Nel programma teatrale di quest’anno non so se non mi ero accorta della programmazione di questo spettacolo, oppure lo avevo considerato un po’ estraneo ai miei interessi nonostante la presenza di Elisabetta Pozzi. Poi, su sollecitazione di F., mi sono convinta ad andare e devo dire che non me ne sono pentita.
I maneggi per maritare una figlia è un’opera in dialetto genovese scritta a cavallo tra Ottocento e Novecento da un drammaturgo genovese di nome Niccolò Bacigalupo. L’opera è stata resa famosa dalla messa in scena - registrata anche per la televisione nel 1959 – interpretata dal genovese doc Gilberto Govi e da sua moglie Rina Gaioni.
A riportare in scena questo classico del teatro genovese è un altro genovese doc, Tullio Solenghi, che cura l’adattamento insieme a Margherita Rubino, la regia e l’interpretazione del personaggio principale, Steva, ossia il ruolo che fu di Govi. Nel ruolo invece di sua moglie Giggia la mia adorata Elisabetta Pozzi, anche lei genovese, e del resto non poteva che essere così per un testo in cui la genovesità è un tratto fortemente caratterizzante.
I maneggi per maritare una figlia è una commedia in due atti: il primo è ambientato a Genova nella casa di città dove Steva e Giggia vivono con la figlia Matilde in età da matrimonio, di cui è innamorato il cugino Cesare, ma che aspira invece al signor Riccardo, figlio di un senatore, il secondo è ambientato nella villa di campagna dove Steva, Giggia e Matilde hanno invitato anche la cugina Carlotta e suo fratello Cesare, nonché il signor Riccardo e il suo amico Pippo, e dove arriva a un certo punto anche il signor Venanzio.
È nel secondo atto che a poco a poco si va dispiegando il tipico intreccio narrativo da commedia degli equivoci sulla base del quale le cose prendono direzioni diverse da quelle che in particolare Giggia e Matilde si aspettano, ma che alla fine riusciranno a convergere verso un finale tutto sommato felice e ben accetto per tutti.
Tullio Solenghi sceglie una messa in scena molto rispettosa del testo e certamente coglie l’occasione per confezionare un vero e proprio omaggio a Gilberto Govi, di cui tra l’altro proprio in conclusione sentiamo la voce registrata come se provenisse dalla radio che Steva ha ricevuto in dono e che è giunta con un pacco da Buenos Aires.
In un certo senso proprio la fedeltà al testo e l’esplicita ispirazione alla messa in scena degli anni Cinquanta sono al contempo il punto di forza e il punto di debolezza dello spettacolo. Da un lato infatti lo spettatore fa un vero e proprio viaggio nel tempo, catapultato in un teatro che praticamente non esiste più, e ne riscopre le virtù semplici ma anche immortali, dall'altro il salto indietro nel tempo non può passare inosservato a livello di ritmi, di intreccio e di drammaturgia.
Non a caso, e a seconda delle inclinazioni individuali, nel pubblico c’è chi si fa trascinare dal fascino e dalla comicità un po’ vintage di questo testo, e si diverte molto, e chi – com'è il mio caso – non riesce completamente a superare la percezione di una distanza temporale che diventa a tratti emotiva, nonostante la bravura di tutti gli attori e i temi universali che sono sottesi a questo intreccio.
Ciò detto, si tratta di un’esperienza teatrale che sono contenta di aver fatto, e che aggiunge un ulteriore tassello al quadro complessivo del mio rapporto con il teatro.
Voto: 3/5
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