezionata come sono al personaggio di Danglard sono rimasta delusa dalla sua rappresentazione di uomo sfatto e "debosciato". È vero che si tratta di una rappresentazione che in parte rispecchia la natura letteraria del personaggio, ma io l'avrei voluto omaggiato di una dignità che la sua cultura e qualità morale gli fanno meritare! E Adamsberg, secondo me, è troppo fashion per essere veramente lui, "lo spalatore delle nuvole" che conosciamo.
Detto questo nei loro occhi e nelle espressioni del loro viso ritroviamo certamente i nostri eroi, perché Baudoin ha un tratto dotato di una straordinaria espressività. Devo dire che non è lo stile che più amo; di solito, preferisco il disegno più nitido e pulito, ma non c'è dubbio che in questo caso un tratto sporco e carico è perfettamente coerente con la storia raccontata e forse aggiunge la giusta dose di mistero a un giallo che dal punto di vista della trama può essere considerato po' debole.
Lo stile della Vargas c'è tutto: le citazioni letterarie, l'attenzione ai personaggi (in questo caso tutti i componenti della famiglia Braban, padre e quattro figli maschi, che sono il vero cuore della storia), la psicologia umana, l'originalità delle idee (in questo caso al centro della storia c'è padre Braban che si è messo in testa di ricostruire la fontana del Bernini, I quattro fiumi, con le lattine della birra, e i suoi figli lo aiutano in questa incredibile impresa).
Certo, la scrittura della Vargas - che raggiunge i suoi maggiori picchi quando si fa realmente letteraria - ci perde un po', ma la bellezza dell'esperimento compensa in parte questa perdita.
A questo punto io personalmente aspetto le prossime puntate di questa collaborazione per dare un volto anche a Retancourt, a Camille, al gatto Palla e a tutto il variegato mondo che la Vargas è riuscita a far diventare parte del nostro.
Voto: 3,5
martedì 23 novembre 2010
Wild nothing
Se volete capire che cos'è un gruppo indie pop negli anni '10 del 2000 andate a vedere un concerto dei Wild nothing, cosa che io ho fatto ieri andando al Circolo degli artisti (devo dire che il Circolo mi era un po' mancato!).
Eh sì, perché indie non è solo una tipologia musicale, cioè un modo di fare musica (sebbene, secondo alcuni, questa etichetta non avrebbe alcun significato realmente unitario), bensì anche un modo di vestire, di stare sul palco, di suonare, di relazionarsi con il pubblico.
I Wild nothing, come moltissimi di questi gruppi indie, sono 4 ragazzi (di età compresa tra i 20 e i 30 anni): 2 chitarre, 1 basso, 1 batteria (una delle due chitarre è a volte sostituita da una tastiera). Il cantante è di solito anche chitarrista e costituisce il cuore musicale del gruppo insieme al polistrumentista silenzioso. In questo caso si tratta rispettivamente di Jack Tatum e di Nathan Goodman. Gli altri due componenti sono Clay Violand al basso e Michael Skattum (alla batteria).
In generale sono tutti molto silenziosi. Si limitano a ringraziare ripetutamente il pubblico, senza intrattenersi in "inutili" conversazioni. Non hanno esattamente le facce allegre, anzi di solito sorridono pochissimo. Del resto, la loro musica tende al malinconico, tranne pochissimi pezzi per i quali si concedono qualche distrazione. In questo caso si senta, ad esempio, Summer holiday oppure Our composition book.
Componenti essenziali di un gruppo indie sono l'aspetto fisico e l'abbigliamento. Di solito questi musicisti non sono - o non vogliono sembrare - particolarmente belli. Almeno uno di loro porta gli occhialoni scuri (in questo caso il giovane batterista, che è anche l'unico con l'aria meno da bravo ragazzo e con il torso completamente tatuato).
Gli altri tendenzialmente hanno uno stile tra il minimalista e il vintage. Jack Tatum ha delle simil-Converse nere, mezze rotte, un jeans attillato, una rada peluria bionda sul labbro superiore e i capelli ben pettinati.
Il bassista ha le scarpe eleganti del nonno che però sembrano stargli troppo strette, una magliettina leggera con un cardigan stile Muji, barba e capelli un po' lunghi con il ciuffo che gli cade davanti agli occhi quando suona.
Il polistrumentista, Nathan Goodman, ha lo scarponcino tipo Timberland, jeans e camicia un po' da forestale, barba, capello folto e aria molto seria e compunta.
In generale, non si muovono molto sul palco, non puntano sulla loro fisicità, ma solo sulla musica.
Personalmente li ho trovati tutto sommato meno convincenti dal vivo che ascoltati su CD. Non c'è dubbio che scontano un problema di originalità, nel senso che è molto difficile per queste band acquisire un'identità riconoscibile e autonoma. Probabilmente dal vivo - e nel momento in cui non si punta tutto sulla performance - questo problema è ancora più evidente.
In sostanza, i Wild Nothing non mi sono dispiaciuti senza però entusiasmarmi. Probabilmente la loro componente migliore è quella più anni '80, più ritmica e allegra, ma per il momento resta a mio avviso ancora troppo in secondo piano. Il loro ultimo lavoro Gemini è stato considerato uno dei migliori 10 dischi indie del 2010 - e probabilmente è vero. Piuttosto si deve forse riconoscere qualche difficoltà del genere musicale a trovare nuovi spunti.
