Seguo Liv Ferracchiati ormai da diversi anni, da quando ho scoperto il suo teatro con la Trilogia sull’identità.
Ogni volta che decido di andare a vedere un suo spettacolo, so dunque cosa mi aspetta: una scenografia minimale, pochi personaggi in scena, un flusso di coscienza destrutturato, una parte di nonsense, e tutto questo va accolto esattamente così com’è per poter essere apprezzato.
Con La morte a Venezia Liv Ferracchiati si confronta con il capolavoro di Thomas Mann, ma lo fa alla sua maniera, in assoluta libertà, come se il testo di partenza fosse un pretesto o – forse meglio – uno spunto per trattare tematiche care, tra cui la bellezza, l’ispirazione artistica, l’invecchiamento.
L’aspetto però più interessante di questo nuovo spettacolo è la sua forma. Sul palco ci sono dei teli sospesi, uno dietro l’altro, leggermente sfalsati. Davanti una telecamera che inquadra un cesto pieno di fragole. Dopo la proiezione di una frase di Iosif Brodskij tratta da Fondamenta degli incurabili che ha la città di Venezia e la sua bellezza come protagoniste (e un’altra frase dallo stesso libro chiuderà lo spettacolo), sul telo vediamo proiettato il cesto di fragole e una voce fuori campo (quella di Liv) comincia a parlare, mentre Liv a un certo punto compare sul palco, ma non parla direttamente, mentre sentiamo la sua voce come fossero i suoi pensieri.
Intanto Liv prende il controllo della videocamera e comincia a inquadrare il mondo intorno a sé, che è poi il teatro e il pubblico, e vediamo tutto questo sul telo sospeso. A un certo punto, nella carrellata sul pubblico, una persona diventa oggetto di attenzione specifica, e questa giovane donna (Alice Raffaelli) scende verso il palco e comincia a interagire con Liv, a danzare, a usare lei stessa la telecamera, a parlare.
Liv Ferracchiati ha sempre amato un teatro che si fa contaminazione di linguaggi (video, danza, parola), ma in questo caso mi pare che tale scelta performativa raggiunga il suo apice, con risultati davvero molto interessanti.
Lo sguardo dello spettatore si sposta continuamente tra quello che vede accadere sul palco e quello che vede sullo schermo, che non è mai esattamente la stessa cosa e in alcuni casi è addirittura una completa reinterpretazione della “realtà”. La messa in scena costringe dunque a cambiare continuamente punto di vista, e a interrogarsi su quanto le percezioni alterino i significati nel momento in cui si frappone una macchina fotografica o una videocamera tra noi e la realtà.
Il risultato visivo sia sul piano emotivo che intellettuale è molto interessante. E di per sé basterebbe, anzi forse sarebbe bastato.
Personalmente sono le parole la parte che ho trovato meno riuscita e più forzata di questo spettacolo, e sinceramente se devo pensare a cosa mi rimarrà di esso non saranno sicuramente le parole (se non pochissime suggestioni), bensì l’impressione visiva e la bellezza di alcuni mix tra coreografie e immagine proiettata.
Voto: 3/5
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