venerdì 30 maggio 2025

La nueva ola. Festival del cinema spagnolo e latinoamericano. Cinema Barberini, 7- 11 maggio 2025

La nueva ola, il festival del cinema spagnolo e latinoamericano, giunto quest’anno alla diciottesima edizione, è un appuntamento da non perdere nella proposta culturale romana, perché – come vado dicendo da diversi anni – il cinema spagnolo è cresciuto tantissimo nel corso del tempo e va ben al di là dei nomi dei registi più famosi, bensì presenta un panorama di registi e sceneggiatori molto interessante e che conosciamo ancora troppo poco a causa di una distribuzione che non garantisce una copertura ottimale di questa cinematografia.

Ultimamente, poi, quando vado a un festival mi diverto a trovare dei fili conduttori nei film che vedo e più in generale nelle selezioni dei film scelti dagli organizzatori; mi pare che questa ricerca del fil rouge riveli in qualche modo delle tendenze e delle sensibilità nella cinematografia internazionale e in quella di specifici paesi. Ad esempio, in questo caso, ho individuato nella “lotta” individuale e sociale uno dei temi ricorrenti all’interno di tutti i film che ho visto, seppure con accezioni diverse.

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Querido Trópico

Il primo film che ho visto – preceduto dall’interessante corto colombiano Akababuru: expresión de asombro della regista del popolo indigeno Yagarí Irati Dojura Landa – è stato Querido Trópico, il film della regista Ana Endara, ambientato a Panama City.

Protagoniste di questo film sono Ana María (Jenny Navarrete), una immigrata colombiana che lavora nel settore della cura delle persone anziane, e Mercedes (la straordinaria Paulina García già apprezzata in Gloria), una signora benestante, anche lei proveniente dalla Colombia, che però a Panama ha costruito il proprio successo economico e, ora che è avanti con gli anni, vive in una grande casa con la governante.

Ana Marìa viene contattata dalla figlia di Mercedes per occuparsi della madre che comincia a mostrare i primi segni dell’Alzheimer, e dunque si trasferisce a casa della donna, che inizialmente la rifiuta e la accusa di essere una ladra. A poco a poco però le due donne si incontrano nelle rispettive fragilità, e forse anche nel loro essere incomprensibili per il mondo intorno.

Ana Marìa per tutti è una donna incinta, ma in realtà la sua pancia è finta (ha un cuscino). Perché si finga incinta non viene mai spiegato completamente: forse perché questo rende gli altri più tolleranti e generosi con lei, o forse perché ha perso un figlio in passato e ora è ossessionata dalla maternità, o ancora perché l’essere incinta la rende parte di una comunità, quella delle future mamme, in cui si sente accettata. L’unica che scoprirà la verità sarà Mercedes, ma sarà anche colei che non la giudicherà.

Dall’altro lato, Mercedes perde progressivamente il controllo della propria vita, delle proprie emozioni e dei propri sentimenti: nei momenti di lucidità soffre per questo, così come soffre del fatto che sua figlia non capisce o non accetta. A poco a poco Mercedes si trasforma in una donna bisognosa di supporto e affetto, senza giudizio, e l’unica in grado di offrirle queste cose è Ana Marìa.

Ana Marìa e Mercedes diventano una coppia quasi inseparabile, un po’ come i due parrocchetti in gabbia che vivono in casa di Mercedes e che più volte vengono inquadrati.

Sembrerebbe un film di genere anche piuttosto convenzionale, a tratti quasi documentaristico, ma secondo me la regista e sceneggiatrice sceglie di non spiegare tutto, di seminare indizi, di lasciare buchi nella narrazione per offrire allo spettatore interpretazioni possibili e alternative. Io ho fatto tutta una serie di ipotesi su alcuni snodi narrativi di cui però non ho trovato traccia in alcuna recensione, il che forse vuol dire che ho sovrainterpretato, oppure no. Chi lo sa.

Ho comunque apprezzato molto questa pellicola e non sono d’accordo con chi dice che non suscita empatia, perché per me che ho vissuto la malattia di mia madre vedere questa storia sullo schermo mi ha fatto rivivere moltissime emozioni, negative e anche positive.

Voto: 3,5/5



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Soy Nevenka

Il nuovo film di Icíar Bollaín (regista già apprezzata per il bellissimo Maixabel visto a una precedente edizione del festival) attinge ancora una volta a una storia vera e soprattutto è ancora una volta un film militante dal punto di vista politico e sociale.

Soy Nevenka è la storia di Nevenka Fernández (qui interpretata da Mireia Oriol), che tra il 1999 e il 2000, quando aveva solo 25 anni – rientrata nel suo paese, Ponferrada, dopo gli studi di economia a Madrid – fu chiamata dall’allora candidato sindaco del partito popolare, nonché amico di famiglia, Ismael Álvarez (Urko Olazabal) a far parte della giunta. L’uomo, dopo averla corteggiata fin da subito, riuscì ad avviare una relazione con la giovane, che però dopo poco decise di troncare. Iniziò così una vera persecuzione, con forme di molestia pesante e anche un’azione reiterata finalizzata ad attaccare l’immagine pubblica della donna.