Due parole, infine, sul gruppo di apertura, i giovanissimi romani Boxerin Club, musicisti pieni di entusiasmo, ma ancora un po' acerbi sia musicalmente sia nella presenza scenica. Ma avranno tempo di crescere, soprattutto se non si mettono in testa di copiare i grandi, bensì si sforzano di cercano una propria, autonoma, strada musicale.
Voto: 3/5
Eh sì, perché indie non è solo una tipologia musicale, cioè un modo di fare musica (sebbene, secondo alcuni, questa etichetta non avrebbe alcun significato realmente unitario), bensì anche un modo di vestire, di stare sul palco, di suonare, di relazionarsi con il pubblico.
I Wild nothing, come moltissimi di questi gruppi indie, sono 4 ragazzi (di età compresa tra i 20 e i 30 anni): 2 chitarre, 1 basso, 1 batteria (una delle due chitarre è a volte sostituita da una tastiera). Il cantante è di solito anche chitarrista e costituisce il cuore musicale del gruppo insieme al polistrumentista silenzioso. In questo caso si tratta rispettivamente di Jack Tatum e di Nathan Goodman. Gli altri due componenti sono Clay Violand al basso e Michael Skattum (alla batteria).
In generale sono tutti molto silenziosi. Si limitano a ringraziare ripetutamente il pubblico, senza intrattenersi in "inutili" conversazioni. Non hanno esattamente le facce allegre, anzi di solito sorridono pochissimo. Del resto, la loro musica tende al malinconico, tranne pochissimi pezzi per i quali si concedono qualche distrazione. In questo caso si senta, ad esempio, Summer holiday oppure Our composition book.
Componenti essenziali di un gruppo indie sono l'aspetto fisico e l'abbigliamento. Di solito questi musicisti non sono - o non vogliono sembrare - particolarmente belli. Almeno uno di loro porta gli occhialoni scuri (in questo caso il giovane batterista, che è anche l'unico con l'aria meno da bravo ragazzo e con il torso completamente tatuato).
Gli altri tendenzialmente hanno uno stile tra il minimalista e il vintage. Jack Tatum ha delle simil-Converse nere, mezze rotte, un jeans attillato, una rada peluria bionda sul labbro superiore e i capelli ben pettinati.
Il bassista ha le scarpe eleganti del nonno che però sembrano stargli troppo strette, una magliettina leggera con un cardigan stile Muji, barba e capelli un po' lunghi con il ciuffo che gli cade davanti agli occhi quando suona.
Il polistrumentista, Nathan Goodman, ha lo scarponcino tipo Timberland, jeans e camicia un po' da forestale, barba, capello folto e aria molto seria e compunta.
In generale, non si muovono molto sul palco, non puntano sulla loro fisicità, ma solo sulla musica.
Personalmente li ho trovati tutto sommato meno convincenti dal vivo che ascoltati su CD. Non c'è dubbio che scontano un problema di originalità, nel senso che è molto difficile per queste band acquisire un'identità riconoscibile e autonoma. Probabilmente dal vivo - e nel momento in cui non si punta tutto sulla performance - questo problema è ancora più evidente.
In sostanza, i Wild Nothing non mi sono dispiaciuti senza però entusiasmarmi. Probabilmente la loro componente migliore è quella più anni '80, più ritmica e allegra, ma per il momento resta a mio avviso ancora troppo in secondo piano. Il loro ultimo lavoro Gemini è stato considerato uno dei migliori 10 dischi indie del 2010 - e probabilmente è vero. Piuttosto si deve forse riconoscere qualche difficoltà del genere musicale a trovare nuovi spunti.
Due parole, infine, sul gruppo di apertura, i giovanissimi romani Boxerin Club, musicisti pieni di entusiasmo, ma ancora un po' acerbi sia musicalmente sia nella presenza scenica. Ma avranno tempo di crescere, soprattutto se non si mettono in testa di copiare i grandi, bensì si sforzano di cercano una propria, autonoma, strada musicale.
Voto: 3/5
giovedì 18 novembre 2010
The social network
Ovvero la storia di Facebook, la piattaforma sociale di maggiore successo nella storia (fin qui, visto che i miei nipoti adolescenti già la snobbano un po') di Internet.
La storia in sé dovrebbe essere nota, essendo finita sui giornali di tutti il mondo, ma vale la pena ricordarla. Il giovane Mark Zuckerberg (Jesse Eisenberg, che io mi ricordavo ragazzino timido e un po' imbranato in Roger Dodger), un giovane studente di Harvard, per reazione al fatto di essere stato lasciato dalla sua ragazza, comincia a fare i primi esperimenti di un sito sociale in cui sia possibile mettere - volontariamente ed in maniera esclusiva - contenuti di vario genere e sottoporli al giudizio degli altri. Dal cattivo scherzo di Facemash, che gli costerà la sospensione dall'università, a TheFacebook, impresa nella quale si metterà insieme all'amico Eduardo Saverin (Andrew Garfield).
Il progetto cresce, ed oltre a suscitare le ire dei fratelli Winckelvoss (Armie Hammer e Joshua Pence), che si sentono defraudati di un'idea in cui avevano coinvolto lo stesso Zuckerberg, raggiunge anche Sean Parker (Justin Timberlake), fondatore di Napster, geniaccio informatico anche lui, ma ormai sul lastrico per i guai legali avuti e le cause che ha dovuto affrontare.
Mentre TheFacebook diventa Facebook più o meno come lo conosciamo oggi e raggiunge il milione di iscritti (trasformandosi in un affare di proporzioni impensabili), i rapporti tra i soggetti coinvolti si sfasciano completamente. Ne nasce una causa per milioni di euro, in cui Mark Zuckerberg e il suo avvocato non potranno che patteggiare e chiedere la clausola di riservatezza.
Fin qui la storia. Ora veniamo al film.
Non mi aspettavo un capolavoro (e non lo è), ma David Fincher non è certo l'ultimo arrivato e il film è costruito con grande maestria. Si parte dalla fine. Il processo. E, attraverso una serie di flashback, si getta luce sul come e perché si è arrivati a quel momento. Il ritmo è sostenutissimo, a tratti fulminante (mi ha ricordato in certi momenti Fight Club), i dialoghi sono ottimi, alcuni brillanti e quasi esilaranti (vedi ad esempio quello tra il rettore della Harvard University e i fratelli Winckelvoss), la colonna sonora è di grande effetto, la ricostruzione dell'ambiente delle "confraternite" delle università americane è efficace (probabilmente migliore di molti altri film).
Insomma, si arriva in fondo al film soddisfatti, perché ci hanno raccontato una storia interessante. E anche bene.
Non mi ha invece del tutto convinto la "morale". Cioè l'interpretazione che il regista e lo sceneggiatore hanno voluto dare di questa vicenda.
Mark Zuckerberg è un nerd di intelligenza superiore, afflitto dal problema di non essere accettato, di essere in qualche modo diverso dagli altri, da quella massa che da un lato disprezza, ma allo stesso tempo agogna. Scaricato dalla ragazza, vestito in pigiama e ciabatte, completamente immerso nei suoi codici, non cattivo, ma relazionalmente inabile. Si entusiasma per Sean Parker, che persegue solo i propri interessi e la vendetta personale, nel suo universo fatto di donne, droga e feste, non riconosce l'amicizia di Eduardo, dandole un calcio per invidia, si ritrova miliardario e solo. Come le dice la giovane avvocatessa, "non sei una cattiva persona, ma ti sforzi con tutto te stesso di essere stronzo".
Ne consegue - tra le le righe - un'interpretazione altrettanto morale dello strumento Facebook, nuovo spazio sociale per disadattati e gente che non è in grado di relazionarsi nella vita reale, espressione di una società superficiale, in cui l'amicizia come eravamo abituati a intenderla perde valore. O forse, al contrario, il film ci vuole suggerisce i rischi di una vita trasferita sulla rete, senza avere solide basi nella realtà. Ma in fondo è una facile morale che può essere applicata a qualunque strumento. Si potrebbe dire lo stesso per la televisione, il cellulare, i videogame, la musica, Internet in molte delle sue manifestazioni e qualunque altra cosa venga utilizzata come un sostitutivo della costruzione di un pensiero autonomo. Non è un problema dei mezzi che usiamo, ma sempre di persone e di consapevolezza.
In ogni caso, a me ha fatto impressione vedere raccontata sul grande schermo la "banalità delle origini", cioè come quello che è un fenomeno mondiale (su cui si fanno studi sociologici, si passa parte del nostro tempo ecc.) nasce in fondo solo per dare un seguito ai contatti più superficiali e magari trasformarli in occasioni di "rimorchio".
Bene che Fincher si sia mantenuto abbastanza in equilibrio su questa linea sottile, senza spaccare il mondo in buoni e cattivi. Tutti in fondo ci vengono presentati come persone dotate di una sufficiente complessità per non diventare solo macchiette, sebbene non immuni da tratti un po' stereotipati.
Un po' come tutti gli apologhi, alla fine, - uscendo dalla sala - ognuno rimarrà delle proprie convinzioni, o forse si rafforzerà nelle stesse, per effetto della rilettura selettiva che di fronte a film e fenomeni di questo tipo è praticamente inevitabile.
La domanda poi tipicamente italiana se una cosa del genere sarebbe potuta nascere in Italia mi pare un po' oziosa e un po' banale messa in questi termini. Dunque, scusatemi, ma ho deciso di tacerne.
Voto: 4/5
La storia in sé dovrebbe essere nota, essendo finita sui giornali di tutti il mondo, ma vale la pena ricordarla. Il giovane Mark Zuckerberg (Jesse Eisenberg, che io mi ricordavo ragazzino timido e un po' imbranato in Roger Dodger), un giovane studente di Harvard, per reazione al fatto di essere stato lasciato dalla sua ragazza, comincia a fare i primi esperimenti di un sito sociale in cui sia possibile mettere - volontariamente ed in maniera esclusiva - contenuti di vario genere e sottoporli al giudizio degli altri. Dal cattivo scherzo di Facemash, che gli costerà la sospensione dall'università, a TheFacebook, impresa nella quale si metterà insieme all'amico Eduardo Saverin (Andrew Garfield).