Dopo un periodo di depressione, Nevenka – anche grazie al supporto di poche persone di fiducia – decise di denunciare l’uomo e il processo, contro ogni previsione, le diede ragione. Fu il primo caso di questo tipo vinto da una donna contro un uomo politico molto apprezzato e inserito nel territorio, nonché lanciato verso posizioni più alte della carriera politica.

Se la condanna è stata importante nella storia spagnola e ha costituito un precedente significativo per i casi successivi, Nevenka Fernández ha inevitabilmente pagato un prezzo molto alto a livello personale, per il modo in cui i suoi concittadini, i suoi colleghi di partito, i suoi parenti, i media e in generale l’opinione pubblica l’hanno giudicata e hanno vivisezionato i suoi comportamenti all’interno di una cornice a forte matrice patriarcale, costringendola a lasciare il suo paese e a farsi una nuova vita altrove.

Film be scritto, ben fatto e ben recitato. Di grande impatto.

Voto: 4/5



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Casa en flames

Casa en flames è il nuovo film di Dani de la Orden che si inserisce appieno – come dicono gli organizzatori del festival – nel sottogenere dei film sulla “ricca borghesia catalana annoiata” 😉

Protagonista di questo film è una famiglia disfunzionale il cui perno centrale intorno a cui tutto ruota è la madre Montse (Emma Vilarasau), una donna divorziata dal marito e con due figli grandi, la quale convoca tutta la famiglia – compreso l’ex marito – nella villa a Cadaqués ereditata dalla zia per trascorrervi tutti insieme un fine settimana prima della vendita.

Che in questa famiglia e in questa donna ci sia qualcosa di irrisolto si capisce fin da subito, quando Montse, recuperata in macchina dal figlio e dalla nuova fidanzata, in una sosta a casa della madre fa una scelta a dir poco bizzarra, che in qualche modo comprenderemo solo nel corso del film.

Nella villa in Costa Brava troveremo dunque, oltre a Montse, il figlio David (Enric Auquer) con la nuova fidanzata, la figlia Júlia (Maria Rodríguez Soto) con il marito e le due bambine, l’ex marito di Montse, Carlos (Alberto San Juan) con la nuova compagna Blanca (Clara Segura). Ognuno di loro dimostra di avere nodi irrisolti, fragilità e insicurezze più o meno grandi, e così - tra una gita in yacht e un lancio col paracadute – a poco a poco tutti i nodi vengono al pettine e soprattutto emerge in tutta la sua tragicità la figura manipolatrice di Montse, una donna fondamentalmente sola e alla ricerca, con ogni mezzo, dell’affetto altrui.

Ne viene fuori un quadro familiare comico ma anche profondamente tragico, supportato da una sceneggiatura a orologeria condita da discrete quantità di vetriolo, e che chiede allo spettatore un ruolo più attivo di quanto non appaia a prima vista nello sforzo di non puntare il dito sui vizi e i difetti dei singoli, bensì sulle storture proprie delle dinamiche familiari, che non risparmiano nessuno, comprese le famiglie benestanti.

Voto: 3,5/5



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El 47

El 47, il film di Marcel Barrena che ha fatto incetta di Goya all’ultima edizione dei premi, è ispirato alla storia vera di Manolo Vital (qui interpretato da Eduard Fernández), autista di autobus a Barcellona, arrivato in Catalogna alla fine degli anni Cinquanta dopo essere andato via dall’Extremadura, insieme alla figlia Joana (Zoe Bonafonte). Manolo fu tra coloro che contribuì a costruire il primo nucleo del quartiere vicino a Torre Barò, sulla montagna alla periferia di Barcelona, dove molte altre famiglie provenienti da altre parti della Spagna si installarono dopo la guerra, trasformando la baraccopoli iniziale in un quartiere vero e proprio.

Questi immigrati interni lavoravano tutti in città, facendo i lavori più disparati, ma tornando ogni sera in un posto dove anche i servizi minimi, come l’elettricità e l’acqua, non erano garantiti ed erano oggetto di quotidiane battaglie.

Dopo aver fatto richiesta dell’attivazione di servizi di trasporto pubblico attraverso i normali canali della burocrazia e non aver ottenuto nulla, Manolo si risolse a “sequestrare” l’autobus che guidava da vent’anni, il 47 appunto, e ad arrivare a Torre Barò. Per questo finì sotto processo e solo molto più avanti fu reintegrato.

Ancora una volta una lotta per i diritti, e di fatto una lotta di un qualche Davide contro Golia, in cui, nonostante il successo, il Davide di turno ha dovuto rimetterci personalmente.

Anche in questo caso il film è ben fatto e ben recitato, e sicuramente ha una valenza che va ben oltre quella cinematografica e fa riflettere su tanti temi anche della contemporaneità. A me – come spesso accade ultimamente – suscita anche una forma di frustrazione per diversi motivi. Mi chiedo perché la politica è così lenta rispetto alle esigenze del territorio, perché non si può fare a meno del sacrificio dei singoli per farsi ascoltare, perché in alcuni casi bisogna scegliere persino la strada dell’illegalità per innescare un cambiamento, e mi chiedo infine chi farà le lotte per i diritti e per l’equità sociale in un mondo in cui la frammentazione ha preso il sopravvento e i corpi intermedi sono in profonda crisi.

Insomma El 47 mi ha dato tanto da pensare.

Voto: 3,5/5


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