Il progetto cresce, ed oltre a suscitare le ire dei fratelli Winckelvoss (Armie Hammer e Joshua Pence), che si sentono defraudati di un'idea in cui avevano coinvolto lo stesso Zuckerberg, raggiunge anche Sean Parker (Justin Timberlake), fondatore di Napster, geniaccio informatico anche lui, ma ormai sul lastrico per i guai legali avuti e le cause che ha dovuto affrontare.
Mentre TheFacebook diventa Facebook più o meno come lo conosciamo oggi e raggiunge il milione di iscritti (trasformandosi in un affare di proporzioni impensabili), i rapporti tra i soggetti coinvolti si sfasciano completamente. Ne nasce una causa per milioni di euro, in cui Mark Zuckerberg e il suo avvocato non potranno che patteggiare e chiedere la clausola di riservatezza.
Fin qui la storia. Ora veniamo al film.
Non mi aspettavo un capolavoro (e non lo è), ma David Fincher non è certo l'ultimo arrivato e il film è costruito con grande maestria. Si parte dalla fine. Il processo. E, attraverso una serie di flashback, si getta luce sul come e perché si è arrivati a quel momento. Il ritmo è sostenutissimo, a tratti fulminante (mi ha ricordato in certi momenti Fight Club), i dialoghi sono ottimi, alcuni brillanti e quasi esilaranti (vedi ad esempio quello tra il rettore della Harvard University e i fratelli Winckelvoss), la colonna sonora è di grande effetto, la ricostruzione dell'ambiente delle "confraternite" delle università americane è efficace (probabilmente migliore di molti altri film).
Insomma, si arriva in fondo al film soddisfatti, perché ci hanno raccontato una storia interessante. E anche bene.
Non mi ha invece del tutto convinto la "morale". Cioè l'interpretazione che il regista e lo sceneggiatore hanno voluto dare di questa vicenda.
Mark Zuckerberg è un nerd di intelligenza superiore, afflitto dal problema di non essere accettato, di essere in qualche modo diverso dagli altri, da quella massa che da un lato disprezza, ma allo stesso tempo agogna. Scaricato dalla ragazza, vestito in pigiama e ciabatte, completamente immerso nei suoi codici, non cattivo, ma relazionalmente inabile. Si entusiasma per Sean Parker, che persegue solo i propri interessi e la vendetta personale, nel suo universo fatto di donne, droga e feste, non riconosce l'amicizia di Eduardo, dandole un calcio per invidia, si ritrova miliardario e solo. Come le dice la giovane avvocatessa, "non sei una cattiva persona, ma ti sforzi con tutto te stesso di essere stronzo".
Ne consegue - tra le le righe - un'interpretazione altrettanto morale dello strumento Facebook, nuovo spazio sociale per disadattati e gente che non è in grado di relazionarsi nella vita reale, espressione di una società superficiale, in cui l'amicizia come eravamo abituati a intenderla perde valore. O forse, al contrario, il film ci vuole suggerisce i rischi di una vita trasferita sulla rete, senza avere solide basi nella realtà. Ma in fondo è una facile morale che può essere applicata a qualunque strumento. Si potrebbe dire lo stesso per la televisione, il cellulare, i videogame, la musica, Internet in molte delle sue manifestazioni e qualunque altra cosa venga utilizzata come un sostitutivo della costruzione di un pensiero autonomo. Non è un problema dei mezzi che usiamo, ma sempre di persone e di consapevolezza.
In ogni caso, a me ha fatto impressione vedere raccontata sul grande schermo la "banalità delle origini", cioè come quello che è un fenomeno mondiale (su cui si fanno studi sociologici, si passa parte del nostro tempo ecc.) nasce in fondo solo per dare un seguito ai contatti più superficiali e magari trasformarli in occasioni di "rimorchio".
Bene che Fincher si sia mantenuto abbastanza in equilibrio su questa linea sottile, senza spaccare il mondo in buoni e cattivi. Tutti in fondo ci vengono presentati come persone dotate di una sufficiente complessità per non diventare solo macchiette, sebbene non immuni da tratti un po' stereotipati.
Un po' come tutti gli apologhi, alla fine, - uscendo dalla sala - ognuno rimarrà delle proprie convinzioni, o forse si rafforzerà nelle stesse, per effetto della rilettura selettiva che di fronte a film e fenomeni di questo tipo è praticamente inevitabile.
La domanda poi tipicamente italiana se una cosa del genere sarebbe potuta nascere in Italia mi pare un po' oziosa e un po' banale messa in questi termini. Dunque, scusatemi, ma ho deciso di tacerne.
Voto: 4/5
giovedì 11 novembre 2010
Last night
Diciamo che questo potevo anche risparmiarmelo! ;-)
Ho deciso comunque di scriverne una breve recensione, perché è stato il mio primo film della stagione cinematografica autunno-inverno romana, dopo il rientro da Bruxelles. Quindi, vi beccate questa mia recensione controvoglia (devo pure dire che oggi il mio umore non è dei migliori, dopo la "lavata" che mi sono presa in motorino e il cellulare impazzito per l'acqua).
Dunque, la storia non è certamente originale. Michael (Sam Worthington) e Joanna (Keira Knightley) sono sposati da tre anni e stanno insieme dai tempi del college. Si amano e il loro matrimonio sostanzialmente funziona, fino a quando lui parte per un viaggio di lavoro cui partecipa la sua nuova collega di lavoro, Laura (Eva Mendes), e lei riceve la visita di Alex (Guillame Canet), l'uomo con cui ha avuto una storia nel breve periodo durante il quale si era lasciata con Michael, prima del matrimonio.
Tutti e due dovranno fare i conti con la tentazione e l'attrazione rappresentata da ciò che non si conosce o ciò cui si è rinunciato, rispetto alla pacata felicità del quotidiano. Il tutto condito da dialoghi tra il cinico e l'adolescenziale, che più di una volta strappano la risata. Per tacere della stereotipicità dei personaggi, Keira Knightley nel ruolo della donna fragile e troppo cerebrale (incline alle involuzioni mentali), Eva Mendes in quello della tentatrice dalle forme generose (esplicita e provocatrice), i due uomini, l'uno sentimentale e incerto, l'altro infine vinto dall'istinto.
Insomma, non metto in dubbio che il tema sia interessante e in qualche modo universale, né che il mistero dell'amore, la difficile dinamica di passione e sentimento, la convivenza col dubbio, la difficoltà delle scelte siano situazioni che continuamente si affacciano alla vita di noi tutti. In fondo, fa parte di una forma di convenienza sociale pensare che un rapporto di coppia sia qualcosa di semplice, che una volta costruito viva di vita propria e che si possa fare a meno di rifondarlo giorno per giorno; d'altra parte, a volte penso che la cerebralità sia un danno della società contemporanea, poiché introduce un eccesso di meta-riflessione in cui tavolta rimaniamo intrappolati.
Mi comincio a chiedere se siamo davvero più felici delle generazioni precedenti, certamente meno abituate a farsi domande sul proprio benessere psicologico e la propria felicità in quanto più assorbiti da problemi concreti. O forse si tratta in qualche modo di una condanna alla consapevolezza con cui imparare a convivere. Ma, alla fine, anche il fatto di domandarselo dimostra che è un meccanismo dal qualche non riusciamo veramente a liberarci...
In ogni caso, assistere sul grande schermo a questo melodramma imperfetto, un po' banale e un po' sclerotizzato, e che non aggiunge niente a quanto già detto in modi certamente più profondi, è davvero troppo.
Il prossimo film va assolutamente scelto con maggiore accuratezza. :-)
Voto: 1,5/5
Ho deciso comunque di scriverne una breve recensione, perché è stato il mio primo film della stagione cinematografica autunno-inverno romana, dopo il rientro da Bruxelles. Quindi, vi beccate questa mia recensione controvoglia (devo pure dire che oggi il mio umore non è dei migliori, dopo la "lavata" che mi sono presa in motorino e il cellulare impazzito per l'acqua).
Dunque, la storia non è certamente originale. Michael (Sam Worthington) e Joanna (Keira Knightley) sono sposati da tre anni e stanno insieme dai tempi del college. Si amano e il loro matrimonio sostanzialmente funziona, fino a quando lui parte per un viaggio di lavoro cui partecipa la sua nuova collega di lavoro, Laura (Eva Mendes), e lei riceve la visita di Alex (Guillame Canet), l'uomo con cui ha avuto una storia nel breve periodo durante il quale si era lasciata con Michael, prima del matrimonio.
Tutti e due dovranno fare i conti con la tentazione e l'attrazione rappresentata da ciò che non si conosce o ciò cui si è rinunciato, rispetto alla pacata felicità del quotidiano. Il tutto condito da dialoghi tra il cinico e l'adolescenziale, che più di una volta strappano la risata. Per tacere della stereotipicità dei personaggi, Keira Knightley nel ruolo della donna fragile e troppo cerebrale (incline alle involuzioni mentali), Eva Mendes in quello della tentatrice dalle forme generose (esplicita e provocatrice), i due uomini, l'uno sentimentale e incerto, l'altro infine vinto dall'istinto.
Insomma, non metto in dubbio che il tema sia interessante e in qualche modo universale, né che il mistero dell'amore, la difficile dinamica di passione e sentimento, la convivenza col dubbio, la difficoltà delle scelte siano situazioni che continuamente si affacciano alla vita di noi tutti. In fondo, fa parte di una forma di convenienza sociale pensare che un rapporto di coppia sia qualcosa di semplice, che una volta costruito viva di vita propria e che si possa fare a meno di rifondarlo giorno per giorno; d'altra parte, a volte penso che la cerebralità sia un danno della società contemporanea, poiché introduce un eccesso di meta-riflessione in cui tavolta rimaniamo intrappolati.
Mi comincio a chiedere se siamo davvero più felici delle generazioni precedenti, certamente meno abituate a farsi domande sul proprio benessere psicologico e la propria felicità in quanto più assorbiti da problemi concreti. O forse si tratta in qualche modo di una condanna alla consapevolezza con cui imparare a convivere. Ma, alla fine, anche il fatto di domandarselo dimostra che è un meccanismo dal qualche non riusciamo veramente a liberarci...
In ogni caso, assistere sul grande schermo a questo melodramma imperfetto, un po' banale e un po' sclerotizzato, e che non aggiunge niente a quanto già detto in modi certamente più profondi, è davvero troppo.
Il prossimo film va assolutamente scelto con maggiore accuratezza. :-)
Voto: 1,5/5
lunedì 1 novembre 2010
Bruxelles, ma belle! (Seconda parte - i luoghi e le cose)
Come dice la canzone di Jaune Toujours, Ici Bxl, (che sta alla città di Bruxelles come Empire state of mind di Jay-Z sta a New York), Bruxelles non è certo Parigi, non è New York, eppure non le manca una certa vitalità e fascino (vedi anche la prima puntata!).
Di guide gastronomiche, culturali e artistico-architettoniche della città in rete ce n'è quante ne volete. La mia sarà una guida sui generis, più che altro una guida del cuore e della memoria...
A me di questa città mancheranno (in ordine sparso):
- le gaufres e i camioncini che tutti i giorni si fermano agli angoli delle strade per venderle (in particolare quello di Avenue de la Toison d'Or, pochi metri da casa mia, con il suo irresistibile profumo di pasta lievitata zuccherata);
- la vista della città all'imbrunire dalle grandi finestre del mio appartamento (con l'imponente chiesa del Sablon, la torre della cattedrale, i palazzi illuminati, l'Atomium e lo stadio sullo sfondo) ;
- i grandi murales a fumetti dipinti su pezzi di pareti di case aggettanti sulla strada;
- Dille & Kamille e il tempo infinito passato a studiare tutti i piccoli oggetti per la cucina (per non parlare delle buonissime marmellate che mi sono perfino portata in Italia);
- i burri salati, con le loro mille marche e varianti che riempiono un'intera ala del frigorifero del supermercato;
- le brasseries di cucina belga, da Fin de Siècle a Les brassins, da Ploegmans a Belgo Belge, con le loro carbonnades, gli stoemps, le frites, i tiramisu agli speculoos ecc.;
- il quartiere africano di Matongé e la zona di Saint Boniface con i loro negozietti che vendono le stoffe colorate e i prodotti più improbabili e i tantissimi ristoranti etnici;
- le frites (in cartoccio) con la salsa che volete voi (io preferisco il ketchup), in particolare quelle di place Flagey, nonostante il tipo lentissimo che gestisce il baracchino e la fila ovviamente interminabile;
- i pub, come il Delirium tremens, che hanno sulla carta centinaia di birre (bionde, bianche, scure, d'abbazia, artigianali), con i loro interni fumosi e semibui, con le pareti decorate di vassoi e lampade con i marchi delle birre;
- la sala da the di Rue de Rollebeek, dove il timer ricorda quando l'infusione è perfetta e gli scones con la salsa alla vaniglia sono divini;
- la boulangerie Paul che sarà pure estremamente industriale e commerciale (c'è persino all'aeroporto di Charleroi), ma per chi viene da posti che non siano la Francia o il Belgio resta il paradiso delle brioches, dei croissants, dei pains au chocolat, delle quiches alle verdure, del pane ai cereali...;
- le cioccolaterie, quelle artigianali su tutte, sebbene anche Leonidas e Neuhaus si difendano bene;
- i supermercati con le affettatrici automatiche per il pane e i grandi spremiagrumi per portarsi a casa solo il succo di arancia, piuttosto che pesanti buste di arance, ma anche con intere pareti di cioccolata e decine di varianti delle buonissime barrette Galler, con la vasta scelta di birre (ho amato la Ciney), ma anche di vini, i tanti tipi di zucchero (ho adorato la cassonade brune);
- i negozi di fumetti (in Italia praticamente inesistenti) che, oltre a vendere tutto l'immaginabile in termini di albi, hanno anche delle bellissime stampe di tavole e disegni da incorniciare;
- il parchetto di palazzo Egmont, incastonato tra la circonvallazione e il quartiere del Sablon, oasi verde e scorciatoia da casa mia per il centro, nonché tutti gli altri immensi parchi della città;
- il grande spiazzo davanti alla sede centrale della Ing Direct, dove ogni tardo pomeriggio ragazzi di ogni età si esibiscono con i loro skateboard e le loro biciclette snodate;
- le gallerie antiquarie e d'arte e i mercatini brocante (di antiquatariato) e vide grenier (delle pulci) de Les Marolles;
- l'enorme mercato della domenica mattina intorno alla Gare du Midi, con i suoi banchi che rappresentano praticamente ogni paese del mondo e dove è possibile trovare di tutto;
- il quartiere di Saint Gilles, con il suo clima giovane senza essere fighetto, la sua maison du peuple al centro della piazza principale, i suoi locali dove c'è quasi sempre un concerto;
- la zona di Saint Gery con il suo mercato coperto trasformato in spazio espositivo e pub e la straordinaria concentrazione di caffè, birrerie e tavolini all'aperto;
- il buonissimo ristorante thailandese Khun May di Rue du Commerce, purtroppo scoperto troppo tardi;
- le numerose possibilità di ascoltare buona musica (dalle rassegne gratuite nei pub come Stoemp!, all'ottima programmazione di posti come il Botanique e l'Ancienne Belgique);
- il b&b dei miei amici Dominique e Armel, persone dotate di un'umanità e generosità squisita;
- la pizza de La brace, dove saranno pure antipatici, come dicono alcuni, ma si mangia la pizza più buona di Bruxelles, che potrebbe fare concorrenza anche a molte pizze italiane;
- la Maison des crepes di Rue du Midi, dove per un attimo ci si sente in Bretagna davanti a una galette de sarrasin innaffiata da buon sidro;
- il cinema Vendome con la sua aria antica e la buona programmazione;
- la zona di Sainte Catherine con i suoi ristoranti di pesce e la sua atmosfera tra il decadente e il multietnico;
- l'ascensore Poelaert (struttura che si staglia sullo sfondo di un'immensa terrazza panoramica all'ombra dell'orribile Palazzo di Giustizia) che funziona giorno e notte per collegare Louise a Rue Haute (tra Sablon e Marolles);
- la possibilità di arrivare, comodamente seduti in treno, in un'ora e mezzo a Parigi e in due ore a Londra ;
- la Galleria della Regina e il bistrot da pranzo veloce che si trova subito dopo l'angolo su Rue d'Arenberg;
- il baretto ricavato nello "scatinato" del cinema Nova, che non sai mai se troverai aperto;
- le buonissime pitte greche ripiene di Le Perroquet (nella zona alta del Sablon);
- il Bozar e le sue mostre;
- il museo Magritte e il suo cane impagliato;
- gli speculoos, la crema spalmabile agli speculoos, il gelato agli speculoos, che o li odi o li ami;
- le centinaia di folding bikes (Brompton, Dahon ecc.) che, nonostante le avvertenze di pericolosità dei bruxellesi, continuano a sfrecciare per tutta la città e a invadere la critical mass di Porte de Namur (ma state attenti che non ve la rubino, come è successo a me);
- scoprire che Bruxelles non è affatto piatta, come tutti credono, bensì tutta salite e discese...;
- l'ibridazione architettonica, culturale, linguistica che non sempre produce bellezza, ma certamente suscita interesse;
- le gallerie commerciali (di ottocentesca memoria), che puoi usare per passeggiare e guardare vetrine, come scorciatoia o come luogo per ripararti dal freddo;
- il ristorante (nonché associazione culturale belgo-africana) l'Horloge du Sud, dove la somma di belgi e africani produce un servizio lentissimo, ma l'atmosfera è rilassante, divertente e si mangia bene senza spendere troppo (e spesso ascoltando buona musica);
- le kickers, perché in Italia si trovano solo quelle da bambini, mentre l'atelier di Bruxelles fa delle collezioni di scarpe da adulti molto molto belle.
Bene, direi che è abbastanza, altrimenti cominciate a chiedervi perché non sono rimasta là. Ma, come probabilmente sapete per esperienza, per ciò che ci piace di solito c'è almeno altrettanto che non ci piace.
Del resto, le esperienze, i posti, i viaggi, le persone vanno presi un po' come la vita, con i suoi alti e bassi e il suo mix irripetibile di sensazioni che sta a ciascuno interpretare e accomodare rispetto a se stessi.
Quindi, eccomi Italia, eccomi Roma, eccomi Puglia.
Si ri-volta pagina, pronti a vivere tutto intensamente come sempre, senza dimenticare nulla di quello che si è vissuto.
Di guide gastronomiche, culturali e artistico-architettoniche della città in rete ce n'è quante ne volete. La mia sarà una guida sui generis, più che altro una guida del cuore e della memoria...
A me di questa città mancheranno (in ordine sparso):
- le gaufres e i camioncini che tutti i giorni si fermano agli angoli delle strade per venderle (in particolare quello di Avenue de la Toison d'Or, pochi metri da casa mia, con il suo irresistibile profumo di pasta lievitata zuccherata);
- la vista della città all'imbrunire dalle grandi finestre del mio appartamento (con l'imponente chiesa del Sablon, la torre della cattedrale, i palazzi illuminati, l'Atomium e lo stadio sullo sfondo) ;
- i grandi murales a fumetti dipinti su pezzi di pareti di case aggettanti sulla strada;
- Dille & Kamille e il tempo infinito passato a studiare tutti i piccoli oggetti per la cucina (per non parlare delle buonissime marmellate che mi sono perfino portata in Italia);
- i burri salati, con le loro mille marche e varianti che riempiono un'intera ala del frigorifero del supermercato;
- le brasseries di cucina belga, da Fin de Siècle a Les brassins, da Ploegmans a Belgo Belge, con le loro carbonnades, gli stoemps, le frites, i tiramisu agli speculoos ecc.;
- il quartiere africano di Matongé e la zona di Saint Boniface con i loro negozietti che vendono le stoffe colorate e i prodotti più improbabili e i tantissimi ristoranti etnici;
- le frites (in cartoccio) con la salsa che volete voi (io preferisco il ketchup), in particolare quelle di place Flagey, nonostante il tipo lentissimo che gestisce il baracchino e la fila ovviamente interminabile;
- i pub, come il Delirium tremens, che hanno sulla carta centinaia di birre (bionde, bianche, scure, d'abbazia, artigianali), con i loro interni fumosi e semibui, con le pareti decorate di vassoi e lampade con i marchi delle birre;
- la sala da the di Rue de Rollebeek, dove il timer ricorda quando l'infusione è perfetta e gli scones con la salsa alla vaniglia sono divini;
- la boulangerie Paul che sarà pure estremamente industriale e commerciale (c'è persino all'aeroporto di Charleroi), ma per chi viene da posti che non siano la Francia o il Belgio resta il paradiso delle brioches, dei croissants, dei pains au chocolat, delle quiches alle verdure, del pane ai cereali...;
- le cioccolaterie, quelle artigianali su tutte, sebbene anche Leonidas e Neuhaus si difendano bene;
- i supermercati con le affettatrici automatiche per il pane e i grandi spremiagrumi per portarsi a casa solo il succo di arancia, piuttosto che pesanti buste di arance, ma anche con intere pareti di cioccolata e decine di varianti delle buonissime barrette Galler, con la vasta scelta di birre (ho amato la Ciney), ma anche di vini, i tanti tipi di zucchero (ho adorato la cassonade brune);
- i negozi di fumetti (in Italia praticamente inesistenti) che, oltre a vendere tutto l'immaginabile in termini di albi, hanno anche delle bellissime stampe di tavole e disegni da incorniciare;
- il parchetto di palazzo Egmont, incastonato tra la circonvallazione e il quartiere del Sablon, oasi verde e scorciatoia da casa mia per il centro, nonché tutti gli altri immensi parchi della città;
- il grande spiazzo davanti alla sede centrale della Ing Direct, dove ogni tardo pomeriggio ragazzi di ogni età si esibiscono con i loro skateboard e le loro biciclette snodate;
- le gallerie antiquarie e d'arte e i mercatini brocante (di antiquatariato) e vide grenier (delle pulci) de Les Marolles;
- l'enorme mercato della domenica mattina intorno alla Gare du Midi, con i suoi banchi che rappresentano praticamente ogni paese del mondo e dove è possibile trovare di tutto;
- il quartiere di Saint Gilles, con il suo clima giovane senza essere fighetto, la sua maison du peuple al centro della piazza principale, i suoi locali dove c'è quasi sempre un concerto;
- la zona di Saint Gery con il suo mercato coperto trasformato in spazio espositivo e pub e la straordinaria concentrazione di caffè, birrerie e tavolini all'aperto;
- il buonissimo ristorante thailandese Khun May di Rue du Commerce, purtroppo scoperto troppo tardi;
- le numerose possibilità di ascoltare buona musica (dalle rassegne gratuite nei pub come Stoemp!, all'ottima programmazione di posti come il Botanique e l'Ancienne Belgique);
- il b&b dei miei amici Dominique e Armel, persone dotate di un'umanità e generosità squisita;
- la pizza de La brace, dove saranno pure antipatici, come dicono alcuni, ma si mangia la pizza più buona di Bruxelles, che potrebbe fare concorrenza anche a molte pizze italiane;
- la Maison des crepes di Rue du Midi, dove per un attimo ci si sente in Bretagna davanti a una galette de sarrasin innaffiata da buon sidro;
- il cinema Vendome con la sua aria antica e la buona programmazione;
- la zona di Sainte Catherine con i suoi ristoranti di pesce e la sua atmosfera tra il decadente e il multietnico;
- l'ascensore Poelaert (struttura che si staglia sullo sfondo di un'immensa terrazza panoramica all'ombra dell'orribile Palazzo di Giustizia) che funziona giorno e notte per collegare Louise a Rue Haute (tra Sablon e Marolles);
- la possibilità di arrivare, comodamente seduti in treno, in un'ora e mezzo a Parigi e in due ore a Londra ;
- la Galleria della Regina e il bistrot da pranzo veloce che si trova subito dopo l'angolo su Rue d'Arenberg;
- il baretto ricavato nello "scatinato" del cinema Nova, che non sai mai se troverai aperto;
- le buonissime pitte greche ripiene di Le Perroquet (nella zona alta del Sablon);
- il Bozar e le sue mostre;
- il museo Magritte e il suo cane impagliato;
- gli speculoos, la crema spalmabile agli speculoos, il gelato agli speculoos, che o li odi o li ami;
- le centinaia di folding bikes (Brompton, Dahon ecc.) che, nonostante le avvertenze di pericolosità dei bruxellesi, continuano a sfrecciare per tutta la città e a invadere la critical mass di Porte de Namur (ma state attenti che non ve la rubino, come è successo a me);
- scoprire che Bruxelles non è affatto piatta, come tutti credono, bensì tutta salite e discese...;
- l'ibridazione architettonica, culturale, linguistica che non sempre produce bellezza, ma certamente suscita interesse;
- le gallerie commerciali (di ottocentesca memoria), che puoi usare per passeggiare e guardare vetrine, come scorciatoia o come luogo per ripararti dal freddo;
- il ristorante (nonché associazione culturale belgo-africana) l'Horloge du Sud, dove la somma di belgi e africani produce un servizio lentissimo, ma l'atmosfera è rilassante, divertente e si mangia bene senza spendere troppo (e spesso ascoltando buona musica);
- le kickers, perché in Italia si trovano solo quelle da bambini, mentre l'atelier di Bruxelles fa delle collezioni di scarpe da adulti molto molto belle.
Bene, direi che è abbastanza, altrimenti cominciate a chiedervi perché non sono rimasta là. Ma, come probabilmente sapete per esperienza, per ciò che ci piace di solito c'è almeno altrettanto che non ci piace.
Del resto, le esperienze, i posti, i viaggi, le persone vanno presi un po' come la vita, con i suoi alti e bassi e il suo mix irripetibile di sensazioni che sta a ciascuno interpretare e accomodare rispetto a se stessi.
Quindi, eccomi Italia, eccomi Roma, eccomi Puglia.
Si ri-volta pagina, pronti a vivere tutto intensamente come sempre, senza dimenticare nulla di quello che si è vissuto.